Archivi Tag: la veglia

La veglia

E’ qua accanto a me che dorme e russa. Il sibilo che precede le sue apnee sembra il fischio della teiera quando l’acqua comincia a bollire. E io mi sveglio perché se il suo russare ritmico è una sorta di sottofondo al mio sonno, quando iniziano le apnee e io non sento più il suo respiro per 20, 30 secondi, ogni volta credo che muore e mi sveglio. Il fatto è che se muore, io voglio vedere. Esserne certa.

Assieme a Aldo o Mario (non importa) ci sto da dieci anni e anche se è un uomo noioso e insopportabile, tutto avvitato nelle sue fissazioni, senza un accenno di gioiosa voglia di novità, io mi sono abituata al fatto che c’è.
Ma se vuole andare, che vada.

Io venti anni fa mi sono innamorata di Ugo e con lui ho vissuto benissimo fino a dieci anni fa. Ugo si metteva sempre in gioco; trovava sempre un motivo per un sorriso al mattino, appena svegli, e alla sera prima di dormire. Adesso a questo uomo qui, che mi ritrovo nel letto, io sono solo abituata.
Me lo sono ritrovata in casa all’improvviso, non l’ho scelto io.

Certo, lui c’è. Se lo chiamo arriva, con i suoi silenzi rende la casa un pochino meno vuota. Di conseguenza se muore in una delle sue apnee notturne, un pochino mi dispiace. E’ la sensazione che fa il vedere una epigrafe con la foto del morto che è un tizio che hai visto un sacco di volte e ti coglie quell’umano dispiacere per chi ci lascia.
Non escludo che in caso di necessità, sua di Aldo o Mario, se si ritrova una notte a rantolare cercando l’aria, con gli occhi sbarrati per la paura, alla fine, una mano per farla finita in fretta, gliela do volentieri.
Non si lascia nessuno a rantolare o a morire da solo.

Ma non credo che si possano preventivare queste cose; capisci cosa devi fare solo se ti ci trovi. Insomma, è un’ipotesi come tante.
Io sto di notte a vegliarlo Aldo o Mario per vedere se muore trattenendo il fiato ( e lui lo fa ogni due, tre minuti, per 30, 40 secondi) o se la smette e russa e basta. E mi lascia dormire, senza pensieri.

Di sicuro se lui muore non piango tanto quanto ho lacrimato per la morte del mio amore, Ugo, l’uomo che amo e che amerò sempre. Si può amare una persona che non c’è più e non amare una persona che c’è.
Questo è certo. Questo lo so perché è una di quelle cose che si sanno, vivendo.

E’ successo una sera, dieci anni fa, e Ugo lo piango ancora, da sola in bagno, quando carico la lavatrice. L’altro non si accorge di nulla. E’ morto anche Ugo, senza accorgersene, ma io sì, ho visto perfettamente tutto. Eravamo in cucina e stavo sparecchiando, faceva caldo, era estate piena, mi pare luglio, che è un mese appiccicoso, con l’umidità dell’aria che entra in casa, e io stavo sparecchiando la tavola e con la gamba nuda, involontariamente, ho sfiorato il piede di Ugo.

A lui piaceva a tavola, quando eravamo da soli, togliere le ciabatte, accavallare la gamba e tenere il piede sospeso davanti al ventilatore. E quando si giocava, perché io e lui giocavamo sempre, era la lieve carezza del suo piede sulla mia coscia a dirmi che era il momento.
Era sempre stato così, fin dalla prima volta che ci eravamo conosciuti, alla cena aziendale e c’eravamo ritrovati, per caso, seduti in pizzeria uno davanti all’altra e a suon di parlare e raccontare, eravamo arrivati al punto che ci eravamo dimenticati di stare in mezzo ad altre trenta persone e sotto il tavolo, lui sfilò il mocassino e venne con il piede calzato di blu a cercarmi la caviglia.
Era diventato come un segnale tra noi due, quello.

Invece quella sera che io, lo ripeto, involontariamente, lo sfiorai sul piede con la gamba, lui non sentì niente.
Era tutto preso dal raccontarmi che si sentiva senza forze, senza voglia di fare. Come sospeso in una lunga apnea, diceva. Senza emozioni, senza stimoli, senza prospettive e speranze.
Io non ci ho fatto caso subito, che quando uno si sente il disagio dentro non puoi pensare che lo lasci da parte per mettersi a giocare con te. Ma dopo ho capito.

Da quella sera non ha più avuto voglia di giocare con me. Non ha più pensato a ridere e progettare con me.
Sono passati dieci anni e ho perso anche il conto delle volte, che intenzionalmente, che cavoli, ho provato a sfiorarlo sul piede, sul collo, sulla mano, a baciarlo e ad abbracciarlo stretto, per fargli sentire che mi mancava. Niente, Ugo è morto e non ha più occhi.

E questo qua che mi dorme accanto, e che trattiene il fiato ogni notte, ripetutamente come un gioco sadico del vado oppure no, è un estraneo. Lo chiamo Aldo o Mario, perché uno così mica si può chiamare come il mio Ugo.
Ma lui si ostina a dire che si chiama Ugo, invece, e allora io lo assecondo a voce alta, che a vivere con uno in casa e battagliare tutti i giorni perché millanta un nome che non è suo, non è vita. Ma quando lo penso, e capita poco, non lo chiamo proprio o uso un nome diverso, Aldo o Mario, appunto, va bene uguale.

E ho cominciato ad uscire da sola, a camminare la sera per il viale, un passo ogni sera più lontano da casa.
E camminando mi dico che io mica sono morta, che avrei diritto non dico ad uno straordinario di felicità ma almeno al minimo sindacale; sì, dovrei vivere con qualcuno che amo e non con un estraneo che non mi vede. E poi c’è questo fastidio, che monta, rancoroso, che io mica sono solo fatta di cose da fare e da sistemare, ho un corpo io, e un cervello, che hanno bisogno di carezze e baci e strofinamenti e calore.
Ho una pelle che la devi curare e pori da lasciar secernere e saliva da mescolare e giochi da fare. E sogni e risate.
Che sono femmina, anche se in menopausa, ho caldo più dentro che fuori e desideri che sono più di prima, più di quando Ugo c’era.
Lui mi manca.
Mentre questo, Aldo o Mario, non importa, dorme e ogni notte muore un secondo in più.
E io lo veglio, li conto i secondi. Metti che va.