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“Ottanta lettere” – che succede

“Ottanta lettere” è in gara al premio nazionale Renato Fucini 2012, sezione raccolta di racconti. Quelli di Blonk hanno deciso di provarci, partecipare ad un premio letterario tradizionale con un libro che non è di carta.

Vediamo come va.

Tutte le informazioni sul sito di Blonk editore: http://www.blonk.it/it/post/2012/10/09/ottanta-lettere-candidato-al-premio-renato-fucini-2012

E ricordo che per chi ama leggere in spagnolo, c’è anche la traduzione di Ana Pace “Ochenta cartas”

 

2 Maggio

Il 2 maggio parlo di “Ottanta lettere”  e di finzione ad un corso di universitari milanesi.

Gente che si è letta Calvino e poi me… Incrociate le dita.

Se ne esco intera, vi racconto 🙂

 

(Allego comunicato, metti che qualcuno voglia esserci).

 

02-05-2012 Comunicato Chiarin @fondazione milano

 

 

Ochenta cartas

E’ uscita oggi l’edizione spagnola di “Ottanta lettere”, tradotto da quella meraviglia di donna di Ana Pace, che mi ha sopportato, mi ha capito e tradotto, mi ha ospitato a casa e pure ha cantato a squarciagola con me in macchina.

Insomma siamo amiche.

Con lei, con Lele Rozza e tutti gli amici di http://www.blonk.it io sto saltellando di gioia.

Sul sito di http://www.blonk.it  trovate l’edizione in italiano e in spagnolo e tutte le indicazioni degli store che li vendono.

Cronache dal rabbioso Nordest

 

 

 Sul Gazzettino di Treviso di oggi si parla di “Ottanta lettere” (Blonk editore)

 qui il testo:
HomePage

Sara De Vido
Il rabbioso Nordest
in cerca di riscatto

Domenica 18 Marzo 2012,
Emozioni digitali. Bit di storie sul Nordest «grasso e opulento» e pagine che scorrono con il tocco di un dito. La letteratura oggi si legge anche su ebook, il libro digitale che si può «aprire» sul proprio computer di casa, o con il proprio tablet. Mitia Chiarin, 42 anni, giornalista professionista, ha fatto delle storie che corrono sul filo del bit la sua passione. Da alcuni anni scrive online e nel suo blog, “Le storie di Mitia”, raccoglie impressioni e racconti. Sedici storie sono state pubblicate in “Ottanta lettere”, un ebook promosso dalla nuova casa editrice Blonk.it di Pavia.
      Sono racconti sul Nordest grasso e opulento fatto di persone alle prese con sogni, desideri e amori e svolte improvvise, e pure «qualche visione» come «la» bancomat che si innamora e regala soldi se vengono digitati al posto dei codici delle poesie. «Non c’è carta ma odore di bit nelle mie storie, – racconta la scrittrice, – e devo dire che l’editoria digitale, grazie all’opportunità che mi è stata concessa da Lele Rozza, direttore editoriale di Blonk.it, offre nuovi spazi di respiro a chi vuole raccontare storie».
      Uno dei racconti, “Cinque rose”, ha preso ispirazione dalla Marca: «Racconta l’incontro tra il capo dei vigili di un comune del trevigiano e un ragazzino di dodici anni, un piccolo venditore di rose, – spiega Mitia. -Il comandante, mentre è al bar, libero dal servizio, si accorge di un ragazzino e delle cinque rose che tiene in mano. Inizia così ad interrogarsi sulla sua vita, sui suoi amori, sull’incapacità di dare concreto aiuto ad un ragazzino straniero che si ritrova in strada, di notte, a lavorare, in un paese, dove, cito, «nessuno si offende manco il segretario della sezione della Lega Nord che ogni due per tre (….) mi manda gli esposti contro i bar dei cinesi e i kebab da asporto che sono covi di malandroni e portano malattie e viene lo scagotto a tutti».
      Perché “Ottanta lettere”?
      «È il titolo di uno dei racconti, forse uno dei più criptici, la storia di ottanta lettere d’amore scritte da un uomo alla sua vicina di casa e infilate sotto lo zerbino della porta di lei. Il racconto di un amore che forse è un incubo, per come si evolve, forse solo un sogno. È il lettore a decidere che senso dargli».
      Che Nordest emerge dai suoi racconti?
      «C’è la provincia grassa, quella che si è costruita da sola, ma che oggi è piena di mancanze. I miei personaggi sono persone che per un motivo o per un altro cercano una riscossa, hanno la rabbia dentro (la “carogna” è uno dei racconti) che amano fino a mangiare e uccidere la compagna, di bambini che hanno la trasparenza dentro e faticano a vivere nel mondo degli adulti, che guardano il mondo con occhi stanchi ma all’improvviso illuminati, e vedono «la gente scema» (altro titolo), di immigrati che diventano la speranza di un ritorno alla voglia di cultura. Personaggi inventati ma che nascono dalle sensazioni che ho quando passeggio o lavoro o parlo con le persone o ne ascolto i dialoghi».
      Verrà a presentare il libro a Treviso?
      «Se qualcuno ci invita, siamo ben lieti di venire».

la versione in pdf

Ottanta lettere

Le aveva scritto 80 lettere d’amore, ognuna per ciascun giorno che seguì l’unica notte che lei comparve alla porta di casa sua e chiese di entrare.
Andò diritta verso la camera da letto e si stese sul lenzuolo, vestita, e gli disse che sentiva un dolore, strano, che non sapeva spiegare.
E allora lui si stese accanto a lei ed era così agitato per la sua presenza, lì vicino, che si mise a chiederle, con insistenza, dove era che sentiva male. E lei gli prese la mano e la appoggio alla pancia e gli spiegò che era proprio quello il punto in cui sentiva quel vuoto che voleva portar via tutto. Lui, agitato, pensò di fare l’unica cosa possibile. Tenne la mano bella larga a fermar quel vento che voleva venir fuori dalla pancia di lei. E ci rimase così fino al mattino, anche se la mano gli faceva male, la sentiva pesante e la circolazione rallentava. Anche se sentiva il suo respiro silenzioso e avrebbe preferito con quella mano accarezzarle i capelli biondi, per ore.

All’alba lei riaprì gli occhi e lo ringraziò con un bacio. Poi gli disse che il vuoto era scomparso, e con lui il vortice cattivo. Era fortunata di poter contare su qualcuno come lui, che la ascoltava in silenzio e le metteva la mano per fermare il dolore, quando serviva. Lui le disse che, se lei voleva, lo avrebbe fatto ancora.
Ma lei si alzò dal letto, andò in cucina a preparare il caffè e poi a lavarsi il viso nel bagno di casa mentre lui era ancora a letto a sfiorarsi le labbra calde per quel bacio inatteso e pure così sperato. Quando la moka brontolò sul fuoco, annunciando che il caffè era pronto, lei se ne era già andata senza un saluto, senza una parola.
Lui sentì il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva mentre si alzava dal letto per andare a spegnere il fuoco. Era rimasto da solo, con la mano indolenzita e un mal di stomaco che montava, dentro, come se avesse mangiato della spugna espansa. Lasciò il caffè dentro la moka a freddare e cominciò a scrivere su un tovagliolo di carta.
Le scrisse che quel bacio gli aveva aperto un buco nella pancia e che non sapeva adesso come riempirlo, quel vuoto, senza la sua mano appoggiata al suo addome. Le scrisse che quel bacio, inatteso eppure così sperato, gli aveva messo dentro una fame che nessuna pietanza poteva placare. Poi prese il tovagliolo di carta e lo infilò dentro la fotocopiatrice, per copiarlo sul cartoncino giallo che usava per scrivere ai clienti. Infilò il foglio in una busta e uscì sul pianerottolo di casa. L’appartamento di lei era giusto davanti al suo. Si erano incontrati per giorni e giorni solo al mattino, per uscire e andare al lavoro. E si erano detti per giorni solo Buongiorno, come va? Visto che pioggia che c’è?
Erano andati avanti così fino a quella sera, quando lei scelse di bussare alla sua porta e entrare. Da allora tutte le mattine, al risveglio, dopo averla sognata, lui le scriveva una lettera e la infilava sotto lo zerbino davanti alla sua porta. Poi rientrava e si preparava il caffè. Caldo, solo così aveva ragione d’essere.
Lui aveva costantemente quella fame addosso che nessun cibo riusciva a placare e solo scriverle lettere d’amore, in cui le raccontava le ore notturne passate a sognarla, i giochi, i baci e la sua vita prima di sfiorarla, quella notte, sembravano chetarlo un pochino.
Passarono ottanta giorni, ottanta lettere sotto lo zerbino, senza che lei mai una volta tornasse a bussare alla sua porta. O gli dicesse qualcosa, oltre al buongiorno mattutino, quando si incrociavano per le scale.
Era come se non fosse accaduto nulla, come se quella notte non ci fosse stata e come se non ci fossero state quelle lettere.
Arrabbiato, pensò che l’indifferenza era figlia solo di un impeto di fantasia, che l’amore era solo inventato.
Allora, in preda ai dolori per la fame e con lo spasmo dello stomaco che sembrava urlare come la bora, lui prese tutti gli ottanta tovaglioli di carta che aveva raccolto dentro una scatola da scarpe. Infilò il berretto in testa, indossò il giubbotto e uscì. E andò in quel ramo del canale vicino a casa, dove da piccolo suo padre non lo lasciava mai andare perché la gente del paese diceva che lì, sul fondo del canale, c’erano alghe così lunghe e così fitte, che arrivavano a misurare decine di metri e se ci cadevi dentro era impossibile uscirne vivo. Solo le anguille potevano sopravvivere.
E visto che era tutta una fantasia, lì avrebbe fatto morire la sua.
Prese la scatola da scarpe, tolse il coperchio e lanciò dentro l’acqua gli ottanta tovaglioli di carta e li guardò galleggiare per un pochino e poi, gonfi di acqua li vide scendere giù verso il fondo scuro. La rabbia lasciò il posto alla tristezza.
Lui se ne tornò a casa e se ne andò a letto, sentiva dolori ovunque e dormì fino a sera, nascondendo la testa sotto le coperte, perché quella casa gli sembrava così fredda, senza più parole d’amore.
Fuori fischiava la bora, fredda e vendicativa.
Il giorno dopo un pescatore che era andato a controllare la sua barca, per trainarla sulla riva del canale, lanciò l’allarme. In mezzo al canale era spuntato un albero, enorme e brutto. Le alghe si erano intrecciate una all’altra e le vesciche, dopo aver cercato invano uno spiraglio di luce, sotto la coltre di tovaglioli di carta sciolti dall’acqua, appena sotto la superficie, avevano puntato diritte al cielo per farsi strada per più di cinque metri, portandosi dietro le sorelle più piccole e verdi e quelle più vecchie e marroni e le parole dai tovaglioli avevano finito con il passare su ogni alga, come tatuaggi scuri.
Ora l’albero così strano e brutto a vedersi, si stagliava nel mezzo del canale e bloccava il passaggio a tutte le barche e c’era la processione di gente curiosa che voleva vedere. C’era chi passava tutto il pomeriggio a decifrare le parole, nere, che si mescolavano seguendo gli intrecci delle alghe marroni e verdi. E c’era chi diceva che se le leggende erano tali era perché c’è sempre un fondo di verità e anche se lì le anguille non erano mai arrivate, i Sargassi esistevano, pure in città.
Anche lui andò a vedere e riconobbe ogni sua parola, marchiata sulle alghe, e pensò che erano potenti come le anguille.
Rientrato a casa, gettò uno sguardo allo zerbino davanti alla porta di casa della vicina e notò il rigonfiamento. Sollevò il tappeto e ritrovò tutte le sue lettere. Ottanta, mai aperte, in mezzo alla polvere. Le raccolse da terra e le portò in casa e poi piano piano aprì ogni busta.
Erano tutte vuote.