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La Cesira

“Gentile ragionier Montini,
la ringrazio per averci sottoposto la sua ultima invenzione ma devo comunicarle che la nostra azienda non la ritiene in linea col proprio core business. La ringrazio per l’attenzione che ci ha riservato.
Cordiali saluti”.

Ancora un diniego. Attilio Montini rilesse la mail di risposta dell’azienda milanese e poi premette senza indugio sul tasco cancella. Novanta mail a diverse aziende italiane per chiedere un appuntamento per presentare Cesira; niente, manco un vediamo; gli avevano risposto tutte no, non interessa.

La Cesira lo fissava dal fondo dello studio, lui lo sapeva che lei lo stava guardando da sotto il telo di cotone verde che la ricopriva. “E’ andata male anche stavolta”, le disse guardandola, ordinata e coperta, dietro al divano.
“Non interessi proprio a nessuno”.

Eppure il ragionier Montini aveva allegato assieme alla scheda tecnica della sua invenzione pure le testimonianze di quanti l’avevano provata. Novanta invii, novanta no. Eppure cinquanta persone si erano messe a disposizione in tre anni di prove e di aggiustamenti, di ritocchi e verniciature. E tutti, superata la prova, avevano detto: “Sì, è successo qualcosa, mi sento ricaricato”. E se ne erano andati via col sorriso dopo aver firmato la dichiarazione che la Cesira, eccome, se funzionava.
E c’era gente che arrivava da tutto il quartiere, con il passaparola nei bar, e chiedeva solo di vederla da lontano e si diceva voglioso di provare. Per carità c’era anche chi, tolto il telone verde, rispondeva: “Tutto qui?”. Erano quelli che andavano via delusi, subito.
Montini versò nel bicchiere che aveva davanti un altro goccio di whisky, comperato in offerta al supermercato. Pensava a loro, agli scettici, che la pensavano come tutti gli esaminatori o segretari particolari o amministratori delegati che ricevevano le sue mail di proposta di incontro e dopo aver letto la scheda della sua invenzione se ne uscivano con un “Embè, chi la vuole sta cosa?”.
Era l’anno delle televendite che facevano far soldi vendendo i macchinari per potenziare il cinismo, la cattiveria e l’individualismo.
Macchine che collegate al televisore facevano tutto loro. Bastava restare a guardare. Con un’ora di seduta al giorno nessuno aveva più paura di uscir di casa da solo e affrontare gli altri. Garanzia di tre anni, inclusa.
Si diventava bravissimi a fregarsene di tutto e tutti e se c’era la depressione, a far capolino nel weekend, si ovviava con l’ultimo ritrovato della ricerca. La Cocamela: melatonina in parti uguali di cocaina, che da cinque anni era stata dichiarata sostanza lecita. La vendevano direttamente i farmacisti. Solo che il prezzo lo facevano sempre loro.

Il mercato comanda, pensò Montini.
Ma al centro sociale del paese la Cesira era sulla bocca di tutti, Tutti ne parlavano benissimo e c’era chi, come il colonnello in pensione Carlo Rambaudi, quando sentiva quel nome, c’aveva un fremito che le assistenti dovevano star attente che il pacemaker non gli impazzisse di colpo, tanto era agitato. E si agitava pure la signora Canciani, che tutti lodavano per i suoi capelli bianchi sempre in piega. Eppure quando lei pensava alla Cesira, mentre con le amiche giocava a scala quaranta al tavolo 7 del centro sociale, si scompigliava tutta la capigliatura e pareva che era stata a correre nei campi e la pelle bianca, con le rughe dei suoi 70 anni pieni di dignitosa semplicità, diventava rossa come se avesse corso. Tanto.
Si agitava Gino il macellaio, che dopo l’incontro con la Cesira, aveva trovato il coraggio di chiedere alla signora Carli di ballare con lui.
Si agitavano tutti al centro sociale, tutti quei 50 che la Cesira l’avevano toccata e si erano detti: “Cosa ci sarà mai di male?”.
E poi tutti l’avevano scritto che dopo si erano sentiti bene, che avevano la corrente addosso, la voglia di fare, la nostalgia diventava sorriso e c’era solo una cosa, obbligatoria: provare, riprovare e provare ancora. L’avevano scritto tutti che la macchina del ragionier Montini funzionava.
Ma evidentemente a nessuna azienda interessava la commercializzazione su larga scala di una ricarica di cuori stanchi.

Montini scrisse qualcosa al computer, finì tutto di un fiato il bicchiere di whisky; ne aveva bevuto di meglio decisamente nella sua vita ma poco importava adesso.
Si alzò dalla seggiola e si spostò fino al divano. Si sedette con le gambe sulla seduta, la faccia verso la Cesira coperta. Con un solo gesto, tolse il telone verde.
Era del 1952 , nera. Ma sembrava appena uscita dalla fabbrica tanto era lucida, senza tracce di ruggine e con i freni a bacchetta ancora perfetti. Era montata su un carrellino che permetteva di far girare le ruote senza che il copertone toccasse terra. Erano libere, le ruote.
Una bici d’epoca trasformata in cyclette. Sotto la sella c’era un tubo di gomma collegato ad un cappellino da ciclista, di quelli con il frontino, senza scritte, tutto giallo.
Montini prese il berretto tra le mani e lo calcò sulla testa, attento a sistemare bene il tubo di gomma affinché scendesse lungo la schiena, senza che gli fosse di intralcio. Salì sulla bici, con un movimento sicuro. Appoggiò i piedi sui pedali che cominciarono a girare a vuoto, complice il sostegno del carrellino e pedalò al ritmo dei ricordi che si facevano strada dal cappellino al sellino.
Alla settima pedalata si sentì pronto, con un sorriso beffardo strinse forte con le mani le maniglie, alzò le natiche verso l’alto staccandosi dal sellino e sentì le gambe forti come mai. Abbassò la testa fino a toccare il manubrio e si lanciò in picchiata e nella pedalata, furibonda, si sentiva una forza dentro capace di far ballare il valzer a qualsiasi donna del quartiere. Ma lui aveva una sola strada, quella tra le gambe della Gina, la barista del centro sociale. La Cesira dava il ritmo giusto, il tubo faceva il suo lavoro.

Montini voleva solo lei, Gina. Se lo era detto tante volte e tante volte aveva lasciato perdere, che a 60 anni la vita è un passo lento su un marciapiede e non una corsa in discesa su una bici del 1952.
Ma aveva ragione suo padre, che alla Cesira ci aveva creduto prima di lui, prima che il mondo dimenticasse che l’amore è energia, che sopravvivere non è vivere, che il coraggio non si vende su un canale tv, che gli occhi bassi finisci con l’indossarli sempre.
Cinquanta volontari ci erano saliti e lui, Montini, aveva fatto il guardingo che la scienza prevede che mai ti lasci andare e tutto controlli e tutto valuti e invece quella volta, stanco di novanta no, e ubriaco di whisky sottomarca, pensò alle parole di suo padre, si mise a pedalare come un ossesso e ogni pedalata il cuore si gonfiava e il cervello chiedeva solo che alla fine della discesa la Gina le aprisse quelle gambe, così lui con la Cesira ci sarebbero finiti dentro finché c’era fiato.
E così fece, gonfiando cervello e calzoni, finché non si addormentò con la faccia sul manubrio e il sedere sul sellino, il cappellino sudato in testa e il tubo sbrindellato nella foga.

La mattina dopo a mezzogiorno si svegliò con il respiro affannoso. Passò davanti al computer rimasto acceso, toccò lo schermo che si illuminò, rilesse quel che aveva scritto la sera prima. Prese a spingere il carrellino coperto dal telone verde fino al garage attiguo alla cucina. Attaccò il carrello alla sua Punto. Guidò in silenzio.
Il caffè lo prese al centro sociale, davanti al sorriso della Gina. Ballarono finché non fece buio. Continuarono per altri 30 anni.