Archivio Mensile: Maggio 2009

Senti

Senti, facciamo un gioco? E’ facile e indolore, anzi è utile, toglie via tutto, specialmente i ricordi. Facciamo che io e te non ci siamo mai visti? Eh, che ci vediamo adesso per la prima volta e tu non sai che faccia ho io e io non posso ricordarmi di te, perché mai ti ho visto prima? Lo facciamo? E’ bello, dai. Tu passi di qua, io passo di là e siccome non ci siamo mai visti prima, non ci vediamo e non ci riconosciamo e di conseguenza passiamo diritti, ognuno per la sua strada, ognuno con la propria andatura, e non c’è un tentennare, manco un inciampo, un cacchio chi mi ricorda? 

Si passa diritti, ognuno per la sua strada, io di qua e tu di là, se preferisci cambiar marciapiede, ti lascio pure la preferenza.

Basta tener lo sguardo diritto, passarsi accanto e non riconoscere manco più l’odore e il calore altrui. Se è tanto, eccessivo, sforzato, facciamo che ci sorridiamo, che è comunque gentile in questo mondo maleducato.

Pensaci, due estranei che passan, uno di là e l’altro di qua, e che si guardano senza riconoscersi ma comunque si sorridono,  è un gesto delicato. Che presuppone che la vita a entrambi ci aggrada così come è , al punto che a un estraneo gli sorridi, mica cammini rasente i muri, per paura che ti sbudelli alla prima occhiata.

Il nostro sia gioco lieve, come il nascondino. Non ci vediamo, ci passiamo accanto come in un passo di Fandango, ci sorridiamo se vuoi, che fa fino e socialmente corretto,  ma non ci fermiamo e manco ci sfioriamo perché non ci riconosciamo. E quindi, ballare e sfiorare e gioire, che é?   E’ inutile.

 I tratti li abbiamo persi, il cervello si resetta prima o poi, senti a me.

Allo straniero lascia il passo.

Lo facciamo, il gioco?  E’ facile, basta dimenticare. Scordare che ogni volta che ci vedevamo ci fermavamo, come cani da punta, ad annusarci per riconoscerci. E finivamo a star vicini vicini, perché il calor mio era il calor tuo, e mi parlavi per ore e ti parlavo per ore. E le mie labbra ti piacevan, perché eran vermiglie anche senza rossetto. E calde, anche se mangiavo ghiaccio.

E se è per quelle labbra che oggi non mi sopporti e mi eviti ma poi quando mi incroci, non mi annusi più, anzi ti scansi come se emanassi fetore e mi dici con gli occhi infastiditi dal sole, che io non sono umana, che sono solo cagna in calore, che ho la perfidia alta e l’ematocrito di conseguenza ne risente, non sarebbe  più giusto, più adulto, se la giustezza non la capisci, camminar uno di qua e uno di là di questo maledetto marciapiede lercio, e giocare a non conoscerci e riconoscerci?

Sarebbe più adulto, sì, perché oggi tu sei vecchio e io sono vecchia, e sono passati decenni. Io farò 70 anni domani, tu ne hai fatti 75 l’altro ieri. Abitiamo da sempre uno di fronte all’altra, ci vediamo tutti i giorni. Ci odiamo da una vita. Non è giunto il momento per te di giocare a non vederci?  Che con tutte queste rughe, chi si ricorda più quando tu hai scritto “Ti amo” su quell’albero? Che oggi manco c’è più, ucciso dal cancro dei platani?  E domani, stanotte, potremmo non esserci più neanche noi?

Non ti pare sia ora?

Me lo compri?

Me lo compri un faro?

Piccolo, in una isola senza nulla attorno, solo lo spazio per correre come in un pazzo girotondo, davanti al mare.

Con una sdraio e un dondolo familiare, con la coperta pronta all’uso, per aspettarti, quando farai tardi.

Me lo compri un faro?

Con una luce gialla che fenda la nebbia, forte come un raggio di sole, calda come il letto che hai appena lasciato.

Piccolo, in una isola senza nulla attorno, solo lo spazio per correre come in un pazzo girotondo, davanti al mare.

Ah, cosa?  Non me lo compri? 

Tu stai a Malibù? Su una spiaggia grande come un campo da calcio e fa così caldo che la coperta manco sai che è?

E la nebbia, ce l’avete la nebbia lì? No, peccato.

Beh certo, e poi tu fai sempre  tardi di tuo, giusto.

 Scusa, ma chi cavolo sei, tu?

Ugo? Scusa, ho sbagliato numero.

Peter

L’ho incontrato in una vallata vicino a Caqui, nel Nordest argentino, durante il mio secondo viaggio nel paese dove si può ancora vedere l’infinito. Avrei voluto portarlo con me ma era senza passaporto e mi era impossibile, convincerlo a lasciare quelle terre.
Ammetto che ancora oggi non riesco a pensare a lui senza sentirmi all’improvviso triste. Perchè Peter in poco più di due ore ha saputo darmi più di tanti altri.
L’ho conosciuto davanti ad una casa, mentre cercavamo le indicazioni per raggiungere alcune interessanti pitture rupestri. E’ apparso dietro ad una bambina uscita da una casa ad un piano tra le piante con un porticato sconnesso, e che era corsa a vedere se ci eravamo persi.
Lei ci parlava, placida e sorridente; lui è spuntato alle sue spalle. Lo sguardo sereno, l’occhio furbo. Si è avvicinato a noi, e si è piazzato di fronte a me in attesa.
“Se volete vedere le pitture rupestri, vi porta Peter”, ci ha detto la ragazzina.
Neanche ho fatto in tempo a chiedere quanto ci sarebbe costato il disturbo.
Lui mi ha guardato, si è girato ed ha cominciato a camminare davanti a noi verso la montagna. Il sentiero passava in mezzo ai rovi, con un percorso tra le pietre su cui si camminava in modo sconnesso. Ma Peter sapeva il fatto suo, anche senza bisogno di cartelli intuiva in che punto si doveva girare a destra rispetto al cespuglio di cafajate o piante dai rami spinosi. Lui non parlava e noi in reverenziale silenzio lo seguivamo lungo la salita in fila indiana. Era lui il nostro capo.
Ogni tanto spariva veloce alla nostra vista. Ma niente paura ; ce lo ritrovavamo davanti all’improvviso, sorridente. Come se la fatica del cammino neanche lo sfiorasse. Oramai eravamo ad un passo dalle rocce, salivamo sfiorandole attenti a non mettere un piede in fallo. All’improvviso davanti ad un costone di roccia Peter si è fermato, come impietrito. Fissava la parete,estasiato, e quello sguardo ci ha spinto a vedere nella direzione in cui voleva lui che guardassimo.
All’inizio non capivamo, pensavamo alla presenza di qualche animale nascosto tra le rocce. Poi lo stupore si è impossessato di noi: le avevamo individuate, stavamo guardando le pitture rupestri. Segni lasciati dagli uomini migliaia di anni fa.
Mi sono seduta su una roccia che sporgeva dal terreno, per guardare meglio e anche riposarmi.
Peter, silenzioso, mi si è seduto vicino. Senza dirci niente, siamo rimasti mezz’ora a fissare la parete, guardando i colori, le forme di quelle tracce antichissime: una scena di caccia , cacciatori dipinti di rosso mattone ed un animale , forse un cervo o un lama, in corsa inseguito dall’uomo che lo voleva uccidere.
Colori che si erano fusi con i toni della roccia.
Io guardavo, ma sentivo accanto a me il calore della presenza di Peter. Per lui, parlava il respiro, cadenzato come un mantra.
Non so perchè l’ho fatto, ma l”ho abbracciato e lui non si è scostato, anzi si è fatto più vicino a me. Abbracciandolo potevo sentire distintamente il rumore del suo respiro e poi il battito del cuore. Rilassato, sereno. Mi sono sentita allora un tutt’uno con quelle terre selvagge e sterminate. Avevo ritrovato davanti ad una roccia il senso dell’infinito che cercavo attraversando le Ande.
Non mi sarei più staccata da quell’abbraccio gentile che mi aveva riempito l’animo di pace, di quiete.
Ma Peter, forse imbarazzato da tanta improvvisa intimità con una sconosciuta, all’improvviso si è rialzato e si è allontanato da me. Riprendendo il cammino verso la casa della sua amica, ogni tanto si voltava a vedere se lo seguivamo.
Voleva essere sicuro che non ci trovassimo in difficoltà durante la discesa. E così è stato, tutto è andato per il meglio e la sua piccola amica era ad attenderci, sorridente, per sincerarsi che la gita fosse riuscita per il meglio.
I saluti sono stati una formalità, come spesso accade tra persone che parlano lingue diverse. Con Peter non sono servite parole, invece. Il suo sguardo fiero e attento indicava che aveva capito quello che mi era successo, che mi ero sentita parte del suo mondo. E gli bastava. Se ne è andato dopo avermi sorriso e baciato la mano sinistra.
Dopo anni ripenso a lui con affetto e tristezza.
Non era bello, non sarebbe mai stato mio.
Ma era un cane e solo lui poteva insegnarmi il piacere della pace interiore.

L'uomo nero

L’uomo nero non lo riconosci finché non ci hai a che fare e ti accorgi che la sua ombra è meno nera del suo sorriso. 

Se sei bambina, l’uomo nero è quello dei sogni, che ha l’ombra lunghissima e le dita lunghe lunghe, che sembrano artigli affilati, e la giugulare te la squarcia con una carezza.

Poi se hai la fortuna di crescere serena, pensi che l’uomo nero non esiste.

 

Marino sembrava l’uomo nero dei sogni, si disse Enza quando lo vide entrare in casa e trattenne il respiro, per la paura. 

Enza aveva undici anni, e vedendo quell’uomo entrare dalla porta di casa , tornò bambina, quando nel letto sognava artigli nel buio e si pisciava addosso, per la paura.

Marino di anni ne aveva sessanta. 

Era alto e magro come un grissino, i pantaloni erano di due taglie più grandi e il maglione era così vecchio che sui gomiti era bucato. In un’altra vita quella maglia doveva era stata color arancio ma a suon di indossarla, mattina e sera, era diventata grigia. Come l’asfalto della strada.

Enza  si accorse di lui dall’ombra che il corpo del visitatore inatteso lasciò sul pavimento di piastrelle dell’ingresso. E sentì il bisogno di correre in bagno. 

Ma suo padre non avrebbe gradito: non si lascia solo un ospite appena varca la porta di casa.

Marino  entrò  in cucina  e si sedette silenzioso e impacciato al tavolo, apparecchiato di tutto punto per il pranzo. 

Enza non riusciva a staccare gli occhi dalle sue mani. I due mignoli avevano un’unghia lunghissima e nera. 

Enza, si disse, che così doveva esser l’unghia dell’uomo nero. 

 

Dove è papà.

 

Marino tentò di sorriderle, ma svelò solo  una bocca per metà senza denti ma con quei canini lunghi e appuntiti e Enza sentì l’angoscia, giù in fondo. Le mani grinzose e piegate dall’artrite sembravano moncherini da cui spuntava quell’artiglio del mignolo. 

Enza non smetteva di fissarne i movimenti, mentre versava la minestra nel piatto dell’ospite sconosciuto. 

Marino si era rifatto serio, fissava la bottiglia di vino davanti a sé e Enza intuì dove lo sguardo andava, lei non lo mollava un secondo e gli fissava occhi e mani, nel timore che partisse uno schiaffo improvviso che le tranciasse in due il collo.

Prese le bottiglia e versò da bere nel bicchiere dell’uomo.

Fu allora che Marino notò il tremolio pauroso del polso di Enza e proferì un “grazie”, così profondo che la ragazzina fece un balzo in alto, con la bottiglia in mano.

“Non sono cattivo, lo sono solo se bevo troppo. Oggi andrà bene”. 

Marino parlava mentre Enza si chinava, tremante, a raccogliere le macchie di vino dal pavimento, aiutandosi con un tovagliolo di carta.

Marino versò il vino del bicchiere dentro la minestra; Enza tentava di respirare.

 

Papà vieni, ti prego.

 

Suo padre era fuori, al cancello di casa, intento a parlare con un signore. Era nonno Bepi, il vicino di casa rimasto invalido per colpa di un ictus. 

La ragazzina fissò la finestra, guardando la figura di spalle di suo padre. E poi girò l’occhio verso l’uomo e vide il piatto con la minestra improvvisamente rossa, pareva sangue diluito, e si disse che era quella la sua ora. E sentì forte l’impulso di correre in bagno. 

Invece corse fuori,  in giardino, lasciando Marino da solo con la sua minestra di vino, con la mano grinzosa che reggeva a fatica il cucchiaio. 

Enza raggiunse suo padre al cancello e respirando forte, si aggrappò al suo braccio, che era sempre stato il suo angolo di pace. 

E stringeva quel braccio come una liana che la avrebbe portata lontano dall’uomo nero che beveva sangue. E la vescica , rallentando il respiro, piano piano, si chetava mentre suo padre le accarezzava i capelli.

 “Enza, hai lasciato solo Marino? Ascoltami, lui non ha nessuno, vive per strada e suo fratello ora è in ospedale. Ti ho sempre detto di essere gentile con gli ospiti, specie con chi se la passa peggio di noi”. 

Enza scese dalla liana.

“Lo so ma mi fa paura, papà”.

“E’ un barbone, Enza, ma è buono. Non farebbe del male a nessuno. Facciamo così, tu porta a casa nonno Bepi e io faccio compagnia a Marino. Va bene?”. 

 Tutto pur di evitare di vedere quel piatto sanguigno e quel mignolo affilato.

E così Enza prese sotto braccio nonno Bepi dal passo strisciante e si incamminò nella stradina a lato di casa. Cento metri li dividevano dalla casa del vecchio che, camminando lentamente, si appoggiava a lei con tutto il corpo tanto che Enza poteva sentirne il peso. Arrivati davanti alla casa in fondo alla stradina, Enza mise la mano nella tasca destra della giacca di Bepi e prese le chiavi. Tutti sapevano che stavano lì. 

Poi aprì il cancello e la porta. 

 

Chissà di che parla papà con quell’uomo.

 

Con la porta aperta, nel corridoio entrò un potente raggio di sole e l’ombra del Bepi si stagliò corta alle spalle di Enza. La casa puzzava di antibiotici e urina, un odore fastidioso. Enza si girò, pronta ad uscire. 

Il suo compito l’aveva assolto, non aveva voglia di tornare a casa ma pensava di fermarsi a far due tiri a canestro nel piazzale sul retro.

Ma nonno Bepi non si spostò dall’ingresso, la fissava senza parlare e con la mano tremolante le fece cenno di avvicinarsi.

Vicina, più vicina, bambina, fino a che l’orecchio di Enza sfiorò la bocca di Bepi, che non parlò ma fece qualcosa. Sorrise mostrando una bocca tutta nera come la pece. E la mano tremante ora era ferma e stringeva, attraverso la maglietta, il capezzolo destro del seno di Enza con tocco deciso e la mano sinistra si infilò dentro i suoi pantaloni della tuta, dentro le mutandine. Enza guardava quella bocca nera , oltre i denti finti,  e si chiedeva cosa c’era lì in fondo. Annusò l’alito fetente che usciva da quel buco nero e si sentì persa. Il dito di nonno Bepi cercava strada e Enza sentì furiosa la paura e il bisogno di fare pipì. Quando sentì male, pensò che un uncino l’avesse afferrata dentro la pancia, e si ricordò delle mani dell’uomo nero dei sogni.

Enza cacciò un urlo. Che subito dopo si spense.

Dietro a nonno Bepi si stagliava la figura di Marino con l’artiglio posato sulla spalla del vecchio a pochi millimetri dal naso di Enza. 

Lei si sentì persa di nuovo , cacciò un secondo urlo e chiuse gli occhi, tremando. Il resto lo disse l’umido che le scendeva tra le gambe.

Non vide nulla dopo  ma sentì, netto,  il rumore di uno schiaffo e di qualcosa che cadeva a terra e una stretta forte che la trascinava via.

 

Papà, dove sei?

 

La stradina era illuminata dal sole.

Marino ora le accarezzava i capelli e la teneva stretta al suo braccio. Enza vide l’ombra lunga dell’uomo sull’asfalto. Poi si girò: nonno Bepi tremante era sulla soglia della porta di casa, a terra, a quattro zampe intento a cercare la dentiera che gli era volata via. Sulla guancia un lungo striscio rosso. 

Il vecchio la fissò e lei vide il nero pece dentro quella bocca e strinse inconsciamente l’artiglio di Marino che le era accanto.

“Non ti farà più male”, lui le disse.

E Enza scordò i pantaloni bagnati. 

“Sai giocare a basket? Li facciamo due tiri assieme?”


Petti e pettini

Non è facile, lo so. Non è come nello spogliatoio, dopo la partitella a pallone, quando tutti si spogliano, e c’è all’improvviso, questa democrazia del corpo, a renderci tutti uguali: chi con un petto villoso, chi con un petto assolutamente liscio e morbido, chi con il muscolo che guizza, chi con la maniglia che fa da salvagente.

Se fossimo sempre nello spogliatoio, l’imbarazzo non sarebbe di casa. Saremmo tutti sudati e sporchi, dopo la sgambettata collettiva. E le differenze si appiattiscono nella democrazia della coda per la doccia, e semmai ogni difetto diventa occasione per una risata goliardica.

Ma siamo qui io e te, amici da una vita al punto che manco ci ricordiamo più da quanti anni lo siamo, e  mentre io ti parlo degli affari miei mi tolgo la maglietta per cambiarmi…

No aspetta, qualcosa non va: cosa è quello sguardo.

Fisso, bruciante. E non è che siamo qua a pettinar gli istrici e a metterci i bigodini a quarant’anni.

Tu mi guardi ma non vedi più l’amico asessuato.

Altrimenti il tuo occhio perché dovrebbe fondermi lentamente il petto?

E  con la bocca all’improvviso impastata mi parli , fissandomi.

E allora io, stupita, mi rendo conto che  è roba da un millesimo di secondo, ti concedo l’attenuante, ma si vede che mi guardi come si guarda il filetto appena cotto alla brace, quando hai fame.

E l’imbarazzo potrebbe avere il sopravvento. E io che non pettinavo le bambole ma le facevo far l’amore con Ken, povero omino plastico, mi asciugo col tuo sguardo e penso a cosa fare.

Che non lo so, io , che quando mi mordi il collo, per ridere, a me piace? Mi è sempre piaciuto. 

Ma davanti ai petti e senza pettini, l’imbarazzo va superato in fretta, perché  ora e domani potremmo non riconoscerci più. Serve un piccolo miracolo, magari la dimostrazione che a volte la forza di gravità non vale per tutti gli alberi o tutte le mele. Chiamala provocazione, chiamalo divagare, ma dovresti ringraziarmi. Perché con un sorriso ti ho spento lo sguardo, ho trasformato l’imbarazzo in stupore, e il tuo cervello ha smesso di interrogarsi sul sapore del mio collo, ma si è concentrato sulle stranezze della scienza.

Senza perder ore a pettinarci.

L'anello nero

Se tocco l’anellino di plastica nera, che mi hai regalato, mi ricordo dei nostri minuti lenti.

Che importa se ti è costato meno di un euro. 

L’avevi comperato in una bancarella e sorridendo me l’hai infilato al dito con un gesto da cavaliere gentile. Con la stessa gentilezza che si usa quando si regala un diamante, prezioso. 

Eravamo a passeggio in centro, e mi avevi offerto il braccio per tenermi diritta, e io mi ci sono attaccata, al tuo braccio, certa che il passo non l’avrei perso. Un appiglio sicuro dopo una serata troppo allegra. Ci eravamo conosciuti quel giorno e avevamo troppa voglia di godercela la gioia della conoscenza per non darci all’allegria.

Da perfetto cavaliere gentile mi hai donato quella fedina nera e di plastica e io mi sono sentita bene e quando mi hai sfiorato i capelli, togliendo il ricciolo che mi si era posato impertinente sulle labbra e mi hai sorriso, io mi sono sentita pure bella. 

Nella mia testa all’improvviso io ballavo come Ginger Rogers, e tu eri il mio Fred, mi tenevi per non cadere durante le nostre piroette lungo la strada. E così , con quei passi di danza accennati dentro la testa, siamo andati verso l’albergo.

“Ti accompagno di sopra”, mi hai detto. 

E io ho annuito, perché il tuo braccio non potevo lasciarlo come in barca non si lascia mai il remo. Ne avevo bisogno per non piegare a sinistra, tu te ne eri accorto e mi canzonavi, dicevi che dovevo portar i piedi a rifar la convergenza, e ridevamo e ad ogni passo sui gradini mi spingevi, lievemente, con la mano sinistra che sfiorava la mia schiena, poco sopra la cintura dei jeans. 

Un tocco lieve ma era la certezza che tu eri lì, mio cavaliere gentile, a rendermi leggera. E visto che la chiave non riuscivo ad infilarla nella toppa, tu, che mi canzonavi ancora per l’andatura sbilenca, hai aperto la porta della camera e mi hai spinto dentro, con gentile decisione. 

Poi io mi sono gettata sul letto e tu mi hai detto “ ti spoglio io” e ti ho lasciato fare che non sapevo far da sola. 

Hai cominciato dalle scarpe, poi sei salito fino ai miei pantaloni, poi via anche la maglietta. Poi sei rimasto a guardarmi, avevo il completo color cipria, i seni ribelli che uscivano dal reggiseno e sorridendo ti sei chinato per sistemarlo, e allora io che ancora ridevo, ti ho preso la testa fra le mani, accarezzandoti i riccioli, e fissandoti negli occhi. 

E dentro quegli occhi blu son finita a vedere il mare, quello ventoso delle sei di mattina d’estate, quando in spiaggia non ci trovi nessuno, solo qualche cane randagio a passeggio. Forse hai capito che io ti vedevo dentro il mare e tu, cavaliere gentile, mi hai abbracciato. E mentre lo facevi, io sentivo la mia pelle scaldarsi al tuo abbraccio e non ho reagito, non ti ho spinto indietro, sono rimasta invece a godermi il tuo calore. 

Io pensavo al mare, eri caldo come una coperta da indossare per andar fino a riva a godersi il rumore delle onde e del vento e a te andava bene esser coperta, e ti sei allungato sul letto fino a coprirmi sfiorandomi la schiena con le tue belle dita, slacciando i gancetti del reggiseno, sfiorandomi la pelle libera, senza fretta. 

Poi sei sceso con la mano e mi hai stretto tra le cosce e io ho cominciato a sentire ancor più caldo e non avevi voglia di smettere come io non avevo alcuna intenzione di non sentire questo calore e allora mi è venuto in mente un falò sulla spiaggia di sera, di quelli dove spunta sempre una chitarra e una bottiglia di vino. Davanti al falò si partecipa. E ho cominciato anche io ad accarezzarti, a spogliarti,  a sfiorarti le spalle, poi man mano che ti liberavo dai vestiti, a baciarti e stuzzicarti l’ombelico, a sfiorarti tra le cosce. 

Poi ti sei girato, mio cavaliere, e dopo poco è apparso lui, tra di noi, e ci giocavamo e a te piaceva e pure a me piaceva, eravamo caldi e anche lui è diventato caldo ed era un terzo, ma mica incomodo; no, era partecipe come un complice sa esserlo ed io collaboravo perché era come correre la mattina presto sulla spiaggia, tutti sudati ma felici perché poi arriva il momento del gelato come quando eravamo bambini. E noi bambini, voraci e golosi, lo eravamo per davvero e poco ci interessava che ci fosse quello, tra noi; era parte del gioco come i gelati sulla spiaggia. Non so, secondo me è durato ore, poi ci siamo addormentati, abbracciati e sudati e lui era sempre lì, tra noi, ma noi eravamo abbracciati e lui era solo. 

Al  mattino, è stato la prima cosa che ho visto quando ho aperto gli occhi.

Era nero e di plastica. Proprio come l’anellino che mi avevi regalato, Cecilia.