Archivio Autore: michiamomitia - Pagina 6

Cinque rose

 

Mi piace il numero 5. Cinque come le volte che ho amato in questa vita. Cinque come i miei 50 anni. Cinque come i biscotti che inzuppo nel caffèlatte al mattino.

Cinque come il numero perfetto per l’amore con una donna. Prima e dopo la cena, prima di mezzanotte, prima delle tre e al mattino al risveglio, ora indistinta , se non devi andare a lavorare. Per arrivare a quelle cinque, deve essere amore, vero. E se è amore, ti devi accorgere dopo ore ed ore che erano cinque.

Che bel numero. Per imparare a scriverlo da piccolo ci ho messo un casino di tempo, che assieme al sette non mi veniva la bella calligrafia. Ma il sette non mi piace, che dopo sette anni esatti mi sono separato e secondo me porta sfiga come le settimane che non mi passano mai. E a dirla tutta, sette in un giorno, di scopate, con una donna, beh o sei un eiaculatore precoce o pure lei si preoccupa.

Cinque va meglio, metà di dieci, e la storia contemporanea la calcolano in decenni e un cinque è un mezzo decennio. Consolante.

Ci penso mentre davanti a me un venditore di rose ondeggia cinque rose. Due rosse, una bianca, due gialle. Amore, amicizia, e il giallo non ricordo, forse gelosia. Belle.

Sono seduto al bancone del bar, davanti ad una  Gordon Scotch. Una pinta, che se è amore vero, c’è solo lei.

Come la donna che ami.

Pensavo al cinque, alla rata del mutuo, alla sigarette quasi finite, fossero cinque sarei almeno sereno, che a tirar l’una ci arrivi, e mi vedo davanti questa mano dalla pelle scuretta che agita le rose.

– “Vuoi, cinque, te le do tutte. Pochi soldi”.

– “Vedi donne qui? _ ribatto senza guardare il mio interlocutore _ Le rose sono per le donne, non per gli uomini soli”.

– “Signore, con un mazzo così la trovi”.

Mi giro a guardarlo questo screanzato, mi tocca far la fatica di alzar l’occhio dal livello della pinta di Gordon per vedere bene in faccia questo sfacciato che dice a me che con le sue rose cucco.

Lo sa chi sono io? No, cosa vuoi che sappia uno arrivato dal mondo degli schiavi. Mangian riso tutto il giorno quelli. E ce l’hanno piccolo. Loro. Se arrivano a sette, porta sfiga. Si sa.

Mi trovo davanti un cappuccio verde di un eskimo usato di quelli che portavo al liceo, quando ero comunista così.

Sotto una pelle splendente, come le olive, marron verde, e due occhi neri. Profondi. Non ci sono cinque là dentro.

– “Cacchio, ma quanti anni hai?”

– “Sedici, signore!”

– “Non raccontarmi palle, al massimo hai dodici anni”.

Gli sgancio cinque euro, mi prendo le cinque rose. Due rosse, una bianca, due gialle. Sorrido, chissà se una donna arriva adesso.

Macché. Siamo quattro gatti spelacchiati al bar.

E poi mi fermo. Che ci fa un dodicenne all’una di notte in un bar della stazione? Vende rose a quattro ubriaconi.

Dodici. Due volte cinque più due. Niente a confronto con i miei 50 anni, dieci volte cinque. Lo osservo con la coda dell’occhio mentre se ne va, il cappuccio calato sulla faccia. Gli ho preso tutte le rose, penso, adesso andrà a casa? La mamma lo aspetterà sveglia col caffélatte e cinque biscotti al cioccolato? O lo aspetteranno a cinquanta metri da qui gli adulti, per dargli altre venti rose da vendere e via andare…Che a un ragazzino mica si dice di no. Basta guardarlo negli occhi, in quel nero. Apri il portafoglio e ti lavi la coscienza.

Perché a me nessuno ha detto niente?

Sono il capo dei vigili, in Comune tutti mi danno del lei. Non c’è foglia che caschi dall’albero che io non senta. Non c’è storia che io non sappia.  E nessuno viene a dirmi, che nel mio Comune, un bambino vende le rose di notte all’una. E soprattutto, nessuno si accorge che è un bambino?

Nessuno si offende, manco il segretario della sezione della Lega Nord che ogni due per tre ( che fa sei, mica cinque, eh) mi manda gli esposti contro i bar dei cinesi e i kebab da asporto che sono covi di malandroni e portano malattie e viene lo scagotto a tutti.

Ecco, tutti con lo scagotto ma tutti ciechi. Manco uno che veda un ragazzino che vende rose nel profondo Nordest, illuminato e avanzato, locomotiva del paese, di notte, invece di star sotto le coperte a sognare di viaggiare in giro per il mondo e diventare ricco. Altro che il Trota.

Ma, visto come stanno le ferrovie, ci credo che succede questo, che siamo una locomotiva cieca, che sta per deragliare e chi ci sale è meglio se si fa il segno della croce.

E io me lo farei comunque il segno, che un paese dove i bimbi non sono di tutti ma diventano invisibili, è un posto marcio.

E io sono il capo dei vigili di un posto marcio. E non ho caffélatte e biscotti, né parole, davanti a questa Gordon, per alzarmi e correr dietro a quel ragazzino e dirgli “ti porto a casa io, c’ho cinque biscotti, cinque coperte, cinque amori che ti potevano fare da mamma”.

Pensavo di valere cinque, valgo zero.

Mestre, un libro

Lo presentiamo a Mestre al centro culturale Candiani il 5 novembre. 

Raccontiamo Mestre, la città dove viviamo. 

Una iniziativa no profit, un gioco di squadra coordinato da Massimiliano Nuzzolo.

E solo oggi scopro i nomi di tutti gli autori.

Anatomia di un bacio

I baci sbagliati hanno il suono desolante di uno sbattere di incisivi. Un tempo falsato, forzato da una voglia non condivisa di un’intimità che non c’è, ora o chissà mai.

Se è cercato solo da una parte quel bacio finirà inesorabilmente a trovare una barriera di denti e il colpo sarà netto. Stock!

Labbra schiuse che battono su incisivi superiori. Niente di più triste.

La solitudine fatta contatto.

Dopo ci sarà solo l’imbarazzo del tentativo maldestro, svanito in un colpo inatteso sulla corazza altrui e dall’altra parte ci sarà la sorpresa di aver involontariamente resistito ad una invasione di campo. Spirito di sopravvivenza? Probabile.

Un bacio involontario tra amici, se devia ridendo dalla guancia alle labbra, si ferma lì, si bea dell’effetto cuscinetto. Inoffensivo e soffice.

Se il bacio è invece azione silenziosa ma condivisa,  e lo intuisci eh, che prima c’è uno sguardo che ti fissa obliquo, poi il naso si avvicina e la bocca schiusa ti invoglia, sfacciata e rosea come una pianta carnivora che aspetta solo che l’enzima faccia il suo lavoro, allora, al contatto, morbido, è difficile staccarsi, e da lì cominci  a trovar la strada dell’altro.

Fermarsi diventa impossibile come  il non respirare e il cervello si spegne e, dal basso tuo che è poi uguale al basso mio, arriva l’invito a non mollare. E mordicchiare e leccare è un comando affamato di chi cerca il proprio e l’altrui bene, e lo scambio rende coraggiosi e arditi.

Le protezioni cadono, e non ci sono incisivi a bloccare il passaggio. La lingua cerca la sua strada, tra piroette e passaggi stretti, come un ballerino in una miniera, nera e asfissiante.

E quella screanzata va giù per la laringe e la trachea e  passerebbe oltre. Se ne fregherebbe dei polmoni e punterebbe direttamente al fondo.

Ogni bacio dato e voluto è una immersione in apnea nell’altro. E adesso io e te  siamo solo subacquei in preda alla narcosi.

Mi sa che l’amore, che comincia sempre dai baci stupiti e voluti, è fatto in principio di azoto che si mangia l’ossigeno di cui siamo fatti.  E se continui a parlarmi, guardarmi, sorridermi così, io ho solo voglia di fondo.

E allora salvami, per favore, mettici di mezzo i tuoi incisivi, così evito di perdermi.

L’unità di misura

L’unità di misura della felicità, secondo Aldina, sta tutto nel conteggio dei vuoti e dei pieni. Il vetro a rendere si conteggia a metà, mi ha detto stamattina, mentre l’aiutavo a piegare le lenzuola che doveva stirare. Se ti tocca rendere, non è tuo del tutto e quindi la felicità anche se c’è ti tocca restituirla, mi ha detto.

Questione di vetri, mi ha spiegato la Aldina, figlia di un serventino di un maestro vetraio di Murano, sposata al postino di Pellestrina, uno figlio di matti, si dice dalle parti mie.

La felicità, mi dice l’Aldina, piegando il lenzuolo con mosse sicure che mi obbligano a fissarle le mani, per non sbagliare, è questione di vetri e allora se vuoi capire quanta ne hai avuta in questa vita, ti tocca contar i vuoti e i pieni. Un vuoto: meno uno. Un pieno: più uno. E via a contare.

“E riesci a tener il conto?”, le ho chiesto fissandole le mani che veloci, comandavano la piegatura.

“Certo, sono anni che mi scrivo tutto in un libretto nero, che tengo nel cassetto del bagno. Lì è difficile che qualcuno vada a guardare con attenzione”, mi dice lei.

Torno a casa con in testa questa storia dei vuoti e dei pieni e mi distendo sul letto che ho un pochino di stanchezza addosso, che a me il rumore del vaporetto in navigazione, con quel uuuuuuuuuu di fondo, metallico, mi mette sempre sonno. Il vaporetto mi fa lo stesso effetto dell’aereo in fase di decollo in pista. Mi addormento.

Io riesco ad appisolarmi sulla spalla di chiunque, sia un vecchio in Loden verde sul battello per piazzale Roma che la signora con il capello cotonato e il tailleur finto Chanel, color cipria, sul volo per Roma. E mi spiace sempre, dopo, all’arrivo, scoprire di aver dormito della grossa sulla spalla di un finto Chanel o di un Loden originale, che ho sempre paura, io, di prendermi libertà non concesse come il lasciarci, su quelle spalle, la scia di bava del sonno dei giusti. A casa mia, sono sempre i bambini, i giusti. Anche se hanno novant’anni. A casa di altri non so mica chi sono. E di conseguenza, spero sempre di non dormire.

Distesa sul letto mi sono immaginata la mia felicità come una pila di bicchieri, di quelli fighi, lavorati a mano, di vetro colorato, che hai paura di romperli solo a toccarli.

Ma per misurar la felicità sono perfetti. La vita, se è tua, non puoi accontentarti di contarla in vetri opachi dell’Ikea, fatti dai cinesi. Io contro i cinesi mica ci ho niente ma vivo nella città del vetro a soffio più famoso del mondo e fin da piccola, fin dalla prima volta che sono entrata in una vetreria con la gita scolastica, e ho visto quelli che soffiavano nella palla appena uscita dal forno e poi il maestro che la modellava e tirava fuori un cavallino, ecco, io ho pensato che dentro il vetro c’erano i respiri delle persone e non crederò mai che una macchina industriale, per quanto veloce,  sappia darmi la stessa cosa.

Ovvero il respiro.

Ecco, la Aldina c’ha ragione, mi dico adesso. Perché nel conto del pieno e del vuoto per misurare la sua felicità, lei, figlia di un inserviente di vetreria, di sicuro, anche se non me lo ha detto, ci ha messo dentro pure il peso dei respiri suoi e di chi ha amato o ha odiato.

E nel conteggio di vetri e respiri, con l’occhio guardingo nel cercar di evitar di rompere la pila di bicchieri preziosi, sta tutto lo sforzo della mia e sua vita passata a cercar il meglio e lasciar andar il peggio, senza farsi mai troppo male, che con il vetro, si sa, ci si può tagliare e i segni restano. E alla vista delle mie cicatrici, penso che il conto giusto deve tener conto anche dei segni che i vetri, saltati in aria, ti lasciano sulle mani e sul corpo, e sotto pelle, nei muscoli e  nei pensieri. Che il dolore ci cambia, sempre.

E così, distesa sul letto, sto circondata da bicchieri, bianchi, verdi, rossi e blu. Tanti pieni e altri vuoti. E mi tiro su per contarli e i pieni li ho annusati e ci ho sentito dentro l’odore di chi ho amato e mi ha fatto del bene, senza voler niente in cambio. E in quelli vuoti ho sentito l’odore della mia paura e dei miei sbagli. Mica pochi, ma il numero, no, non lo dico. Lo scrivo nella prima pagina del taccuino nero. Io sono brava a far di conto e penso che la Aldina sarebbe contenta se fosse qui.

Avrebbe uno sguardo di orgoglio.

Lei che, mentre piegavamo le lenzuola, me l’ha detto, e io non ci ho fatto subito caso. In mezzo a tutti questi bicchieri, pieni e vuoti, io mica mi sento sola. Che nel vetro ci sono le voci, mica solo i respiri, e le parole giuste e sbagliate. E visto che le ho dette, io adesso ne sono gelosa.

Senza età

Ci sono amori piccoli, che li tieni dentro il pugno della mano e li puoi dimenticare nella tasca interna della giacca e se un giorno, togliendo i biglietti dimenticati dopo anni,  li ritrovi, manco te ne accorgi che li stai buttando nel sacchetto degli stracci con quella giacca dalle maniche consumate. Perché non sono rimaste manco le briciole a indicare la strada.

Ci sono amori pesanti, che ci hai perso tempo e mesi e parole, e non hai messo manco un punto. Non hai fatto una pausa, ci hai investito un ruscello di esclamativi e ti sei modellato ad immagine e somiglianza. E quando li rivedi, dentro la scatola delle scarpe strette, quelle che non metti mai perché ti fanno male ai piedi,  li senti fastidiosi, fatti come sono di silenzio sordo. Li scuoti per sentire se fan almeno rumore, come i  sassi, ma sono frasi afone, che si sono perse nello sciacquone degli egoismi.

Ci sono poi gli amori lievi, che ci hai messo un sacco di virgole, hai badato alle pause, il tempo che ci sta tra un ti voglio e un ti amo, e li hai farciti con la siringa del desiderio, fregandotene della tranquillità del possesso. Li tieni nel cassetto del comodino, vicino al letto, perché lì hanno spazio per respirare. E ogni tanto lo apri quel cassetto e ne senti il profumo e te ne freghi della costrizione, ti basta annusare quel desiderio, intatto e leggero, che sale su e te lo ritrovi tra le mani. E se sei sfrontato lo fai volar come un aquilone, che è tutto bene, e ti pare di mangiare pane e liberazione. Ti senti senza età come la volta che hai baciato, goduto, ti sei dato per la prima volta.

Settembre

Alfio se lo è visto passare davanti mentre tirava il cavo del secchio della malta, su, fino al terzo piano, dove stava lavorando. Ha sentito un colpo sulle assi di legno del piano di sopra, neanche forte, e poi è arrivato lo spostamento d’aria, come di un sacco di malta che cade.

E l’ha visto, Martino, che cadeva. La testa in basso, le gambe in alto, le mani si muovevano nell’aria a cercare un appiglio.

Non ci sono appigli quando cadi da un palazzo, da 50 metri d’altezza.

Alfio la sogna spesso la faccia di Martino mentre cade. Si sveglia urlando e poi si vergogna, che a 50 anni pisciare a letto è roba da malati di mente. Non da bambini.

Sua moglie si sveglia con lui, di soprassalto. Lo guarda e non gli dice niente. Va a prendere le lenzuola pulite e toglie il piscio dal materasso con lo straccio e la candeggina.

Alfio è convinto che nel momento in cui Martino gli è passato accanto, prima di cadere come un sacco di malta sull’asfalto del parcheggio, lui, il ragazzino, l’ha guardato. I loro sguardi si sono incrociati in quel secondo. Alfio stava fermo, con la bocca spalancata. Martino cadeva giù, con un urlo breve, che si è fatto subito silenzio.

Alfio lo ha detto ai compagni del cantiere. Lo ha detto agli ispettori dello Spisal, anche alla psicologa dell’Asl. Si è domandato per giorni se Martino mentre lo guardava ha provato a dirgli qualcosa. Lui non ha sentito.

Alfio spera di sognare ancora Martino e sentirlo parlare. Poi mette le lenzuola sporche di urina in lavatrice.

Nel sogno, sempre lo stesso, non cambia nulla. Martino cade, lo guarda, e non dice niente. La risposta non c’è per chi cade e per chi resta al terzo piano, con la corda del secchio della malta in mano e spera di veder, dopo il tonfo come un sacco di malta, quel ragazzino alzarsi e ridere.

Invece c’è quel filo di sangue, che esce dall’orecchio e dal naso, e lentamente sporca l’asfalto e l’anima ( se c’è, perché Alfio adesso se lo chiede, se c’è) di chi resta diventa pesante come malta. Non ci sono attenuanti, non ci sono spiegazioni, oltre gli sguardi bagnati di lacrime, per dare un motivo al fatto che un pomeriggio assolato di settembre, che sembra ancora estate ma c’è quel vento garbato che dice che l’afa è passata e si può lavorare senza aver paura di un giramento di testa, lassù, un ragazzino sale al quarto piano e si mette a tirar cavi e poi…E poi cade. Inciampa in uno stupido tubo di gomma e casca giù.

Cadere dal quarto piano di un palazzo non è volare. I giornali dovrebbero smetterla di titolare: “Vola giù dal palazzo” e Alfio glielo ha urlato al cronista del giornale quando è arrivato dopo le ambulanze e le sirene della polizia.

Volare significa andare su, mettersi allo stesso livello di alberi e gabbiani. Martino è cascato giù, si è messo al livello dell’asfalto del parcheggio del condominio in costruzione.

Alfio bestemmia tanto adesso. Bestemmia quando vede i sacchi di malta, quando tiene in mano un tubo di gomma. Bestemmia verso la croce donata dal parroco e appesa alla porta del cantiere. Dio aiuta, gli aveva detto il prete. E Alfio, ogni volta che ci passa davanti al Cristo, gli urla contro una raffica di insulti come fosse una sparachiodi.

Alfio odia anche il mese che più amava, settembre. Una bestemmia ogni colpo di vento. Perché, a settembre di sei anni fa, in cantiere, è morto un ragazzino di 19 anni,  al suo secondo giorno di lavoro. Inciampato in un tubo di gomma, che non doveva stare lì.

I provvedimenti del caso – terza parte

“Mamma, chi è questo signore?”

“E’ Paolo Santi. E’ tuo padre, Tommaso”.

“E che ci fa in cimitero?”

“E’ morto. E’ successo cinque anni fa e oggi siamo qui, assieme, perché hanno condannato l’uomo che l’ha ucciso. Sai, in realtà la morte toccava a me ma tuo padre ha pagato al posto mio”.

“Quindi, è colpa tua, mamma, se papà è qua”.

“Sì, Tommaso. Per favore, aspettami alla fine del vialetto. Poi ti porto a mangiare il gelato”.

Sandra Franti vide suo figlio allontanarsi lungo il percorso interno del cimitero. Scacciò indietro la lacrima rabbiosa che le scendeva lungo la guancia e posò il dito bagnato sulla foto di Paolo, un piccolo cerchio dorato dentro la lapide bianca appena sotto il suo nome inciso nel marmo.

“Paolo hanno dato l’ergastolo a Frescobaldi. Di galera non esce più ma ti prometto che non è finita qui”, sussurrò Sandra. Poi corse via per stringere la mano di suo figlio che la aspettava in fondo al vialetto.

A casa gli avrebbe raccontato tutto. Glielo doveva. Per dare una storia alla sua nascita, per dare un significato al dolore che per anni, inconsapevole, aveva visto nei suoi occhi. Tommaso, adesso, era grande a sufficienza per capire. Non sarebbe stato facile. Lui la guardava, mentre mangiava il gelato, con gli occhi di chi si fa così tante domande da non riconoscere più la sua mamma. Una che doveva morire al posto di papà.

Avrebbe raccontato tutto, sì. Ma doveva finire quel che aveva cominciato.

Erano passate oramai tre ore da quando il giudice del tribunale di Padova aveva pronunciato la sentenza contro Gino Frescobaldi, il mandante dell’attentato in cui aveva perso la vita il commissario Paolo Santi.         

Le prove a suo carico, in primis la lettera inviata alla giornalista Franti, il vero obiettivo dell’azione, erano state ritenute inattaccabili dalla corte che aveva deciso per il massimo della pena, tra gli applausi commossi di colleghi e amici del poliziotto. Ergastolo per Gino Frescobaldi. E cinque anni per favoreggiamento all’avvocato Andreasi. Una pena esemplare, commentarono molti colleghi. Un segnale alle toghe che campavano sulle parcelle milionarie della mala e favorivano i contatti tra i boss, in carcere, e i complici liberi.

In questura era stato organizzato un buffet per festeggiare. Sandra preferì non partecipare. Doveva salutare Paolo.

Tre mesi dopo l’attentato mentre ancora cercava di riprendersi dalla tragedia, si era accorta di esser rimasta incinta. Aveva portato avanti la gravidanza, con tenacia, nonostante le amiche l’avessero sconsigliata.

“Sei sola, Sandra. Pensa a te. Quel bambino è figlio anche di un uomo che non c’è più e non l’avrebbe voluto”, le dissero.

Lei non sentì. Quel piccolo doveva nascere. Quello che Frescobaldi le aveva strappato via, in qualche modo sarebbe tornato.

Partorì dopo 18 ore di travaglio, urla e sfinimento, con l’assistenza di una collega di Paolo, Silvia Montani, e delle sue amiche Paola e Serena.

Nessuna mollò la sua mano, finché la testa di Tommaso non uscì fuori e lei si sentì mancare. Non parlò per una settimana. Restò a letto, muta, nella casa vuota. 

Poi una notte, mentre Tommaso strillava per la fame, Sandra cacciò un urlo che svegliò il palazzo e cominciò ad allattare al seno suo figlio. Con rabbia. E amore.

Adesso che la condanna era arrivata e la difesa aveva annunciato la rinuncia al ricorso, doveva spiegare tutto a Tommaso. E finire.

Portò Tommaso a casa di Serena.

“Ci vediamo domani, stai tranquilla. Se fa i capricci il cellulare è acceso”, disse all’amica senza mai distogliere lo sguardo dagli occhi di suo figlio. Assomigliava a Paolo, si disse, mentre scendeva le scale.

Prese la macchina e si presentò allo studio dell’avvocato Andreasi a Noventa Padovana.

Dovette suonare cinque volte il campanello prima di sentire il cancello elettrico aprirsi con uno scatto.

Click.

Quel rumore le fece salire dentro la gola la bestia.

Andreasi l’attendeva in corridoio, sulla porta dello studio.

“Cosa vuole da me Franti? Mi hanno condannato a 5  anni, vuole divertirsi a sbeffeggiarmi? Io non sapevo che consegnando quella lettera decretavo la sua morte. Ma lei è viva, ancora!”, le urlò contro l’avvocato.

“Deve farmi un favore, mandi questa a Frescobaldi”.

“Non sono più il legale, lo sa. La mia carriera è finita”.

“Lei sa come fare. Me lo deve, avvocato. Lo deve a me e a Santi”. Andreasi abbassò gli occhi, fissò la busta e annuì.

Click clack.

“Gino, c’è posta per te”. La guardia carceraria Achille Penati buttò la lettera sul tavolino all’ingresso della cella. “Faccio la Maria de Filippi, ciò! Ma sono più bello io”, sghignazzò l’Achille mentre richiudeva la porta della cella di massima sicurezza.

Frescobaldi si alzò dal letto e si diresse al tavolino. La lettera arrivava dallo studio di Andreasi.

Gino sorrise, aprendola. Si aspettava la classica lettera di scuse. Li conosceva quelli come Andreasi. “Per pararsi il culo spifferano tutto anche se sono quindici anni che il loro stipendio lo paga gente come me _ si disse _ Merde con il maglione di cachemire”.

Dentro la busta c’era una foto. Quella di Onda blu. Gli amanti del porno la conoscevano bene  la reginetta veneta degli amatoriali hard core. Quante seghe si era sparato Frescobaldi la sera davanti alla tv. Lei era sempre nuda e pronta.

Sorrise sfiorando la foto. Onda blu, all’anagrafe Marina P. gli si mostrava proprio di culo, con le chiappe larghe, tutto in vista e la figa depilata. Lo fissava, ammiccante e lasciva. Un dito in bocca.

Sotto c’era una dedica con il pennarello. “A Gino, avrai tanti anni per pensarmi ancora. Tua Onda blu”.

Frescobaldi scoppiò a ridere. Adesso sono così famoso che anche le pornostar mi desiderano! pensò. E cominciò a passare il dito lungo il corpo della Onda blu. Indugiò sulla figa. Poi portò il dito in bocca, immaginando di sentirne il sapore e l’odore. “Oh, cara mia, te non sai che regalo che mi fai. Tutte le sere starai con me”.

Solo girando la foto si accorse che sul retro c’era una piccola scritta a penna, in basso a destra.

“Frescobaldi da oggi siamo pari. Non godo più io, non godi più te. La giustizia prende sempre i provvedimenti del caso”. Firmato F.

Il boss rilesse tre volte quella scritta, la seconda volta dovette anche inforcare gli occhiali perché gli pareva di vedere sempre meno. Ma continuò a leggere. E capì chi era F.

Pensò che una donna così, in condizioni normali, cioè da liberi, l’avrebbe portata volentieri a cena in un ristorante di lusso, le avrebbe messo il ferro davanti la faccia, le avrebbe spiegato come andava la vita e poi l’avrebbe scopata a sfinimento. Altro che morta, una simile sfrontata andava umiliata. “Ma vaffanculo stronza”, urlò con mezza voce. E tornò a sfiorare e leccare la foto di Onda blu.

Lo ritrovarono la mattina a letto. Sembrava dormire della grossa; arrivarono tre guardie a svegliarlo.

Era morto. Per terra c’era la foto di Onda blu che guardava tutti, ammiccante e sfrontata.

(FINE)

I provvedimenti del caso – parte seconda

Click.

Sandra Franti accese la luce dell’abat-jour sul comodino e cercò l’orologio. Le 6.10. Decisamente troppo presto per alzarsi dal letto. Qualcosa l’aveva svegliata. Un brutto sogno, pensò. E gli tornò in mente l’inchiostro simpatico e la lettera di Frescobaldi. Non era al sicuro, si disse. Anche se il boss era in galera, da dentro il carcere poteva comunque comunicare con l’esterno e se voleva l’ordine, qualsiasi esso fosse, poteva arrivare. Spezzategli una gamba. Fatele fare un bel testa-coda. E’ così facile simulare un incidente. Violentatela. L’ordine poteva essere un avvertimento o una punizione; dopo una lettera simile, Sandra si aspettava che qualcosa dovesse accadere. Presto o tardi.Ma erano le 6.10 del mattino e dalle persiane filtrava ancora il buio e tanto valeva restare a letto, sotto il lenzuolo, a sperare che non arrivasse l’uomo nero. No.

Frescobaldi non poteva sapere dell’uomo nero, quello che da anni tormentava le notti di Sandra. Compariva nel sonno profondo quando voleva, si insinuava con la mano guantata tra le lenzuola, stringeva il suo seno, sempre il destro, con mano avida e poi le sfiorava le labbra…e le tranciava la gola di netto con una coltellata. Un  colpo secco, un fiotto di sangue scuro, il tempo di mollare un respiro profondo e Sandra si sentiva morire. Poi si svegliava sudata e per capire che era viva aveva solo una possibilità. Masturbarsi.

Driiin.

Il cellulare di Sandra cominciò a suonare alle 6.35 e lei si svegliò dal torpore di quel sonno veloce che pareva esser durato ore.

“Ciao, scusa l’ora. Ma ho chiamato appena ho potuto. Sandra, come stai? Vengo lì tra dieci minuti”.

Il commissario Santi aveva la voce di chi aveva passato la notte in piedi.

Sandra mugolò un sì mentre si puliva la bocca di bava notturna e si alzò, anche se controvoglia. Non le andava di farsi trovare scompigliata e con la faccia assonnata. Santi le era sempre piaciuto ma non avevano mai instaurato quel livello di amicizia che permette ad una quarantenne di mostrarsi senza trucco di prima mattina ad un commissario di 44 anni. Piacente e single. Dettagli mai trascurabili, nonostante la conoscenza oramai ventennale e più di una cena, finita a ridere con la faccia premuta sul tavolo per i troppi rum.

E così Sandra avanzò verso il bagno per sciacquarsi il viso, indossare la vestaglia lasciata appesa alla porta, sistemarsi al volo le sopracciglia e passarsi sul viso un velo di crema antirughe, tanto per migliorare il migliorabile. Se c’era un migliorabile, a quell’ora…

 “Grazie di esser venuto, Paolo. Ho preparato il caffé. Ne vuoi?”

“Sì, Sandra, ne ho bisogno. Siamo stati tutta la serata in un furgone, impegnati in attività di monitoraggio, per una indagine. Quando ho letto il tuo sms, mi sono detto che ti serviva una mano, subito”.

“Eh, voi poliziotti avete uno strano concetto del subito _ rise lei, mentre portava a tavola la caffettiera bollente _ il messaggino è di sette ore fa. Poi ti lamenti perché nessuna ti vuole…”.

“Beh, non potevo lasciare l’attività senza un superiore di controllo e quello ero io. Quindi…E pure a te mica ti vogliono, siamo sempre pari” ribatté lui, facendole l’occhiolino.

“Sì, sì, va bene. Capisco. Tanto, fino a prova contraria, le lettere mica ammazzano”.

“No, ma mettono paura, a volte. Hai dormito?”.

“Poco e male. Se non sapessi chi è Frescobaldi, il giro che comanda a bacchetta e come spara, non me ne fregherebbe poi molto”.

“Hai ragione, non è una lettera da prendere sotto gamba questa _ la interruppe Paolo mentre rigirava tra le mani il foglio, tenendo la carta con una salvietta per evitare di contaminarla _ Domani la mando alla Scientifica, così la analizzano. Convoco l’avvocato e gli chiedo conto di questa cosa e lo avviso che le minacce sono un reato anche per i principi del foro”. 

“A me basta che non arrivi altro, in futuro”, tagliò corto lei.

Fruuu.

La vestaglia di Sandra, che scivolava sulla sedia mentre lei si alzava per prendere i biscotti, attirò l’attenzione di Paolo Santi. Non aveva mai visto la sua amica giornalista senza trucco e senza i suoi immancabili jeans. I capelli sciolti, senza trucco e occhiali neri. Pareva una donna diversa, la Franti. La fissò attentamente. Non era la dura che diceva di essere, era una ragazza _ si disse _ che di notte si nascondeva sotto le coperte al buio e magari sognava l’uomo nero. Quello che arriva, senza faccia, e fa male. Tanto.

Paolo seguì con lo sguardo i movimenti dell’amica, intenta ad aprire il pacco di biscotti. Lo strappo della carta a mani nude pareva impresa da supereroi e Sandra muoveva invano le mani agitate. Paolo si alzò per aiutarla, prese le forbici vicino ai fornelli. Le arrivò alle spalle e la vide piccola, indifesa, davanti a lui. Con una mano le mise le forbici davanti ma piantò anche l’altra sul marmo della cucina, avvolgendola tra braccia e petto, bloccandola tra le sue mani. Le annusò i capelli; sapevano di cocco e vaniglia. Sandra rimase immobile, stupita da un simile gesto. Paolo, di colpo, la prese per i fianchi, facendola  girare verso di lui. La fissò un attimo, sorrise e poi accostò le labbra alla sua bocca. Un bacio a denti stretti, poi lasciò che la lingua si facesse strada e quando incontrò quella di Sandra, allora strinse più forte.

“Non aver paura”, le disse lui, aprendo la vestaglia. Sandra si limitò a chiudere gli occhi. Li riaprì solo quando si ritrovò con la guancia a strusciare, avanti e indietro, il tavolo della cucina e si girò per vedere la faccia di Paolo che la penetrava e che le sorrideva. E non riuscì più a stare zitta. Doveva godere, forte. Fanculo all’uomo nero e a Frescobaldi. Nessuno poteva metterle paura.

Lei aveva Paolo. Che la montava, la mordeva sulla schiena, le dettava l’andatura e le chiedeva di dire che ne voleva ancora. E Sandra ne voleva, sì. Si risvegliarono alle 11, abbracciati sul letto. Lei con la testa sull’ombelico di lui. Paolo con i piedi di lei, sotto la guancia, come un cuscino. Li aveva baciati, finché non era crollato, travolto dal sonno.

“Sandra è tardi. Devo andare”, le disse Paolo, baciandola sulla bocca.

“Ci telefoniamo dopo?”, rispose lei, stropicciandosi gli occhi.

“Certo, così ti dico anche se l’avvocato viene domani in questura o no…A proposito, grazie”.

Mentre Paolo andava in bagno a rivestirsi, Sandra restò a letto, a ripetersi quel grazie, che sapeva di sperma, di sudore, di labbra morbide, di voglia tra le gambe. Mise la testa sotto il cuscino, per nascondere il sorriso ebete, quando lui rientrò in camera.

“Sandra, mi presti la macchina? Sono arrivato qui con la pattuglia, poi passi in questura e ti ridò le chiavi. Così magari pranziamo assieme”.

“Certo _ rispose lei, senza alzare la testa da sotto il cuscino, per paura di mostrar il sorriso troppo soddisfatto _ passo dopo in questura. E’ parcheggiata davanti al portone, è la Punto blu. Le chiavi sono sul mobiletto all’ingresso”. Paolo le baciò i piedi, le accarezzò le gambe. E se ne andò.

Sandra sentì la porta chiudersi alle sue spalle, tolse il cuscino da sopra la testa e allargò le braccia e le gambe, prendendo possesso di tutto il letto. E scoppiò in una risata, felice e soddisfatta di quel sesso gioioso. Senza una parola di troppo. Il pudore del dopo, del dirsi se si sarebbero rivisti o no, voluti di nuovo o dimenticati, poteva aspettare.

Click.

Paolo girò la chiave nell’accensione della Punto blu e sentì quel rumore muto, come di qualcosa che si stacca.  Pensò ad un problema di avviamento del motorino elettrico e girò la chiave di nuovo. Nel frattempo si guardò attraverso lo specchietto retrovisore e si sorrise. Era stato bello. Lei era bella.

Click.

Poi vide la fiammata uscire dal cofano e entrargli dentro gli occhi.

E non sentì più niente.

Doro

Io li ho visti, mamma e papà, fare quella cosa. Loro parlano sottovoce e lo chiamano amore. E’ un bel nome. Non c’è dubbio. Loro sono bravi coi nomi, a me mi hanno dato quello di Isidoro. Ma mi chiamano Doro. Che suona, se vuoi,  come D apostrofo Oro , che sembra che sono prezioso, io.

E invece sono solo trasparente.

Me lo hanno raccontato, mamma e papà, come sono nato. Dall’amore, mi hanno detto, e mi hanno pure spiegato come hanno fatto. Deve essere stata una giornata lunga, come quando fai il pane, che prima prepari la farina e la lasci respirare, poi ci metti l’acqua e cominci a impastare, con le mani, che devi averci ritmo e potenza, e sapere dove mettere le mani e andare via sicuro, magari anche se dentro tentenni, devi averci tanta voglia, di stare là ad impastare. E poi devi riposare, te e la pasta. Devi lasciarle il tempo di gonfiarsi, col lievito, e aspettare e poi dare un’altra impastata e poi via spezzare l’impasto e far le parti giuste, grandi come il palmo della mano, e  in forno, al caldo. E poi puoi solo aspettare. E godere del profumo che arriva, prima lento, e poi potente.

 Far l’amore, per noi trasparenti, è come fare il pane, hanno detto mamma e papà. Avevano voglia di raccontare, dopo mesi che io chiedevo e loro sorridevano e arrossivano a tavola così tanto che gli vedevo l’intestino borbottare. Che a noi, si vede tutto.

Amelia e Rodolfo, così si chiamano papà e mamma, mi hanno detto che farmi nascere è stato come fare il pane. Che erano a casa e stavano ascoltando la musica e si sono messi a ballare. Erano un po’ più giovani di adesso, e ballando, stando dietro al ritmo, si sono spogliati che volevano vedersi trasparenti. Lei si è messa attaccata al muro e guardava papà spogliarsi e vedeva la trasparenza, sotto, e ne sentiva la bellezza, e allora si è aperta la camicetta e ha messo la mano sotto e si è presa il cuore in mano, che pulsava caldo, e glielo ha passato. E lui ha preso con la destra il cuore di lei e con la sinistra, che è mancino papà, ha tirato fuori il suo e le ha detto: “Lo vuoi?”. E lei ha annuito. E così si sono scambiati i cuori e quelli stanno ancora là, uno nel petto dell’altra, a rintoccare, a ritmo. Secondo me, si chiamano, a vicenda.

E poi dal cuore son passati al polmone e la milza e il fegato, e via di scambio, e ancora la lingua, un braccio, la gamba sinistra. Uno di fianco all’altra, attaccati al muro, si guardavano con i loro pezzi mischiati, dentro,  e mamma mi ha raccontato che qualcosa, forse il pancreas di lui, che ce l’aveva dentro lei, le ha parlato e le ha detto di impastare e allora lei si è toccata, dai capelli ai piedi, e mescolava tutti quegli organi che non erano suoi ma lo erano diventati, e papà fremeva, che si sentiva tutto rovesciato dentro, e anche lui ha cominciato a fare la stessa cosa e alla fine  avevano voglia di attaccarsi, cuore con cuore, polmone con polmone, pancreas con pancreas, milza con milza. E son finiti sul pavimento, attaccati.

Di due cuori, mi hanno raccontano, ridendo, ne hanno fatto uno solo. E sono nato io. Doro.

Ho due cuori, uno attaccato all’altro, che battono uno dietro l’altro. Solo in ospedale si sono accorti del doppio battito, quando mi volevo iscrivere a nuoto e dovevo fare la visita per la sana e robusta costituzione, sennò in squadra non mi prendevano, anche se sono bravo. Il medico mi ha detto che io non posso nuotare, che con il doppio battito, rischio. Cosa? Non lo so, ha detto che ha paura che mi spengo.

Io sono uscito dall’ospedale triste, che volevo tanto nuotare come le rane e quello non mi ha dato il permesso. Ma a casa mamma e papà mi hanno spiegato perché ho quel doppio battito e mi hanno detto anche che per noi trasparenti, figli di trasparenti, nipoti e bisnipoti di trasparenti, è una cosa normale. Solo che viviamo tra persone che trasparenti non sono, e questa cosa mica la  capiscono e visto che loro sono di più, di numero, pensano che l’anormale è chi ha un doppio cuore e non un cuore solo.

Noi trasparenti, mi hanno detto i miei, siamo rimasti in pochi. La gente, mi hanno raccontato, ad un certo punto, non so in che secolo, ha avuto paura della trasparenza, del fatto che sotto i vestiti si vede tutto. I miei antenati sono scappati o li hanno uccisi, per paura. Loro, quelli con un cuore solo, sono i figli di quelli che hanno scelto di non essere trasparenti come noi. Si sono vestiti e hanno fatto sparire i colori. Quelli la pensano così: se sei colorato, si vede tutto e non sta bene.

Io ho detto a mamma e papà, dopo che mi hanno raccontato di come sono nato io, che sono stanco di girare sempre vestito, fuori casa. Ho capito che è per star tranquillo, ma non mi va. Io quando sento i primi raggi del sole, in primavera, voglio correre sull’erba e diventare verde come lei, e poi sdraiarmi e diventare rosa e poi fucsia e osservare la rana laggiù in fondo, vicino allo stagno e diventare blu. Io sono bravissimo, a diventare blu. Ma posso farlo solo nella mia cameretta. E senza rana, mica è la stessa cosa. Fuori casa non posso giocare coi colori. Altrimenti, dicono i miei, gli altri mi farebbero del male.

Enza, la mia compagna della scuola, a casa non può venire e quindi non le posso mostrare come divento blu. A casa i miei stanno trasparenti e hanno paura che se lei li vede così, prende paura.  Io gliel’ho detto a Enza, come faccio, che penso alle rane e all’erba e al raggio di sole, ma ho visto che lei non ci crede, che pensa che sono tutte fantasie. Io la sua faccia strana l’ho notata e mi piacerebbe stupirla e farle cambiare espressione. Farla sedere, spalle al muro e mettermi a ballare e poi diventare fucsia di colpo e poi blu. La scena me la faccio io in testa, da solo, nella mia cameretta, quando mamma e papà mi salutano e vanno a dormire. Che poi mica è vero. Io li sento ridere, di là, e sento il mio doppio cuore che  sobbalza con loro e penso che Enza dovrebbe starci qui, a vedermi cambiare di colore. Io potrei donarle il mio doppio cuore. Che lei è bella come una trasparente, anche se non lo sa. Poi mi immagino che lei sorrida e provi a togliersi il suo, di cuore, ma se non sei trasparente, mica è facile. Esce sangue, si sporca tutto, fa male. E quando arrivo a quel punto, che ho il mio doppio cuore in mano, e la guardo, così bella che mi spiace che non è come me, spengo il doppio battito. Con un click.

I provvedimenti del caso

“Rossaaaaaaa! Vedi che adesso ti fregano? E ti mettono in cella con me. Te l’ho detto… non ti conveniva parlarmi”.

Gino Frescobaldi, da dietro le sbarre, nella sala grande dell’aula bunker, scoppiò in una fragorosa risata. Il pubblico del processo a suo carico per vent’anni di associazione a delinquere di stampo mafioso, si girò verso la gabbia dei detenuti. Lui sfidò lo sguardo di tutti e tutti girarono la testa, di scatto, intimoriti, cercando la protezione della corte.

Il giudice Sangrilà stava parlando e per sovrastare la risata di Frescobaldi, dovette mettersi ad urlare. La corte, disse sbattendo il pugno sul  tavolo,  non aveva permesso alcuna ripresa e tanto meno interviste ai detenuti nella pausa del processo e quindi quei giornalisti, visti dalle guardie carcerarie intervistare il boss, dovevano essere tutti identificati dal maresciallo dei carabinieri per i provvedimenti del caso.

Frescobaldi salutò l’annuncio del giudice, ridendo di nuovo e voltandosi per prendere in giro a distanza Sandra Franti, la giornalista della tv privata Canale 99. Lei nel frattempo, nervosa, cercava di nascondersi tra il pubblico; il microfono portatile dentro la borsa.

Sandra era andata spavalda verso di lui, nella pausa del processo, per chiedergli cosa pensava del pentimento del suo ben più famoso compagno di scorribande in giro per il Veneto, il Marco, il boss dell’unica mafia non meridionale che si sia mai vista in Italia. Strano posto il Veneto. Tra polenta e scampi crudi, mentre si dava dei terroni ai napoletani che  lavoravano a Porto Marghera con le paghe conglobate, ci si era ritrovati a convivere con una mafia casalinga, mica foresta, nata nelle campagne tra Padova e Venezia, alimentata da fiumi di eroina e cocaina da piazzare per i festini tra Porsche e prosecco; praticata con il gergo della campagna e i continui favori del capo verso i compaesani più poveri. Prestiti, telefonate a medici compiacenti per facilitare una visita e posti di lavoro presso la rete di imprenditori taglieggiati.

Tanto che alla fine i vicini di casa, il Marco lo consideravano un santo, meno ammuffito e più immediato di Sant’Antonio da Padova.

Ma per ogni beneficenza, dagli anni Ottanta, in cambio, c’erano state rapine, rapimenti, omicidi, traffici di droga, estorsioni, vendette.

E il Veneto aveva scoperto, oltre al sesso a pagamento, pure il crimine.

Frescobaldi davanti a Sandra aveva fatto il duro. Aveva stretto gli occhi che erano diventate due fessure. “Sai cosa meritano le galline? _ le rispose evitando di guardar il microfono che lei gli puntava contro _ Di essere inculate. Beh aspetta che esco da qui, e vedi, rossa,  come me la inculo quella gallina”.

Poi non disse altro. Altri giornalisti avevano visto la Franti intervistare Frescobaldi e si erano lanciati per non perdere l’occasione, ma lui davanti alla decina di microfoni e telecamere che gli erano piombati addosso, disse alle guardie carcerarie che lo stavano infastidendo.

“Sandra è meglio se sparisci. Passa per il bar e vai via che oggi hai già fatto abbastanza casino qui”.

Il commissario Santi si era seduto dietro a Sandra e le  aveva appoggiato la mano sulla spalla. “Vai via, per favore”.

Lei si girò di scatto. Stava pensando alle parole del giudice e agli occhi chiusi a fessura di Frescobaldi.

Dicevano in questura che quando il Gino appoggiava la mano al fodero della pistola faceva così. Rideva e stringeva gli occhi. Guardava avanti a sé da due fessure. “Appena tocca il fodero, sei morto”, le aveva detto un amico poliziotto, oramai in pensione.

Risata, fessura, bang, morto.

A Sandra quella sequenza metteva i brividi e gli sembrava che i capelli sulla nuca gli si erano alzati per la paura. Quando vide lo sguardo affettuoso di Santi che le diceva di sparire, lanciò una occhiata a Michele, il cameraman, e si diresse senza indugi al bar.

Ma non prese niente, passò dal retro, corse verso la macchina della tv e mise in moto. “Via, in redazione”, disse a Michele che la guardava allibito. “Se restiamo qua, ci denunciano”.

Due settimane dopo in redazione, sul tavolo di Sandra la segretaria lasciò una lettera.

Il mittente era uno studio legale di Noventa Padovana. Sandra lo conosceva perché era lo studio che difendeva Frescobaldi e quelli della sua banda. Dentro la busta,  due fogli. Sul primo poche righe, scritte a penna, dall’avvocato Andreasi.

“Le invio una missiva per conto del mio assistito. Le chiedo di non renderla pubblica, visto che si tratta di comunicazioni di carattere personale. In caso contrario, saremo costretti a prendere i provvedimenti del caso”.

Era la seconda volta in due settimane che Sandra sentiva quelle parole.

I provvedimenti del caso. Ma il caso inteso come evento fortuito, senza motivazioni, quando hai a che fare con giudici e avvocati significa solo denunce e cause. Sandra pensò a come certe parole, quasi avventurose e piene di ipotesi, servivano solo a far intendere la certezza di una sequela infinita di casini, udienze e spese legali. Odiava il “formalese”. La chiamava così la lingua dei burocrati. Paroloni, ridondanti, gonfi di aria, usati solo per fartela pagare.

Prese il secondo foglio, era bianco. Non c’era scritto niente.

Ripensò alla risata di Frescobaldi. Fessura, bang, morto.

La stava prendendo in giro. Rimise i due fogli nella busta e la gettò nella borsa. La sera a casa, dopo cena, si ritrovò ancora tra le mani la lettera dello studio legale. La lesse di nuovo e girò il foglio bianco tra le dita. Frescobaldi le aveva mandato un avvertimento. “Mi vuole dire che non scriverò più”, pensò. Non si sarebbe lasciata intimidire, per così poco. Il giorno dopo avrebbe parlato al direttore, avrebbe pure chiamato il commissario Santi per informarlo e poi avrebbe telefonato ad Andreasi per dirgliene quattro.

Si sentì così più rilassata, prese una sigaretta e la accese usando il fuoco della candela alla citronella, che stava sul tavolino del salotto, e nello sporgersi con il foglietto in mano, per accendere la sigaretta, ebbe l’intuizione.

Mise la carta davanti alla fiamma. Era inchiostro simpatico. La calligrafia di Frescobaldi prendeva forma. Lui le aveva scritto usando una sostanza trasparente, del latte o del limone. Come si faceva da bambini, quando ci si doveva passare i segreti. Davanti alla fiamma, cominciò a leggere.

“Mia cara signora, scribacchina da due soldi, ho visto, grazie alle guardie, la replica del servizio che lei ha fatto durante il processo.  Non ho visto traccia della mia intervista. Evidentemente, la sua redazione ha pensato di portare rispetto al giudice e di non mandarla in onda. Peccato.

Marco doveva sentirmi. Io, prima o poi, me lo inculo. Col ferro.

E lui lo deve sapere mentre si sta gustando i suoi scampi crudi da qualche parte. Lei ha fatto la figura della donna per bene, che  rispetta le regole, mia cara signora dai capelli rossi. In altre occasioni la inviterei a cena per spiegarle che le regole sono inutili. Le fanno sapendo che saranno aggirate. Tanto vale, fregarsene.

Le metterei davanti, tra il piatto e il bicchiere, il ferro e le chiederei di ripetermi, guardandomi in faccia, che sono uno spietato, come ha detto nel servizio. Anche Marco lo è, solo che lui ha trovato il mezzo per esercitarsi senza sporcarsi le mani.  E adesso che si è pentito, si sente amato. Per me la cattiveria è un lavoro. Il ferro per me è come la macchina da scrivere per lei, signora. E’ un mezzo. Per intimorire, convincere, parlare, avere. 

Io con l’amore mi ci pulisco il culo, signora. Quindi la sua morale del cazzo, se la tenga per lei. 

La pietà l’ho persa, trent’anni fa, quando hanno ammazzato mio fratello, solo perché non aveva pagato la sua dose di eroina. L’ho visto morire senza un gemito, senza un ciao, senza un per favore, no. 

Andai da Marco e gli dissi che sapevo sparare, lui mi mise subito alla prova. Mi mandò in strada e mi disse di uccidere il mio cane. Io strinsi gli occhi e sparai. Neanche lui, Bubo, ha avuto il tempo di dire per favore, no. E’ lavoro, i sentimenti non c’entrano, signora. Quindi neanche a lei darò il tempo di chiedere per favore, no. Queste righe restano su questo foglio. E se le vedo altrove, prenderò i provvedimenti del caso. 

Cordialità

Gino Frescobaldi.

 

Sandra stropicciò la lettera tenendola stretta dentro il pugno e spense la fiamma della candela.

Risata, fessura, bang, morto.

(post scriptum: nomi e storie sono di pura invenzione, il Veneto malavitoso degli anni  Ottanta invece  è una realtà)