Archivio Mensile: Luglio 2009

Il pigiama

“Tu sei una roccia; se non ci fossi, io sarei persa”. Martina mi sorrise e appoggiò la testa sulle mie gambe. Aveva gli occhi gonfi dopo una notte passata a piangermi sulla spalla. Io ero lì, incurante della camicetta bianca che si stava macchiando

di rimmel. Erano gli occhi della mia migliore amica a mollare quella bava nera.

Mi aveva chiamato alla dieci di sera. E mi aveva chiesto di andar da lei. Subito.

“Ci siamo lasciati, vieni per favore. Sto malissimo”. Io ero a letto ma mi infilai di corsa la camicia e i jeans, e corsi da lei, in macchina.

Lungo il tragitto mandai un sms a Pietro. “Che cazzo avete combinato?”.

Ma Pietro non rispose.


Quando Martina mi aprì la porta, capii subito che se la passava male. Niente vestaglia nera, la roba sessuosa, come la chiamavo io. No, indossava il vecchio pigiama felpato rosa, quello che la faceva sembrare un Teletubbies rosato e gonfio. Quello che indossava prima di conoscere Pietro, quando abitavamo assieme.

Odiavo i Teletubbies, odiavo quel pigiama, ma non glielo avevo mai detto. Anche perché glielo avevo regalato io.

“Eccoti, finalmente. Gli ho urlato che non ne potevo più, capisci? Di lui, dei suoi silenzi, del modo in cui mangia, della sua passione per quei cavolo di Lp. E lui se ne è andato senza dire una parola”. Martina si gettò addosso a me , mi aveva scelto come scoglio.

E io rimasi ferma ad accarezzarle i capelli mentre lei mi annegava la camicetta con un pianto continuo. La camicetta che indossavo quella sera me l’aveva regalata proprio Pietro un anno fa ma la portavo solo da pochi mesi.

L’aveva infilata in un sacchetto arancione da cui spuntava un enorme girasole. Quando la provai, notai subito che era stretta. Glielo dissi e lui rispose che aveva trovato solo quella taglia. Era fatto così Pietro. Non diceva mai le cose direttamente, ma lo faceva coi regali. Voleva invitarmi a prendermi cura di nuovo di me.

Il messaggio era arrivato.


A cosa pensavo quella volta che avevo comperato quell’orrendo pigiama da bambina gonfia a Martina? Mi ritrovai a pensarci, mentre lei mi raccontava dell’ultima ora passata con Pietro, dei silenzi, di quel non-ne-posso-

più e della faccia di lui, che la fissava con odio, usò proprio quella parola, e del passo deciso di lui verso la porta.

“Tornerà _ le dissi _ ha lasciato qui tutto, anche le racchette da tennis”.

Martina riesplose a piangere, prendendo nervosamente la scatola dei fazzoletti che avevo lasciato sul tavolino davanti a lei. Mi spiegò che andava male da tempo, che era infelice. Voleva la vita di tutti, disse: una bella casa e la macchina nuova, grande, per i figli che sarebbero arrivati. Pietro invece spendeva solo per la sua collezione di Lp. 

“Tornerà e gli parlerai e gli dirai che lo ami e che vuoi stare con lui _ continuai _ Risolverete. Adesso lui è troppo arrabbiato e tu sei troppo disperata. E’ meglio se state lontani, almeno per una notte”.

“Tornerà, sì”, ripeté lei, accoccolandosi con la testa sulle mie ginocchia, senza più lacrime. “Tu sei una roccia, senza di te sarei persa”, mi disse e si mise a dormire.


Ci aveva creduto. E io mi sentii una merda.

 

Sì, tornerà. Solo per prendere le racchette da tennis, i vestiti, i suoi libri, la collezione degli Lp dei Pink Floyd. E quando se ne andrà,  di nuovo, capirai, cara, che ti ha lasciato sola con la sua assenza.

Porco cane, non si può far finta di niente e tornare a dormire assieme dopo che hai sentito nettamente quelle parole.

Non-ne-posso-più.

Come si fa a guardarsi in faccia dopo che hai detto: mi dai fastidio.

Non è come il solletico della piuma sulla pelle. Non c’è un cazzo da ridere. Davanti non hai più chi ami ma un estraneo, con un odore della pelle che non riconosci.

Non-ne-posso-più. 

Fa male dirlo, fa peggio sentirselo dire.

Che fai? Replichi? Non puoi. Non è che resti senza parole, ma in bocca ti ritrovi con un bolo amaro che devi correre a sputare altrove , il più possibile lontano da chi ti stringeva forte quando avevi la febbre a quaranta e stavi male; da chi guardavi tutte le mattine dormirti addosso.

Martina mica lo sai cosa vuol dire, tu, sentirselo dire. L’hai detto, ti sei liberata. Lo ha sentito, è condannato.

 

Tu vuoi la favola, Martina. A me basta fermar l’incubo.

 Forse le avevo regalato quell’orribile pigiama per trasformarla da bella principessa perfetta in goffa Teletubbies? Ho l’inconscio davvero stronzo, io.

Che stupidaggine, poi, la storia della roccia.  Solo da qualche mese riesco ad alzarmi dal letto, lavar la faccia, vestirmi e piacermi un pochino davanti allo specchio. Ma in bocca ho sempre un retrogusto amaro, e temo si senta. Quel bolo mica l’ho sputato, io. L’ho inghiottito.  

Non-ne-posso-più: si va oltre il vaffanculo, si esige la sparizione. 

E io non c’ero più. Perché non te l’ho detto, Martina? Per non preoccuparti.

 

Guardai il cellulare, lampeggiava. Era arrivato un messaggio.

“Sto vomitando, ci sentiamo”. Era Pietro.