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La discarica

Nella terra del pessimismo i desideri  finirono tutti nella discarica, ai margini della città. Non c’era più tempo di desiderare, di creare, di pensare a soluzioni possibili  e diverse. Il comitato nazionale di difesa della patria, prima aveva chiuso i confini, poi per tutelarsi dalla recessione, il comitato aveva deciso di mettere al bando i desideri e di concentrare tutte le attenzioni della nazione su un sano concetto di pessimismo.

Poteva solo peggiorare, erano i mercati e le borse a dirlo e la politica lanciava messaggi precisi.

“Pensa a lavorare, che altro non hai”.

“La patria, prima della famiglia ”.

“Il lavoro nobilita se ce l’hai”.

 

E così in ogni comune le aziende municipalizzate avevano aperto speciali sportelli per la raccolta dei desideri della gente, che si mise in fila, senza manco un dubbio, perché tanto il pessimismo toglieva anche la capacità di chiedersi se quello che stavano facendo era giusto oppure no.

Arrivavano tutti con il loro sacchetto dell’immondizia nero, pieno di desideri da buttare. Fogli di carta con appunti, lettere, libri, quadri, piccole invenzioni in attesa di un realizzatore, cuoricini di stoffa, fotografie di uomini e donne o di paesaggi irraggiungibili.

Dove volevi andare se non c’erano soldi neanche per uscire di casa?

Tutti in fila con il sacchetto nero, sotto il braccio, per consegnarlo all’addetto della municipalizzata incaricato della raccolta. In cambio ricevettero tutti un foglio con numero di matricola ,  con sù scritto nome  e cognome, indirizzo, professione e tipologia del rifiuto buttato.

Una prova, in caso di controllo da parte dei vigili, che erano  cittadini per bene, che avevano partecipato alle iniziative del comitato nazionale di difesa della patria, in nome del pessimismo.

Avevano anche creato una trasmissione televisiva, per dare slancio al fervore del conferimento,  per mostrare la brava gente che si liberava dei desideri, e ogni ricevuta poteva essere estratta per vincere un anno di spesa in una grande lotteria finale.

 

Tutti  i sacchi  raccolti finivano nel camion e venivano portati alla discarica, una per ogni città. A Venezia  la discarica l’avevano posizionata a Marghera nei terreni  di una vecchia fabbrica, troppo inquinati per essere bonificati e consentire nuove costruzioni.

Ai bordi della laguna, la grande discarica di sacchi neri in poche settimane prese forma. Un grande cumulo di plastiche nere che al sole cominciavano a perdere  colore e pure a rompersi, facendo uscire il contenuto.

 

Per primi arrivarono i gabbiani, abituati come erano a cercare cibo in mezzo alle immondizie.

Ma in quei sacchetti non c’era cibo; solo carte, stoffe, fogli, foto che al sole si schiarivano, dentro i sacchetti rotti dai becchi avidi.

Poi arrivarono i topi che la carta l’hanno sempre amata ma solo come assaggio senza mai distruggerla completamente. E si misero a mangiucchiare i bordi per assaggiarne la consistenza, e attraverso l’assaggio qualcuno pensò che il desiderio passava  passava ma non gli credette nessuno visto che i topi erano notoriamente produttivi sul piano della fertilità e allora non si fece caso alla anomala proliferazione di sorci in tutta la grande nazione depressa.

E dopo i topi, arrivarono i rom che avevano sentito parlare della discarica dei desideri buttati via,  per volere nazionale, e visto che loro con il ferro oramai non ci facevano più soldi, che le fabbriche erano state chiuse e il rame lo portavano via gli slavi, ben organizzati, con i camion e le armi,  e partivano in carovane per rivenderlo all’estero, e arrivavano sempre per primi, loro, gli zingari, pensarono che potevano far soldi coi desideri recuperati, spolverati, sistemati, e rivenduti.

E dopo i rom arrivarono gli africani che di desideri non  avevano mai smesso di vivere, anche se erano oramai le terze generazioni, nate tutte in questo paese malandato. Loro, la cittadinanza non l’avevano ancora avuta perché nessun partito li aveva sostenuti non sapendo con certezza per chi avrebbero votato.

Per ogni figlio di stranieri nato nella nazione ci volevano minimo venti anni di attesa, anche se eri nato dentro i confini  e bisognava sostenere un esame così difficile che se andavi alla Bocconi a chiedere di diventare professore senza laurea sicuramente facevi prima.

Loro gli africani all’andazzo si erano abituati, pativano il freddo tanto quanto i tristi, così chiamavano gli italiani di pelle bianca.

Ma loro, i neri,  come li chiamavano i tristi, avevano dentro sempre la fame.

Il governo con un decreto, anni prima, decise  che gli africani dovevano vivere tutti in periferia, a metà strada tra la campagna in cui avevano confinato i palazzi dei rom, costretti  dentro case di mattoni, tutte anonime che li avevano depressi perché a loro serviva il cielo come tetto e nessuno lo poteva sopportare quel grigio e le città dei tristi, tutte illuminate e coi negozi vuoti.

La discarica  a Venezia stava proprio tra le case depresse degli zingari e quelle affamate degli africani.

Da qualche tempo, senza che nessuno se ne accorgesse, rom e africani avevano cominciato a parlarsi, e si dicevano che era difficile per loro stare in città così silenziose come quelle che erano diventate in quel paese della paura. E siccome c’era solo un canale televisivo, quello del comitato nazionale, e solo da lì si avevano le informazioni e non facevano che parlare della crisi mondiale e dei delinquenti rom o africani che commettevano reati, in città nessuno più parlava o dava lavoro o si sedeva tranquillo vicino ad un africano o ad una donna con la gonnellona colorata, anche se questi  erano indaffarati a studiare sui libri per sostenere l’esame che non passava nessuno.

Anche a Venezia non si parlava, ci si guardava di sottecchi, si passava  oltre facendo finta di niente se loro, gli stranieri, avevano bisogno di aiuto. Per reazione al silenzio, rom e africani, invece, avevano superato la diffidenza, avevano cominciato ad aiutarsi e visto che il lavoro per loro mancava si erano messi a darsi una mano. E da lì, dai dialoghi, era venuto fuori che la discarica era una opportunità. Sì.

Recuperare, pulire e rivendere desideri al mercato nero.

Recuperavano e rivendevano sogni, desideri, progetti, speranze.

Organizzavano anche aste clandestine dove giravano ogni giorno  le poche migliaia di euro in contanti rimasti ai tristi.

 

Non si usarono cellulari e computer, facilmente rintracciabili dai servizi di controllo che vietavano il recupero di quello che era stato buttato.

Rom e africani tornarono al passato, al passaparola, sussurrato di bocca in bocca nei bar della città.

E si trovarono presto, col passare dei mesi, una fila di clienti vogliosi di riavere se non il loro desiderio almeno quello di un altro, purché sia un sogno, un qualcosa  a cui pensare nei momenti duri come una opportunità, una soluzione, una via di fuga.

Quelli che avevano fatto la fila per volere del governo si ritrovarono tutti a  farne un’altra, stavolta nella periferia scura,  per ricomprarsi sogni buttati e da nascondere sotto il materasso al posto dei soldi che erano finiti. Rom e africani divennero così i veri padroni della città e la discarica cominciò a svuotarsi, lentamente. Da loro tutti i tristi finirono con il passare.

Quando il governo scoprì l’inganno e organizzò la repressione, decidendo che sarebbero state bruciate tutte le immondizie delle discariche in giro per il paese, i rom e gli africani chiusero le aste, fecero sparire dai retrobottega dei bar i loro punti vendita e si chiusero nelle case tra campagna e periferia.

Una mattina mentre gli elicotteri lanciavano le bombe sopra le discariche, a Venezia si formò una  lunga fila di persone che lasciarono la città e marciarono verso la periferia e poi verso la campagna e poi andarono diritti verso la colonna di fumo della discarica.

Erano i tristi che camminavano, con trolley e valigie e zaini, con le macchine piene di materassi verso la discarica. Erano migliaia, erano silenziosi. Uomini e donne e bambini in marcia, chi in bicicletta, chi in moto.  Quando passarono davanti alle case degli africani e poi davanti ai condomini dei rom, loro, gli stranieri,  urlarono dalle finestre verso quella gente, li invitarono a fermarsi e tornare indietro, che là in fondo era tutto fumo e tiravano le bombe e c’era un sacco di fuoco.

Ma loro, i tristi, andarono avanti fino ai cancelli roventi della discarica, riuscirono ad aprirli, e si misero a camminare tra topi e gabbiani, in mezzo alla terra incandescente.

Avevano tutti  fame.

Di loro non parlò nessuno.

 

Polveri sottili

 

Si guardarono attraverso i vetri dei finestrini delle loro macchine, ferme, affiancate, in mezzo alla lunga coda.

Lei teneva le mani ben salde sul volante mentre il marito le ricordava che sarebbero arrivati tardi all’appuntamento in Croazia con la proprietaria dell’appartamento che li aspettava per consegnare le chiavi dell’appartamento preso in affitto per le vacanze. Era la sesta volta che lo ripeteva e lei cominciava a spazientirsi. Anche perché se non erano usciti dalla tangenziale per evitare la coda, la colpa era tutta di suo marito.

Lui aveva girato la faccia, stanco e infastidito, verso il finestrino, per non sentire l’alito del collega che era andato a prenderlo e aveva pensato bene di sbagliare strada e adesso malediceva silenziosamente le code in quella tangenziale che era un carnaio e si stava fermi, sempre, che se almeno si correva poteva aprire un attimo il finestrino e far entrare aria di ricambio in quell’abitacolo ammuffito di Punto. Nera.

Lui alzò gli occhi dopo aver fissato lo pneumatico della macchina a fianco. Era liscio.

Lei sbuffò contro il marito e girò la faccia verso il finestrino, per cercare conforto nell’orizzonte. Se lo vedeva.

Si guardarono, attraverso i vetri, e rimasero a fissarsi per cinque minuti buoni.

Tanto non si muoveva nessuno.

Poi lui sorrise, lei sorrise.

Quattro occhi, due bocche, due nasi, quattro mani, quattro piedi si unirono quel giorno sull’asfalto rovente  della tangenziale di Mestre.

Adesso mica è statisticamente facile pensare che l’amore possa sbocciare lungo l’asfalto grigio della tangenziale di Mestre, quella che in ogni messaggio radio sulle condizioni di traffico veniva indicata, fino a qualche anno fa,  come il valico degli ingorghi, con un minimo di dieci ed un massimo indefinito di chilometri di auto e camion e camper, incolonnati verso le località del mare e della montagna. Ogni estate. Dal 1972 a qualche anno fa.

Un posto che tutti temevano, il valico di Mestre, una montagna di auto a passo d’uomo che per percorrerla, dal casello di Villabona fino al cubo, l’orribile edificio di tubi innocenti, messo da qualche mano improvvida sopra la struttura del bar della stazione di servizio, prima dell’uscita per l’aeroporto e l’autostrada per Treviso e Belluno, ci volevano 17 chilometri e 700 metri e se andavi a piedi facevi prima.

E tutti stavano dentro gli abitacoli surriscaldati. 150 mila pezzi di lamiera di ferro ogni giorno, fermi, a far bollire la frizione andando di prima e seconda e stop, col caldo e il tempo che non passa mai e chi vuoi che abbia voglia di guardare fuori, quel che facevano gli altri quando sei incastrato in due corsie, in colonna, col caldo, con l’odore del tubo di scappamento del camion davanti e poi la immobilità diventa spavento che avanti di questo passo quando si arriva?

Ecco come fai a pensare che in una situazione simile nasca un amore? Non lo pensi.

Lei, anni dopo, diceva che era stata una questione di Karma.

Lui, anni dopo, agli amici ripeteva che il destino esiste.

La bionda turista tedesca e l’operaio della campagna padovana, lei stanca del marito insofferente e lui del collega con l’alito cattivo, quel giorno si guardarono e si amarono tanto.

E la cosa mica si esaurì lì, in quella strada inquinata, rumorosa, calda.

Perché a volte l’amore te lo porti dietro anche se dura un niente e diventa, in assenza del quotidiano, un pensiero salvavita.

L’amore, quel giorno, nell’asfalto, aveva gli occhi dolci di una signora tedesca, col ciuffo biondo che le cade sul viso e sembra disegnarle un punto di domanda sopra il naso e lei di punti di domanda nella sua vita ne aveva, oramai, ben pochi perché aveva un lavoro, una famiglia, un marito, una casa presa in affitto in Croazia e il corso da subacqueo da fare per prendere il brevetto.

E aveva le labbra rosee di un operaio padovano che in Germania non c’era mai stato e mai andò ma amava tanto uscire con la barca per andare a pescare in laguna e conosceva tutte le secche, quelle che se non stai attento ti ci impantani con la barca, ma se ci vai con una bella donna torna utile, la secca, in laguna, col sole che cala e i gabbiani che passano a vedere che succede.

 

Le due auto procedettero, passo passo, distanziandosi e riprendendosi, lungo le due corsie e si vedeva  in fondo la sagoma del cubo. E l’operaio e la bionda, si scambiavano sorrisi e sguardi e ad ogni avanzata, prima e seconda e stop, si cercavano.

E lei pensava che per un uomo con una bocca così avrebbe rinunciato a qualsiasi brevetto.

E lui pensava che quel punto di domanda di capelli biondi andava sciolto, con un soffio.

Poi la macchina della bionda mise la freccia per spostarsi sulla sinistra e procedere verso il confine e la Croazia, che c’era quella signora che li attendeva con le chiavi dell’appartamento.

La macchina degli operai lasciò loro il passo tanto dovevano buttarsi sulla destra per prendere la bretella, sperando di non arrivare troppo tardi in fabbrica che mancavano oramai pochi minuti all’inizio del turno e loro erano ancora lì, nell’ingorgo e non a timbrare il cartellino.

Lei guardò dallo specchietto retrovisore, lo spostò per vedere gli occhi di lui che  nella macchina dietro e poi a fianco per l’ultimo metro, girò la testa per seguire la sagoma della macchina di lei finché poteva.

Lei sistemò il ciuffo biondo e pensò che anche se tutto è fermo, qualcosa si stava muovendo.

Lei si toccò le labbra,  con un dito e si disse che aveva bisogno di laguna.

 

Si persero, come le polveri sottili.

Si pensarono tutti i giorni.

Si amarono finché ebbero ricordi.

 

 

Il bar della piazza

Il cappotto l’aveva buttato sullo stendino in terrazzo, a prendere aria dopo quella notte pregna di tabacco.
A Marghera era un sabato di ottobre, bello, di sole, lievemente ventoso. C’era il mercato e la gente parcheggiava un pochino ovunque, vicino a casa di Martino, per andare a fare le spese.
Con le fabbriche chimiche oramai quasi tutte chiuse, Marghera non si svegliava più la mattina con quel puzzo di uova marce che Martino aveva imparato a riconoscere come l’odore di casa. Per tanti anni quando tornava dai suoi viaggi, in treno o in macchina, era l’odore di uova marce che si cominciava a sentire da Malcontenta e che entrava nella macchina o nel vagone dai condotti dell’aria a dire che si stava per tornare a casa.
Marghera in quell’ottobre con le fabbriche del Polo agonizzanti, mostrava al di là del muro di capannoni di via Fratelli Bandiera, il grande viale dei camion che di notte lasciava spazio ad ogni semaforo alle prostitute nigeriane, il suo volto vero di città giardino. Gli alberi profumavano.
Era la rivalsa dopo una delle tante bizzarrie dei primi del Novecento, sperimentate lì a due passi da Venezia.
Piazzare le fabbriche davanti alla città dal passo lento e dal vociare costante e costruire, come per chiedere scusa, quel quartiere operaio nel verde più verde. Martino viveva lì e non avrebbe voluto stare in nessuna altra parte.
Il cappotto l’aveva steso sullo stendino in terrazzo, in quella giornata limpida e senza polveri, per togliere l’odore del fumo.
Aveva trascorso la notte in un locale di piazza Barche, nel centro di Mestre. Piazza Barche per i mestrini, piazza XXVII Ottobre per la toponomastica. Mestre che in una notte aveva perso centinaia di piante per lasciar posto alla smania di costruire, ha ancora strade e piazze con nomi doppi, quelli della tradizione e quelli della toponomastica ufficiale.
Un’altra bizzarria del Novecento.

Era un locale nuovo, quello in cui Martino aveva passato la notte. Non l’aveva mai visto prima e manco mai l’aveva sentito nominare. Passeggiava in piazza, quando aveva visto un gruppo di persone intente a parlare davanti ad una porta che dava su un locale stretto e tutto scuro, con le luci basse. E si era stupito perché sotto al porticato davanti all’ingresso c’erano due grandi casse che sparavano fuori decibel a tutto volume e una strobo, una di quelle palle fatte di vetrini che giravano nelle discoteche degli anni Ottanta (sempre Novecento era), e lui, Martino, si era fermato a fissarla a bocca aperta che erano anni e anni che non ne vedeva una così. Erano anni in verità che non entrava in una discoteca.
Il locale era di quelli modernissimi, pareti grigio scuro, belle bariste in pantaloni a sigaretta e magliette aderentissime e tacco con plateau. Altissime, magrissime, con la coda di cavallo liscia, lunga che ricadeva sui colli esili come quelli di certe africane che aveva visto e segretamente amato nei suoi viaggi.
I clienti erano tutti vestiti bene, le donne con le gonne strette e il tacco dodici; i ragazzi con la giacca elegante, qualcuno anche con la cravatta. Tutti in mano avevano qualcosa da bere. Tutti bevevano.
Manco una birra degna del nome, pensò Martino, guardando il gruppo delle spine.
Pareva la festa di inaugurazione, una di quelle situazioni in cui tutti sfoggiano un sorriso di circostanza e sperano di far passare le ore senza problemi, dopo una giornata di lavoro.
E allora Martino si era deciso a passeggiare in mezzo alla gente tra il porticato con la musica e i tavolini, tutti occupati, e l’ingresso del locale, una stanza piccola, con la porta impegnata dall’andirivieni delle bariste e delle cameriere, che portavano fuori vassoi di tramezzini e di bicchieri di birra e vino bianco.
L’unica persona, che non chiacchierava o beveva, era una ragazza, vestita di nero. Aveva i capelli neri ricci e stava seduta davanti ad una delle grandi casse, come se il rumore non le desse per niente fastidio. La osservò meglio. Aveva un cappotto grigio scuro, di quelle stoffe che si usavano una volta, fustagno.
Ai piedi portava delle scarpette basse di vernice rossa; stringeva al petto una borsa di panno con sopra una grande faccia di gatto. Portava gli occhiali, con le stanghette rosse. Guardava verso un punto non preciso della piazza, come se fosse attirata da qualcosa, lì in fondo, lontano.
Osservandola meglio Martino capì che in mezzo a quei ricci scomposti che toglievano la visuale dal suo collo, la ragazza indossava delle cuffie. Il supporto le faceva da un cerchietto ma su di lei il cerchio di gomma e pure le due cuffie sparivano in mezzo al tripudio di ricci neri, intricati come le mangrovie. Fossero stati verdi i capelli, sarebbe stato un bel vedere davvero, pensò Martino.
La ragazza guardava lontano e muoveva la testa, piano, al ritmo della musica che sentiva nelle orecchie e Martino si chiedeva se il ritmo era simile a quello della musica delle casse perché a lui sembrava di sì, ma non poteva esserne sicuro e allora si fece coraggio e andò a sfiorarle la spalla. E lei inarcò la schiena con un gesto veloce, presa di soprassalto da quel tocco e lo guardò attenta.
Martino dovette urlare per farle la domanda.
“Scusa coooosaaaaaa staiiii ascoltandooooooo?”, le urlò contro, tentando di superare il rumore delle casse, per far sentire la sua voce.
“Niente”, risposte lei.
“Comeeeeee nieeeeente?”, ribattè lui.
La ragazza gli sorrise e lo tirò per il cappotto togliendolo da davanti le casse della musica.
“Le cuffie non sono collegate a niente. Vedi il cavo con lo spinotto? Lo tengo in tasca, mi serve per far finta che sto ascoltando musica, così non mi vengono a disturbare. E invece ascolto la musica delle casse, mi metto qua perché mi piace sentire il rumore dei bassi prodotti dalle casse, mi concentro su quelli e mi passano i momenti fastidiosi”.
“Fastidio di che?”. Martino era curioso.
“Fastidio per tutte queste parole inutili. Sono venuta qui con una amica a cui piace quel tipo, quello biondo là in fondo. Lei gli cicaleccia dietro, io mi annoiavo e mi sono messa qui”.
“Ma questo locale è nuovo?”, continuò a chiedere Martino.
“Boh – rispose la ragazza – mai sentito o visto prima. Senti, ti va se ce ne andiamo a passeggiare?”.
Martino annuì e la seguì. Percorsero a piedi 45 volte la piazza, dal porticato del bar fino ai parcheggi vicino al canal Salso. Si dissero un sacco di cose. Ma Martino il giorno dopo mentre sistemava il cappotto sullo stendino ricordava solo le cose essenziali.
Elena, 20 anni, studentessa a Ca’ Foscari, padovana, bella, capelli neri, ricci come le mangrovie che se erano verdi era stupendo.
Dita piccole; tre anelli d’argento; vestito nero; scarpe rosse; occhiali con stanghette rosse; bocca rosa dal gusto dolcissimo.
Martino ricordava perfettamente che lasciandola davanti al porticato di quel locale, a notte fonda, l’aveva baciata e lei, Elena, aveva ricambiato. E poi si era rimessa sulle orecchie le cuffie mollandogli il più bel sorriso che lui avesse mai visto, Africa compresa.
E lei gli aveva detto qualcosa ma senza voce, solo muovendo le labbra e l’aveva ripetuto tre volte. E lui non aveva capito e per paura di fare la figura del fesso aveva sorriso ed era andato via.
Martino il giorno dopo nello stendere il cappotto in terrazzo, aveva sentito che c’era qualcosa nella tasca e ci aveva trovato dentro un cuoricino di plastica rosso, piccolo. E così aveva indossato la tuta e il giubbotto e senza neanche bere il caffè, aveva preso la macchina ed era tornato in piazza Barche. Era convinto che al locale avrebbe trovato qualcuno che c’era la sera prima e che magari Elena l’aveva vista e gli poteva dire dove trovarla. Lui era convinto che quel pezzo di plastica glielo aveva messo lei in tasca, senza farsi notare.
E così era arrivato in piazza e si era messo a camminare su e giù per i portici cercando l’ingresso del bar. E invece c’erano un negozio di scarpe, uno di saponi artigianali, una banca, una edicola, un negozio di tappeti chiuso da decenni. Ma di bar manco l’ombra.
Era andato così a chiedere informazioni all’edicolante e quello, che aveva aperto alle cinque, l’aveva guardato stranito e gli aveva detto che no, non c’era alcun bar nuovo nella piazza e mai c’era stato e che no la sera prima non c’era stata alcuna festa, ché lui aveva chiuso tardi e avrebbe visto e che insomma, Martino, forse aveva sbagliato piazza o città perché non era successo niente di quello che lui raccontava.
E Martino non gli aveva creduto e aveva fermato una pattuglia di vigili e aveva chiesto a loro se avevano visto la festa al bar e anche loro gli avevano ribadito che no, non era successo niente. E nessuno aveva chiamato alla centrale per il troppo rumore.
Martino se ne era così tornato a casa mortificato, convinto di essere ad un passo dalla follia se vedeva cose che nessuno vedeva.
Aveva lasciato il cuoricino di plastica rossa sul comodino e alla sera era andato a dormire, sentendosi un pochino matto, un pochino scemo.
Quella notte sognò il bar, sognò Elena, la vide sorridere e infilare le cuffie e poi dire le parole mute.
E capì ogni sillaba.

La bustina del tè

“Hai visto? Anche oggi le Borse sono in fortissima perdita”.
Dario attende una risposta e, non sentendola arrivare, solleva lo sguardo dal giornale per vedere se Mara lo sta ascoltando. Lei guarda fuori dalla finestra della cucina, la tazzina del caffè vicino alle labbra. Soffia lentamente per raffreddarlo. Risponde solo dopo cinque minuti.
“Con i soldi che abbiamo noi in banca, manco giochiamo a Monopoli. Che te ne frega della Borsa…”, dice lei, senza voltarsi verso il marito.
Lui riabbassa gli occhi sul giornale. Ma le notizie hanno perso di colpo di interesse.

E’ la prima volta che Mara parla a Dario dopo una serata e una notte difficile, trascorsa una a fianco dell’altro, stando attenti ad evitare qualsiasi contatto, quasi per evitare che la voglia di calore dei rispettivi corpi li costringesse ad avvicinarsi.
Quando si vive assieme c’è questa abitudine al riconoscere nel calore dell’altro una parte di noi. Il sonno, di solito, riavvicina i corpi. Anche quelli arrabbiati.
La sera prima, a cena, era bastata una parola di troppo di Mara, che contestava a Dario di non aver chiuso la porta del frigorifero, per far scatenare la rabbia di lui.
“Sei una belva in agguato, a caccia di ogni mio errore per rinfacciarmelo. Non ti sopporto più”, le aveva urlato contro lui.
Mara aveva sgranato gli occhi, gli aveva lanciato una occhiata furente e poi si era chiusa in camera da letto a guardare la televisione.
E quando Dario l’aveva raggiunta all’una di notte, per dormire, lei era già persa chissà dove nel suo sonno.
Vicino al suo fianco destro aveva posizionato uno sbarramento. Al centro del letto, Dario guardò il tubo di cuscino, quello che lei usava spesso per sollevare i piedi stanchi la sera. Era la barriera che lei solitamente alzava per allontanarlo. Ogni volta che litigavano lei non replicava alle sue sfuriate
ma creava barriere contro la sua vicinanza. O andava a dormire in salotto pur di stargli lontano. Poi il giorno dopo, quando aveva voglia, ricominciava a parlare. Dario, la mattina, si svegliava sempre con il bisogno di lei; il suo corpo reagiva subito, pronto e allegro.

Ma stavolta quando si è girato sul fianco per sfiorarla ha finito con il premere la sua allegria contro il cuscino ed è rimasto interdetto. Per l’ennesima volta, quella barriera tra loro sanciva un risveglio triste.
Mara, dopo ogni discussione, si chiude in camera e alza la barriera in mezzo al loro letto. Dario va a sfinirsi di seghe in salotto, guardando i film porno sul pc. I gemiti di quegli estranei soffocano dentro le sue orecchie protette dalle cuffie e lei manco se ne accorge.
Dario appoggia sulla tavola il giornale e mescola lo zucchero dentro la tazzina del caffè.
Guarda Mara che gli da le spalle.
Avrebbe preferito, si dice, una evoluzione alle loro baruffe, un bel ring coi guantoni per darsele di santa ragione e poi, una volta stremati, ridere e fare di nuovo all’amore.
E’ stanco di litigare per delle stupidaggini. “Lavoro, porto a casa uno stipendio decente – pensa – Certo non possiamo permetterci regali extralusso e viaggi ai Caraibi o weekend alle Terme. Ma non abbiamo una vita di stenti e segreti. C’è amore tra noi”.
Dario sente la stanchezza di litigare se dimentica la porta del frigo aperta, il calzino finisce sotto il letto a riempirsi di polvere e la tavoletta del cesso resta, troppo spesso, sollevata. Ha provato a segnarsi le cose per ricordarsele ma spesso torna a casa stanco e se ne dimentica.
Mara, per ogni sua azione sbagliata, parte con la ramanzina. Gli pare di sentire sua madre ogni volta che lei mette la quinta sulle sue recriminazioni. E a lui tocca arrabbiarsi, per togliersi dall’impaccio.
Nei primi anni del loro matrimonio non era così _ si dice ancora Dario _ non guardavano con pignoleria ad ogni difetto dell’altro.
Poi l’astio ha bussato alla loro porta e si e’ piazzato sul divano ad osservarli. Presto avrebbe finito per il percorrere ogni angolo di quella casa, si dice Dario. Il matrimonio è la tomba dell’amore. E loro due, pensa Dario, stanno scavando una lunghissima trincea.

Mara guarda fuori dalla finestra e pensa che un’altra giornata noiosa sta cominciando in quella casa dove tutto è abitudine. Si annoia, Mara, di tutto. Da mesi non vede la sua vita se non come una noiosa ripetizione di gesti e azioni. Un dejà-vu continuato, di cui può anticipare parole e pure gesti e situazioni. Un giorno sempre uguale senza neanche l’emozione di veder se la marmotta, uscendo dalla tana, vede la sua ombra o meno. Non le era successo niente di particolare per diventare così apatica. Una mattina ha acceso la radio e un medico parlava di menopausa e spiegava che di solito arriva ai 50 anni. Mara li avrebbe compiuti tra un anno e pensò, quel giorno, ascoltando il medico, che sparita la fertilità, non si sarebbe più sentita donna. E il malumore, di fronte a quella improvvisa consapevolezza, divenne il suo confidente. Si alza la mattina ed è arrabbiata. Ogni gesto di Dario la infastidisce, le sembra di aver a che fare con un bambino. Ma lui di anni ne aveva 52 e a quell’età si è adulti.
Ma gli uomini non hanno scadenze se non quando entrano in una bara. Le donne, invece, pensa Mara, scadono prima e lei si sente addosso le lancette delle ore che passano. E così passa le giornate ad annoiarsi e al ritorno a casa del marito sfoga il malumore rimproverandolo e ogni volta che lui le si fa più vicino per giocare lei si scansa, timorosa che lui avverta la prossima trasformazione. Teme che lui senta l’odore della scadenza in arrivo. E si arrabbia. Le piacerebbe _ si dice _ un giorno fare qualcosa di diverso: tirare uno schiaffo a Dario, magari, e non battere la ritirata nella sua fortezza tra i cuscini.
Certo, la mattina ha voglia di Dario, del suo odore e del suo corpo. Ma cerca di non pensarci, ha paura di provare e non sentire più niente.

“Ma tu mi desideri ancora?”. Le parole di Dario le rimbombano in testa come una martellata, all’improvviso mentre vaga nei suoi pensieri.
“Ma che stai dicendo, certo che ti desidero”, risponde lei girandosi verso il marito.
“Oh, finalmente mi guardi. E’ un’ora che fissi la finestra e mi dai le spalle”.
Mara legge sulla faccia di Dario tutta la sua incapacità di capirla.
E’ domenica, un’altra noiosa domenica a casa.
A lei torna la voglia di tirargli quello schiaffo e andare in strada a passeggiare. A Dario viene voglia di tirarle un manrovescio e andare al bar.

Lei scaccia il pensiero e va in salotto. Il computer di lui è in stand by sul tavolino davanti alla televisione. Lei sfiora la tastiera e lo schermo si accende inquadrando una foto porno. Un uomo si masturba su un divano mentre una ragazza gli sta seduta sopra la faccia. Sembrano spassarsela.
Mara pensa che anche lei e Dario se l’erano spassata, molto. Poi pensa che Dario è un porco.
Lui l’ha raggiunta, vede la foto, le sorride.
“Sai, Mara, mi manchi”. Lo dice quasi per scusarsi della foto dimenticata sul computer.

“Dario io il prossimo anno faccio 51 anni _ risponde lei, seria _ significa che arriva la menopausa. Lo sai cosa vuol dire? Che non sarò più donna. Non ti farò più godere e io non sentirò niente”.
“Ma che dici Mara, non è vero. Chi dice che il sesso è bello solo da giovani, non sa niente. Prova a chiederlo a mia madre e vedrai cosa ti dirà lei”.
Mara si scansa.
“Tua madre ha settant’anni Dario”.
“Con mio padre fa sesso più di noi due”, risponde lui.

A quel punto Mara si stufa, prende il portamonete.
“Esco, vado a prendere le sigarette”.
Dario, rimasto solo, sprofonda nel divano e resta a fissare la foto di quei due che se la stanno spassando mentre lui no.
Ripensa alle parole della moglie, a quel “non potrò più godere” e la rabbia gli monta dentro. Non aveva mai pensato fino a quel momento di aver sposato una cretina. Roba da non crederci.
Eh, ma si dice, le avrebbe fatto vedere lui come sarebbero andate le cose tra loro. E più si arrabbia, più gli arrivano segnali di vita remota sotto la cintola dei pantaloni.

Quando Mara rientra, lui la aspetta davanti alla porta della cucina.
“Seguimi”, le dice.
Mara obbedisce, tanto si immagina già una riedizione della discussione lasciata interrotta poco prima.
“Io preparo il tè, tu va in camera e spogliati”, le dice lui.
Mara resta interdetta ma lo fa. Va in camera, toglie pantaloni e maglia e infila la sottoveste che usa di solito per dormire.
Quando Dario arriva in camera con il vassoio con sopra la tazza piena d’acqua e dentro la bustina del tè, le rivolge uno sguardo sornione.
“Ti ho detto di spogliarti, non di metterti la sottoveste. Ti voglio nuda”.
Mara muove la testa da sinistra verso destra. Ripete due volte.
Dario le risponde alzando e abbassando la testa. Ripete tre volte.
Lei, di malavoglia, toglie la sottoveste e gli slip e resta nuda.
“Coricati sul letto, cara”.
Mara obbedisce e sente che qualcosa non quadra: il dejà-vu nella tua testa non risponde bene, insomma suo marito fa quello che gli pare.
Lui le sistema il cuscino dietro la testa.
“Adesso, se non ti dispiace, ti bendo gli occhi”.
E Dario non aspetta neanche che Marta accenni un sommesso no, lega sopra il naso una benda di raso nero, quella che lei usa tutte le sere per sollevare i capelli prima di struccarsi.
Mara vede solo nero, adesso, la luce è solo un lieve velo grigio.
E’ nervosa ma la voce di Dario le permette di capire dove lui si trova. Ora si allontana, poi sente la voce vicinissima all’orecchio.
“Rilassati”, le dice lui, accarezzandole il viso.
Poi silenzio.
Un tocco come di cucchiaio che viene appoggiato ad un piatto.
Mara cerca di capire.
All’improvviso, inarca la schiena verso l’alto come se una corrente elettrica la stia percorrendo tutta, dalla punta dei piedi all’ultimo capello.
Sente un calore, fortissimo, in mezzo alle gambe. Liquido che scende sul clitoride, calore che si espande fin sotto le cosce.
Sente la mano di Dario cingerle i fianchi e poi un sollievo farsi strada.
E’ la lingua di Dario adesso, prima lenta e poi veloce.
Poi torna ad inarcare la schiena, adesso la vagina le pulsa dentro la testa.
Lui sta in silenzio, Mara può sentire il suo respiro che si fa sempre più pesante. Lei riesce a dire solo “ancora”.
E lui ricomincia: prima il caldo che si espande e dilata e poi il fresco della sua lingua.
Ripete l’azione in un tempo infinito e Mara non riesce più ad elaborare un pensiero più lungo di un fremito.
Lei cerca la sua testa con la mano, si aggrappa ai suoi capelli, ansima ad ogni cambio di temperatura.
Sorride nel sentire il suo corpo farsi fluido, urla la sua gioia.
Allora Dario ferma la mano e la lingua, le accarezza la pelle che si calma.
E poi torna a muoversi, stavolta è dentro Mara e solo allora le toglie la fascia dagli occhi.
Lei vorrebbe chiedergli dove comincia lui e finisce lei.
Sta zitta.
Si guardano. Si riconoscono. Ricominciano.

Amarsi

Otello ha quasi sessant’anni, fa l’impiegato all’ufficio del Catasto. E’ vedovo da cinque anni e da quando sua moglie Algisa è morta, per un tumore all’utero, non è mai andato a comperarsi da vestire da solo. Prende l’autobus per andare in ufficio tutte le mattine alle 7.30, così ha tutto il tempo di bere un caffè con i colleghi prima di salire.
Alle 13 fa la pausa pranzo con un panino e una coca cola al bar a fianco del palazzo del Catasto. Alle 16.30 esce per tornare a casa, va a prendere l’autobus a due fermate di distanza dall’ufficio, così si impone di camminare.
Ogni giorno Otello passa davanti alla vetrina di un negozio di intimo, uno di quelli delle grandi catene che si trovano anche nei centri commerciali. Sta a pochi passi dalla fermata del bus. Non si ferma mai a guardare, perché a lui l’intimo non serve. Algisa, prima di morire, aveva imparato ad usare il computer, stava sempre a casa da sola, attaccata alla flebo e si annoiava, e così aveva scoperto internet e il commercio elettronico e un giorno, approfittando degli sconti di un negozio online, gli aveva comperato delle mutande e delle canotte grigie, bianche e blu. Solo che nel digitare l’ordine aveva sbagliato qualcosa perché erano arrivate a casa sessanta mutande e sessanta canotte.
Poi le sue condizioni si sono aggravate e nessuno ha pensato più a contestare l’invio di quel carico. E a cinque anni dalla sua morte, Otello aveva ancora l’armadio pieno di slip e magliette di cotone grigio, bianco e blu. A lui non serve molto.
Le camicie che gli aveva comperato la Algisa sono ancora perfette, i vestiti gli vanno benissimo tanto non è ingrassato di un etto. Compera solo le scarpe, due paia l’anno e gli va bene così. Ogni pomeriggio prima di rincasare va all’alimentari vicino a casa e prende o un etto di cotto o un etto di prosciutto crudo, un pochino di verdure cotte già pronte oppure quelle grigliate nella vaschetta dall’alluminio, poi due panini, la bottiglia di minerale. E sta a posto per la cena. Il vino lo prende al bar da Ettore. Un bicchiere di cabernet o due se la giornata è stata particolarmente pesante. Li beve al banco prima di salire in casa.
Sua moglie gli alcolici in casa non li aveva mai voluti, facevano tanto povertà, gli diceva, e allora lui si è abituato e anche adesso che sta solo da cinque anni continua a rispettare quell’imperativo del passato e il vino, che gli piace, lo beve solo al bar, tra un discorso e l’altro con l’amico Ettore.
Poi la sera quando sta sul divano a vedere la televisione, ogni tanto pensa che sarebbe stato bello uscire.

Annalisa a 50 anni si sente ancora una bella donna. Certo ha qualche capello bianco che nasconde, astuta, con la tinta castano miele ogni tre settimane; ha anche qualche chilo di troppo, specie sulla pancia, ma gli uomini di solito si fermano ad osservarle il decolletè ancora rigoglioso, strizzato dentro i reggiseni pieni di pizzi che le piacciono tanto. Che poi a lei non costano praticamente niente, visto che li vende. E’ la padrona di un negozio di intimo sulla strada che dal palazzo del Catasto porta al centro. Ogni giorno si sveglia e tiene il conto delle rughe sotto gli occhi, va a preparare la colazione alla figlia che dorme ancora e poi si beve il suo caffé sul terrazzino, guardando fuori. E si fuma la prima delle sue venti sigarette giornaliere. Ha cominciato a guardare fuori al mattino presto quando Enzo le ha detto che non si potevano più vedere, perché la moglie gli ha dato l’ultimatum.
O a casa o fuori di casa, da solo.
Da dieci anni Annalisa era l’amante di Enzo e lei si era abituata al fatto che non avrebbe mai dormito con lui, perché Enzo la sera dormiva con la moglie. Ma anche in quella situazione precaria
Annalisa era convinta di aver trovato una serenità. L’abitudine di un affetto feriale, possibile dal lunedì al venerdì, weekend e feste comandate escluse. Enzo con lei non aveva mai fatto lo stronzo, non le aveva mai promesso di sposarla. Ma lei un pochino aveva sperato, specie quando arrivava Natale e il 23 dicembre organizzavano sempre una cenetta in casa e lei apparecchiava tutto come se fosse il cenone della vigilia. E quando lui stappava lo spumante, lei per un attimo, ogni volta per dieci anni, ci sperava che lui le dicesse che non tornava a casa e dormiva da lei.
Invece una sera di sei mesi fa lui si è presentato alla porta, con la faccia preoccupata, e senza manco entrare le ha detto, lì, sul pianerottolo, che non si dovevano più vedere perché la moglie non voleva. E Annalisa si è abituata al mattino ad uscire in terrazzo a fumare e a guardare verso il fondo della strada. All’inizio lo faceva per piangere di nascosto, poi per vedere se lui arrivava. Poi non ha più guardato lontano. Adesso fatica anche a vedere chi passa davanti alla vetrina del suo negozio.

Otello e Annalisa si sono guardati negli occhi, attraverso il vetro della vetrina del negozio, una mattina qualunque, di quelle che non ricordi bene che odore c’era nell’aria.
Lui è passato davanti al negozio mentre andava alla fermata e si è fermato lì davanti per tirar fuori dalla borsa i fazzoletti. Lei stava sistemando uno dei manichini, era senza scarpe sopra la pedana e teneva la faccia verso il pavimento per sistemare la base.
Lui si è girato verso la vetrina, senza alcun motivo.
Lei, in quel momento, ha alzato gli occhi.
Si sono guardati.
Sono rimasti lì a fissarsi cinque minuti buoni, anche se non c’è la prova di un cronometro a testimoniarlo.
Lui ha visto Annalisa e ha pensato che occhi così belli ne aveva visti raramente, forse da ragazzino al mare con i suoi sulla spiaggia di Jesolo quando con gli amici giocava a costruire i castelli di sabbia e guardava le ragazzine tedesche, le prime turiste del litorale, con le trecce bionde e il pallone a spicchi gialli, rossi e verdi, sotto il braccio. E c’era una ragazzina che aveva quegli occhi lì. Come si chiamava? Chi si ricorda. Otello ha pensato, poi, che dopo Algisa non ha più toccato una donna.
Lei ha guardato la faccia di Otello e ha pensato che quel signore aveva dei capelli bianchi bellissimi, di un colore che le ricordava la neve, quella che erano anni che non vedeva più, perché
per stare con Enzo aveva anche smesso di andare a sciare. Aveva dimenticato la passione per la neve.

Adesso tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, di pomeriggio, tra le 16.30 e le 17, Otello e Annalisa si guardano e si sorridono attraverso la vetrina del negozio di intimo. Lei non guarda più lontano, la mattina in terrazzo, ma in compenso in negozio alle 16.30 dalla postazione della cassa tiene il viso puntato verso la vetrina per vedere se passa il bel signore con i capelli bianchi.
Lui ogni giorno si inventa una scusa per fermarsi là davanti a cercare lo sguardo di Annalisa in mezzo ai manichini e alle clienti indaffarate. L’unica scusa sarebbe entrare per comperare qualcosa, ma ha sessanta paia di mutande in armadio e non se la sente.
Lei potrebbe uscire a fumare una sigaretta ma ha deciso che deve smettere.
E allora stanno lì a guardarsi. E lui si sente in spiaggia e lei sta sdraiata in mezzo alla neve.

La veglia

E’ qua accanto a me che dorme e russa. Il sibilo che precede le sue apnee sembra il fischio della teiera quando l’acqua comincia a bollire. E io mi sveglio perché se il suo russare ritmico è una sorta di sottofondo al mio sonno, quando iniziano le apnee e io non sento più il suo respiro per 20, 30 secondi, ogni volta credo che muore e mi sveglio. Il fatto è che se muore, io voglio vedere. Esserne certa.

Assieme a Aldo o Mario (non importa) ci sto da dieci anni e anche se è un uomo noioso e insopportabile, tutto avvitato nelle sue fissazioni, senza un accenno di gioiosa voglia di novità, io mi sono abituata al fatto che c’è.
Ma se vuole andare, che vada.

Io venti anni fa mi sono innamorata di Ugo e con lui ho vissuto benissimo fino a dieci anni fa. Ugo si metteva sempre in gioco; trovava sempre un motivo per un sorriso al mattino, appena svegli, e alla sera prima di dormire. Adesso a questo uomo qui, che mi ritrovo nel letto, io sono solo abituata.
Me lo sono ritrovata in casa all’improvviso, non l’ho scelto io.

Certo, lui c’è. Se lo chiamo arriva, con i suoi silenzi rende la casa un pochino meno vuota. Di conseguenza se muore in una delle sue apnee notturne, un pochino mi dispiace. E’ la sensazione che fa il vedere una epigrafe con la foto del morto che è un tizio che hai visto un sacco di volte e ti coglie quell’umano dispiacere per chi ci lascia.
Non escludo che in caso di necessità, sua di Aldo o Mario, se si ritrova una notte a rantolare cercando l’aria, con gli occhi sbarrati per la paura, alla fine, una mano per farla finita in fretta, gliela do volentieri.
Non si lascia nessuno a rantolare o a morire da solo.

Ma non credo che si possano preventivare queste cose; capisci cosa devi fare solo se ti ci trovi. Insomma, è un’ipotesi come tante.
Io sto di notte a vegliarlo Aldo o Mario per vedere se muore trattenendo il fiato ( e lui lo fa ogni due, tre minuti, per 30, 40 secondi) o se la smette e russa e basta. E mi lascia dormire, senza pensieri.

Di sicuro se lui muore non piango tanto quanto ho lacrimato per la morte del mio amore, Ugo, l’uomo che amo e che amerò sempre. Si può amare una persona che non c’è più e non amare una persona che c’è.
Questo è certo. Questo lo so perché è una di quelle cose che si sanno, vivendo.

E’ successo una sera, dieci anni fa, e Ugo lo piango ancora, da sola in bagno, quando carico la lavatrice. L’altro non si accorge di nulla. E’ morto anche Ugo, senza accorgersene, ma io sì, ho visto perfettamente tutto. Eravamo in cucina e stavo sparecchiando, faceva caldo, era estate piena, mi pare luglio, che è un mese appiccicoso, con l’umidità dell’aria che entra in casa, e io stavo sparecchiando la tavola e con la gamba nuda, involontariamente, ho sfiorato il piede di Ugo.

A lui piaceva a tavola, quando eravamo da soli, togliere le ciabatte, accavallare la gamba e tenere il piede sospeso davanti al ventilatore. E quando si giocava, perché io e lui giocavamo sempre, era la lieve carezza del suo piede sulla mia coscia a dirmi che era il momento.
Era sempre stato così, fin dalla prima volta che ci eravamo conosciuti, alla cena aziendale e c’eravamo ritrovati, per caso, seduti in pizzeria uno davanti all’altra e a suon di parlare e raccontare, eravamo arrivati al punto che ci eravamo dimenticati di stare in mezzo ad altre trenta persone e sotto il tavolo, lui sfilò il mocassino e venne con il piede calzato di blu a cercarmi la caviglia.
Era diventato come un segnale tra noi due, quello.

Invece quella sera che io, lo ripeto, involontariamente, lo sfiorai sul piede con la gamba, lui non sentì niente.
Era tutto preso dal raccontarmi che si sentiva senza forze, senza voglia di fare. Come sospeso in una lunga apnea, diceva. Senza emozioni, senza stimoli, senza prospettive e speranze.
Io non ci ho fatto caso subito, che quando uno si sente il disagio dentro non puoi pensare che lo lasci da parte per mettersi a giocare con te. Ma dopo ho capito.

Da quella sera non ha più avuto voglia di giocare con me. Non ha più pensato a ridere e progettare con me.
Sono passati dieci anni e ho perso anche il conto delle volte, che intenzionalmente, che cavoli, ho provato a sfiorarlo sul piede, sul collo, sulla mano, a baciarlo e ad abbracciarlo stretto, per fargli sentire che mi mancava. Niente, Ugo è morto e non ha più occhi.

E questo qua che mi dorme accanto, e che trattiene il fiato ogni notte, ripetutamente come un gioco sadico del vado oppure no, è un estraneo. Lo chiamo Aldo o Mario, perché uno così mica si può chiamare come il mio Ugo.
Ma lui si ostina a dire che si chiama Ugo, invece, e allora io lo assecondo a voce alta, che a vivere con uno in casa e battagliare tutti i giorni perché millanta un nome che non è suo, non è vita. Ma quando lo penso, e capita poco, non lo chiamo proprio o uso un nome diverso, Aldo o Mario, appunto, va bene uguale.

E ho cominciato ad uscire da sola, a camminare la sera per il viale, un passo ogni sera più lontano da casa.
E camminando mi dico che io mica sono morta, che avrei diritto non dico ad uno straordinario di felicità ma almeno al minimo sindacale; sì, dovrei vivere con qualcuno che amo e non con un estraneo che non mi vede. E poi c’è questo fastidio, che monta, rancoroso, che io mica sono solo fatta di cose da fare e da sistemare, ho un corpo io, e un cervello, che hanno bisogno di carezze e baci e strofinamenti e calore.
Ho una pelle che la devi curare e pori da lasciar secernere e saliva da mescolare e giochi da fare. E sogni e risate.
Che sono femmina, anche se in menopausa, ho caldo più dentro che fuori e desideri che sono più di prima, più di quando Ugo c’era.
Lui mi manca.
Mentre questo, Aldo o Mario, non importa, dorme e ogni notte muore un secondo in più.
E io lo veglio, li conto i secondi. Metti che va.

La scatola

L’aveva trovata nella piazza del paese, appoggiata ad una panchina, quella scatolina. Era di legno chiaro, con un coperchio dello stesso colore ma striato da colpi di pennello in varie tonalità. Rosso, giallo, blu.
Non più di cinque centimetri di lunghezza per tre di larghezza.
Stava appoggiata sopra il verde della vernice della panchina ed era impossibile non notarla. Enrico si stupì che nessuno, prima di lui, quella mattina, l’avesse vista e fosse stato preso dalla curiosità di prenderla e vedere cosa c’era dentro. Ad Enrico, che su quella panchina si era seduto mentre aspettava l’autobus per andare al lavoro, la curiosità era venuta.
Con la mano aveva sfiorato la piccola scatola, poi l’aveva stretta dentro al pugno della mano con forza perché nel frattempo era arrivato il bus e ci doveva salire. E l’aveva infilata nella tasca del giubbotto.
Lo aspettavano all’assemblea in fabbrica, che erano sei mesi che alla Baldoni, erano in cassa integrazione e tutti i giorni loro, gli operai dell’altoforno anche se quello era spento e aveva smesso di far così caldo che quando ci entravi ti sentivi sciogliere e svenire, al lavoro ci andavano lo stesso, chi per organizzare le manifestazioni e chiedere udienza al sindaco, chi, come Enrico, perché a casa non aveva niente da fare.
Non aveva una moglie e manco figli, Enrico, che lo aspettavano. Non aveva fidanzate da portare in giro la sera e neanche un cane.
C’era stato un tempo, sei mesi fa, in cui sì, il cane c’era e pure la fidanzata, poi quando era arrivato il delegato sindacale in fabbrica a comunicare che per un anno sarebbe scattata la cassa integrazione e che era meglio se nel frattempo si cercavano tutti altro da fare, in nero, sennò era un casino con il fisco, lui disse alla Carolina, la sua morosa, che le cose erano cambiate, che non si poteva pensare più a niente, da fare, assieme, e le chiese di portarsi via di casa lo spazzolino, le creme, i vestiti e pure il cane, Pallina, che non era neanche suo visto che gli era entrato in casa assieme a Carolina. E di chiudere bene la porta.
Enrico cambiò anche la serratura, soldi ben spesi, disse, che se la vita devia così brusca, e ti lascia in mutande, come fai a pensare a far contenta una morosa e accarezzare un cane, se non sai come sarà non dico il futuro ma la tua faccia tra sei ore, alla fine di un turno che ti imponi da solo, per avere qualcosa da fare?
In assemblea, dentro la sala mensa, che non odorava più di pasticcio con le polpette, stava parlando Ettore, il suo compagno del turno C. Diceva che non bisognava mollare e perdere la speranza, che il sindaco aveva chiesto un incontro al curatore fallimentare e che bisognava continuare la protesta. E tornare ad organizzare un corteo, per far vedere che quelli della Baldoni non mollavano.
Era uno studiato, Ettore, era andato al liceo scientifico e non alla scuola professionale e Enrico stava bene con lui, gli pareva che aveva sempre qualcosa da dirgli. Ma andava bene anche se stava in silenzio, Ettore, che aveva quella faccia sicura, di chi sa come andrà a finire.
Quando Ettore finì di parlare e si sedette accanto a lui, Enrico si ricordò della scatola, la estrasse dalla tasca del giaccone e gliela passò sotto la tavola, appoggiandola al suo ginocchio.
“Cosa è, secondo te”, gli chiese.
“Cosa c’è dentro?”, gli rispose Ettore. Enrico alzò le spalle.
Ettore allora sollevò il coperchio della scatolina, tenendola nel palmo della mano. Dentro c’erano due bamboline di pezza. Piccolissime e pure bruttine, a guardarle bene. Il tronco era di carta arrotolata, di colore rosa, con gli occhi e la bocca appena accennati da un puntino nero; le gonne erano pezzetti di stoffa, uno rosso, l’altro bianco, tenuti legati da una serie di giri di filo rosso e nero. Ai lati due pezzetti minuscoli di legno formavano le braccia.
“Bamboline. Ho sentito parlare di una usanza cilena. Quella di mettere delle bamboline sotto il cuscino così loro prendono i sogni belli e li mettono via e poi un giorno il sogno succede”.
Ettore parlava con la sua solita faccia sicura. “Lì da quelle parti i sogni li considerano cose serie. Dicono che le bamboline li curano e poi anche li passano, di persona in persona”.
Aveva finito. Enrico riprese la scatolina e la mise nel giubbotto della giacca.
Poi si rivolse all’amico: “Io è da quando non faccio più l’amore che non sogno, Ettore”.
“Lo so”, gli rispose l’altro alzandosi dalla sedia per andare al bagno.
“Capita pure a me”.

Passarono i giorni, la scatolina con la bambole era finita nel cassetto del comodino della casa di Enrico. Dimenticata. Del resto c’era altro a cui Enrico doveva pensare: il mutuo della casa da pagare, le bollette riempivano la buca delle lettere. I soldi stavano finendo.
Enrico si alzava la mattina con un pessimo umore, guardava la cassetta all’ingresso e tirava diritto con una rabbia dentro, che ad ogni passo, assumeva la forma di un bolo che gli bloccava il respiro e gli toglieva pure l’appetito. Trascorreva da inutile delle giornate inutili in un posto così inutile come solo una fabbrica ferma sa essere, quando non c’è il cicaleccio del cambio turno, l’allegria della pausa pranzo. Sentiva la mancanza persino dell’assordante calore dell’altoforno. Sguardo perso nel vuoto, si chiedeva dove erano finiti quei colpi assordanti. Era pur sempre ritmo, qualcosa che gli ricordava che nel petto il suo cuore batteva ancora. Viveva in un mondo spento. A 45 anni avrebbe potuto saltellare invece di trascinarsi, incazzato, quel magma incastrato dentro, tra trachea e stomaco.
Silenzioso pure lui.

Ettore lo accompagnò a casa a fine giornata, era preoccupato per l’amico sempre più apatico. Sapeva bene cosa era. La paura di non farcela.
La sentiva anche lui, ma Ettore a differenza di Enrico la scacciava via, appena ne avvertiva l’odore in giro per la testa. Si metteva a sistemare casa, telefonava alle amiche promettendo di passare presto, faceva ordine e buttava le cose vecchie. Pensò che con Enrico poteva funzionare. Buttare le cose vecchie, aprire i cassetti e liberare spazio. Un esercizio manuale che occupava il tempo e offuscava quel pensiero martellante.
La paura è come stare in mare aperto senza un tronco a cui appigliarsi, senza uno scoglio su cui poggiare i piedi, senza manco un filo su cui dondolare. Solo galleggiamento, le gambe che sbattono cercando un ritmo che la stanchezza fa arrancare.
Ettore costrinse Enrico all’esercizio, cominciando dai cassetti del comodino vicino al letto. E togliendo fazzoletti e scatole di preservativi vuoti e forcine della Carolina, chissà dove era finita quella, e biscotti del cane oramai sbriciolati, saltò fuori la scatolina delle bamboline.
Fu Ettore a prenderla in mano, non visto da Enrico, tutto preso dal furore dell’ordine e intento a svuotare e buttare, senza guardare. Tolse il coperchio, prese in mano la bambolina rossa e la infilò sotto il cuscino. In quei momenti tutto poteva tornare utile, pensò.

Enrico andò a dormire, stremato da una serata di pulizie dei cassetti. Aveva lasciato nell’ingresso di casa i sacchi neri con le cose da buttare. Cadde dentro un sonno pesante, come un sacco in un pozzo ma senza tonfo e il bolo accoccolato dentro la trachea dormiva pure lui.
Dopo due minuti, o due ore, mica lo sapeva, aprì gli occhi. C’era una luce accesa, nell’ingresso. Si stupì di non aver spento la lampada alogena, lui che era attentissimo a queste cose. Si alzò a fatica dal letto per andare a spegnere la luce e fu di colpo buio in casa. Pensò di aver immaginato e tornò ad appoggiare la testa sul cuscino e sentì allora una mano accarezzargli la testa. Aveva paura ma sentiva quel calore e il bolo si alzò dalla trachea alla bocca e gli venne la voglia di vomitare. Corse in bagno a piedi nudi, accese la luce dello specchio. E li vide.

Lui abbracciava lei, cingendole i fianchi e fissandola negli occhi. Lei teneva le mani sulle spalle di lui e ricambiava lo sguardo, sorridendo. Avevano entrambi i capelli bianchi, le rughe sul viso, ma le mani dalla pelle olivastra sembravano quelle di due ragazzini. Lui indossava una camicia bianca e pantaloni neri, lei un vestito nero e uno scialle, grandissimo, che tratteneva con i gomiti. Rosso e lungo fino ai piedi di lei. C’era silenzio e Enrico che li fissava attraverso lo specchio prima pensava ad una allucinazione, poi voleva chiedere chi fossero, ma non gli usciva voce, che il bolo si era bloccato in bocca. I due lo guardarono, ricambiando il suo sguardo, e cominciarono a ballare. Due passi a sinistra, uno in avanti, due a destra. Era come se fosse un solo movimento, il loro. Nel silenzio del bagno, ad Enrico sembrò di sentirla nella testa la musica che stavano ballando, era un valzer sommesso. E poi gli parve anche di sentirli parlare, ma non c’erano bocche che si muovevano, c’erano solo quei due vecchi ballerini dalle mani giovani. Che gli parlavano con il pensiero. Enrico si accoccolò sulla tazza del water per ascoltarli meglio, quei due amanti che avevano passato una vita a cercarsi nei sogni, che non avevano mai avuto il coraggio di dirselo che si volevano, ed erano finiti a morire a migliaia di chilometri di distanza uno dall’altra da soli, poveri e senza figli. E adesso quei sogni che avevano lasciato tra la stoffa delle bamboline, li avevano fatti ritrovare e ogni notte ballavano assieme, finalmente. E se Ettore li vedeva era grazie alla bambolina che lo aveva accarezzato nel sonno. L’anziano gli disse che la paura era proprio quel mare senza appigli. La sua donna gli disse che la paura è quel magma in bocca che fatichi anche a respirare. E loro, assieme, gli dissero che se c’era silenzio l’unico modo per non sentirsi soli era cercarsi un ritmo dentro, sul tempo del cuore. Che quello è un rumore che non è mai uguale ad un altro.
E in coro, mentre ondeggiavano sulle note di valzer, i due gli dicevano che non sarebbe passata la paura, no, ma almeno non sarebbe diventata terrore.
I sogni non si abbandonano mai, li si lascia alle bamboline che li faranno passare da una vita all’altra. Per scacciarlo, il terrore.

Fu un discorso silenzioso, con quel valzer di sottofondo. Enrico si risvegliò a mezzogiorno che ancora lo sentiva risuonare nelle orecchie. Aveva dormito sul tappetino del bagno, la riga dell’orlo del tappeto si era come stampata sulla guancia sinistra.

Andò a preparare il caffè, poi corse in camera da letto e aprì il cassetto. La scatolina di legno era lì. Alzò il cuscino, prese la bambolina dal vestito rosso e ricambiò la carezza. Poi la infilò nella scatolina, accanto all’altra. Oramai sapeva cosa doveva fare. Il prossimo sogno l’avrebbe regalato a loro. Per battere il terrore.