Nella terra del pessimismo i desideri finirono tutti nella discarica, ai margini della città. Non c’era più tempo di desiderare, di creare, di pensare a soluzioni possibili e diverse. Il comitato nazionale di difesa della patria, prima aveva chiuso i confini, poi per tutelarsi dalla recessione, il comitato aveva deciso di mettere al bando i desideri e di concentrare tutte le attenzioni della nazione su un sano concetto di pessimismo.
Poteva solo peggiorare, erano i mercati e le borse a dirlo e la politica lanciava messaggi precisi.
“Pensa a lavorare, che altro non hai”.
“La patria, prima della famiglia ”.
“Il lavoro nobilita se ce l’hai”.
E così in ogni comune le aziende municipalizzate avevano aperto speciali sportelli per la raccolta dei desideri della gente, che si mise in fila, senza manco un dubbio, perché tanto il pessimismo toglieva anche la capacità di chiedersi se quello che stavano facendo era giusto oppure no.
Arrivavano tutti con il loro sacchetto dell’immondizia nero, pieno di desideri da buttare. Fogli di carta con appunti, lettere, libri, quadri, piccole invenzioni in attesa di un realizzatore, cuoricini di stoffa, fotografie di uomini e donne o di paesaggi irraggiungibili.
Dove volevi andare se non c’erano soldi neanche per uscire di casa?
Tutti in fila con il sacchetto nero, sotto il braccio, per consegnarlo all’addetto della municipalizzata incaricato della raccolta. In cambio ricevettero tutti un foglio con numero di matricola , con sù scritto nome e cognome, indirizzo, professione e tipologia del rifiuto buttato.
Una prova, in caso di controllo da parte dei vigili, che erano cittadini per bene, che avevano partecipato alle iniziative del comitato nazionale di difesa della patria, in nome del pessimismo.
Avevano anche creato una trasmissione televisiva, per dare slancio al fervore del conferimento, per mostrare la brava gente che si liberava dei desideri, e ogni ricevuta poteva essere estratta per vincere un anno di spesa in una grande lotteria finale.
Tutti i sacchi raccolti finivano nel camion e venivano portati alla discarica, una per ogni città. A Venezia la discarica l’avevano posizionata a Marghera nei terreni di una vecchia fabbrica, troppo inquinati per essere bonificati e consentire nuove costruzioni.
Ai bordi della laguna, la grande discarica di sacchi neri in poche settimane prese forma. Un grande cumulo di plastiche nere che al sole cominciavano a perdere colore e pure a rompersi, facendo uscire il contenuto.
Per primi arrivarono i gabbiani, abituati come erano a cercare cibo in mezzo alle immondizie.
Ma in quei sacchetti non c’era cibo; solo carte, stoffe, fogli, foto che al sole si schiarivano, dentro i sacchetti rotti dai becchi avidi.
Poi arrivarono i topi che la carta l’hanno sempre amata ma solo come assaggio senza mai distruggerla completamente. E si misero a mangiucchiare i bordi per assaggiarne la consistenza, e attraverso l’assaggio qualcuno pensò che il desiderio passava passava ma non gli credette nessuno visto che i topi erano notoriamente produttivi sul piano della fertilità e allora non si fece caso alla anomala proliferazione di sorci in tutta la grande nazione depressa.
E dopo i topi, arrivarono i rom che avevano sentito parlare della discarica dei desideri buttati via, per volere nazionale, e visto che loro con il ferro oramai non ci facevano più soldi, che le fabbriche erano state chiuse e il rame lo portavano via gli slavi, ben organizzati, con i camion e le armi, e partivano in carovane per rivenderlo all’estero, e arrivavano sempre per primi, loro, gli zingari, pensarono che potevano far soldi coi desideri recuperati, spolverati, sistemati, e rivenduti.
E dopo i rom arrivarono gli africani che di desideri non avevano mai smesso di vivere, anche se erano oramai le terze generazioni, nate tutte in questo paese malandato. Loro, la cittadinanza non l’avevano ancora avuta perché nessun partito li aveva sostenuti non sapendo con certezza per chi avrebbero votato.
Per ogni figlio di stranieri nato nella nazione ci volevano minimo venti anni di attesa, anche se eri nato dentro i confini e bisognava sostenere un esame così difficile che se andavi alla Bocconi a chiedere di diventare professore senza laurea sicuramente facevi prima.
Loro gli africani all’andazzo si erano abituati, pativano il freddo tanto quanto i tristi, così chiamavano gli italiani di pelle bianca.
Ma loro, i neri, come li chiamavano i tristi, avevano dentro sempre la fame.
Il governo con un decreto, anni prima, decise che gli africani dovevano vivere tutti in periferia, a metà strada tra la campagna in cui avevano confinato i palazzi dei rom, costretti dentro case di mattoni, tutte anonime che li avevano depressi perché a loro serviva il cielo come tetto e nessuno lo poteva sopportare quel grigio e le città dei tristi, tutte illuminate e coi negozi vuoti.
La discarica a Venezia stava proprio tra le case depresse degli zingari e quelle affamate degli africani.
Da qualche tempo, senza che nessuno se ne accorgesse, rom e africani avevano cominciato a parlarsi, e si dicevano che era difficile per loro stare in città così silenziose come quelle che erano diventate in quel paese della paura. E siccome c’era solo un canale televisivo, quello del comitato nazionale, e solo da lì si avevano le informazioni e non facevano che parlare della crisi mondiale e dei delinquenti rom o africani che commettevano reati, in città nessuno più parlava o dava lavoro o si sedeva tranquillo vicino ad un africano o ad una donna con la gonnellona colorata, anche se questi erano indaffarati a studiare sui libri per sostenere l’esame che non passava nessuno.
Anche a Venezia non si parlava, ci si guardava di sottecchi, si passava oltre facendo finta di niente se loro, gli stranieri, avevano bisogno di aiuto. Per reazione al silenzio, rom e africani, invece, avevano superato la diffidenza, avevano cominciato ad aiutarsi e visto che il lavoro per loro mancava si erano messi a darsi una mano. E da lì, dai dialoghi, era venuto fuori che la discarica era una opportunità. Sì.
Recuperare, pulire e rivendere desideri al mercato nero.
Recuperavano e rivendevano sogni, desideri, progetti, speranze.
Organizzavano anche aste clandestine dove giravano ogni giorno le poche migliaia di euro in contanti rimasti ai tristi.
Non si usarono cellulari e computer, facilmente rintracciabili dai servizi di controllo che vietavano il recupero di quello che era stato buttato.
Rom e africani tornarono al passato, al passaparola, sussurrato di bocca in bocca nei bar della città.
E si trovarono presto, col passare dei mesi, una fila di clienti vogliosi di riavere se non il loro desiderio almeno quello di un altro, purché sia un sogno, un qualcosa a cui pensare nei momenti duri come una opportunità, una soluzione, una via di fuga.
Quelli che avevano fatto la fila per volere del governo si ritrovarono tutti a farne un’altra, stavolta nella periferia scura, per ricomprarsi sogni buttati e da nascondere sotto il materasso al posto dei soldi che erano finiti. Rom e africani divennero così i veri padroni della città e la discarica cominciò a svuotarsi, lentamente. Da loro tutti i tristi finirono con il passare.
Quando il governo scoprì l’inganno e organizzò la repressione, decidendo che sarebbero state bruciate tutte le immondizie delle discariche in giro per il paese, i rom e gli africani chiusero le aste, fecero sparire dai retrobottega dei bar i loro punti vendita e si chiusero nelle case tra campagna e periferia.
Una mattina mentre gli elicotteri lanciavano le bombe sopra le discariche, a Venezia si formò una lunga fila di persone che lasciarono la città e marciarono verso la periferia e poi verso la campagna e poi andarono diritti verso la colonna di fumo della discarica.
Erano i tristi che camminavano, con trolley e valigie e zaini, con le macchine piene di materassi verso la discarica. Erano migliaia, erano silenziosi. Uomini e donne e bambini in marcia, chi in bicicletta, chi in moto. Quando passarono davanti alle case degli africani e poi davanti ai condomini dei rom, loro, gli stranieri, urlarono dalle finestre verso quella gente, li invitarono a fermarsi e tornare indietro, che là in fondo era tutto fumo e tiravano le bombe e c’era un sacco di fuoco.
Ma loro, i tristi, andarono avanti fino ai cancelli roventi della discarica, riuscirono ad aprirli, e si misero a camminare tra topi e gabbiani, in mezzo alla terra incandescente.
Avevano tutti fame.
Di loro non parlò nessuno.