L’ho incontrato in una vallata vicino a Caqui, nel Nordest argentino, durante il mio secondo viaggio nel paese dove si può ancora vedere l’infinito. Avrei voluto portarlo con me ma era senza passaporto e mi era impossibile, convincerlo a lasciare quelle terre.
Ammetto che ancora oggi non riesco a pensare a lui senza sentirmi all’improvviso triste. Perchè Peter in poco più di due ore ha saputo darmi più di tanti altri.
L’ho conosciuto davanti ad una casa, mentre cercavamo le indicazioni per raggiungere alcune interessanti pitture rupestri. E’ apparso dietro ad una bambina uscita da una casa ad un piano tra le piante con un porticato sconnesso, e che era corsa a vedere se ci eravamo persi.
Lei ci parlava, placida e sorridente; lui è spuntato alle sue spalle. Lo sguardo sereno, l’occhio furbo. Si è avvicinato a noi, e si è piazzato di fronte a me in attesa.
“Se volete vedere le pitture rupestri, vi porta Peter”, ci ha detto la ragazzina.
Neanche ho fatto in tempo a chiedere quanto ci sarebbe costato il disturbo.
Lui mi ha guardato, si è girato ed ha cominciato a camminare davanti a noi verso la montagna. Il sentiero passava in mezzo ai rovi, con un percorso tra le pietre su cui si camminava in modo sconnesso. Ma Peter sapeva il fatto suo, anche senza bisogno di cartelli intuiva in che punto si doveva girare a destra rispetto al cespuglio di cafajate o piante dai rami spinosi. Lui non parlava e noi in reverenziale silenzio lo seguivamo lungo la salita in fila indiana. Era lui il nostro capo.
Ogni tanto spariva veloce alla nostra vista. Ma niente paura ; ce lo ritrovavamo davanti all’improvviso, sorridente. Come se la fatica del cammino neanche lo sfiorasse. Oramai eravamo ad un passo dalle rocce, salivamo sfiorandole attenti a non mettere un piede in fallo. All’improvviso davanti ad un costone di roccia Peter si è fermato, come impietrito. Fissava la parete,estasiato, e quello sguardo ci ha spinto a vedere nella direzione in cui voleva lui che guardassimo.
All’inizio non capivamo, pensavamo alla presenza di qualche animale nascosto tra le rocce. Poi lo stupore si è impossessato di noi: le avevamo individuate, stavamo guardando le pitture rupestri. Segni lasciati dagli uomini migliaia di anni fa.
Mi sono seduta su una roccia che sporgeva dal terreno, per guardare meglio e anche riposarmi.
Peter, silenzioso, mi si è seduto vicino. Senza dirci niente, siamo rimasti mezz’ora a fissare la parete, guardando i colori, le forme di quelle tracce antichissime: una scena di caccia , cacciatori dipinti di rosso mattone ed un animale , forse un cervo o un lama, in corsa inseguito dall’uomo che lo voleva uccidere.
Colori che si erano fusi con i toni della roccia.
Io guardavo, ma sentivo accanto a me il calore della presenza di Peter. Per lui, parlava il respiro, cadenzato come un mantra.
Non so perchè l’ho fatto, ma l”ho abbracciato e lui non si è scostato, anzi si è fatto più vicino a me. Abbracciandolo potevo sentire distintamente il rumore del suo respiro e poi il battito del cuore. Rilassato, sereno. Mi sono sentita allora un tutt’uno con quelle terre selvagge e sterminate. Avevo ritrovato davanti ad una roccia il senso dell’infinito che cercavo attraversando le Ande.
Non mi sarei più staccata da quell’abbraccio gentile che mi aveva riempito l’animo di pace, di quiete.
Ma Peter, forse imbarazzato da tanta improvvisa intimità con una sconosciuta, all’improvviso si è rialzato e si è allontanato da me. Riprendendo il cammino verso la casa della sua amica, ogni tanto si voltava a vedere se lo seguivamo.
Voleva essere sicuro che non ci trovassimo in difficoltà durante la discesa. E così è stato, tutto è andato per il meglio e la sua piccola amica era ad attenderci, sorridente, per sincerarsi che la gita fosse riuscita per il meglio.
I saluti sono stati una formalità, come spesso accade tra persone che parlano lingue diverse. Con Peter non sono servite parole, invece. Il suo sguardo fiero e attento indicava che aveva capito quello che mi era successo, che mi ero sentita parte del suo mondo. E gli bastava. Se ne è andato dopo avermi sorriso e baciato la mano sinistra.
Dopo anni ripenso a lui con affetto e tristezza.
Non era bello, non sarebbe mai stato mio.
Ma era un cane e solo lui poteva insegnarmi il piacere della pace interiore.
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Peter
Il coltello non sbaglia mai
Il coltello è ancora nella mia mano. Lo fisso, l’acciaio brilla alla luce dell’abat-jour. Virate di colore giallo sole sull’argento della lama. Sono tranquilla, respiro lentamente ma non mollo la presa. Potresti ancora muoverti ma a te davvero, non penso adesso. Non sei così importante come credi. No, adesso mi gusto io il respiro ritrovato.
Prendo un lembo delle lenzuola. Sono rosse e sorrido. Così la macchia di sangue, sulla punta del coltello sparirà tra le mie lenzuola assieme allo sporco che tu ci hai lasciato, penso, aprendo le labbra e bagnandomele con la punta della lingua.
Adesso potranno respirare anche loro. Svolazzare, senza pesi. Come me.
I miei polmoni si muovono lentamente, senza fretta. Li posso addirittura sentire mentre filtrano l’aria.
Pulisco la lama, ripongo il coltello nel cassetto e mi alzo. Sono nuda e sento un po’ di freddo, anche in mezzo alle gambe. Scosto la tua gamba per afferrare il mio kimono e mi copro. Lentamente. Ma toccandoti, tu molli un rantolo sommesso e impercettibile. E’ bello vederti così, mansueto e inoffensivo. Ma non serve dirti nulla. Ti basti il mio sorriso, io me ne vado in cucina.
Devo bere, ho sete. Apro la porta e la luce mi ricorda quella dell’abat-jour, calda e confortante. C’è del prosecco in frigo, ottimo per festeggiare. E serve anche una sigaretta. Sì, devo festeggiare e tu stavolta non sei l’ospite d’onore.
Di solito fumavamo assieme prima di fare l’amore. Ma era all’inizio della nostra storia ; quando mi corteggiavi, mi seguivi fin davanti alla porta del negozio per parlarmi e fingevi di incontrarmi per caso per stare il più possibile con me.
Poi quando ti ho aperto le porte della mia casa, con il passare del tempo, tu hai cominciato a fumare da solo.
Lo facevi mentre io piangevo in un angolo del letto. Stremata, dolorante.
Non ti sei mai preoccupato di venire a vedere come stavo, ti fumavi la tua sigaretta in cucina e poi dopo un bel po’ entravi, ti vestivi ed uscivi. Senza dire nulla.
Il giorno dopo, eri un altro uomo. Il re della gentilezza, il tipico principe azzurro della porta accanto . Come se gli ematomi che mi lasciavi addosso fossero il frutto della mia fantasia e non della tua realtà. Fiori in negozio, bigliettini d’amore e sms sdolcinati.
Ti mettevi d’impegno e riuscivi a farmi dimenticare lo schifo dei tuoi schiaffi, dei tuoi insulti. Della tua assurda gelosia. Non so come facevi. Forse era quella faccia da bambino che ha commesso una marachella a farmi pensare che alla fine un tuo schiaffo forse aveva una vera motivazione, il tuo timore di perdermi. La mia incapacità di non rinunciare agli amici per vivere solo con te. Senza nessuno che infastidisse il nostro idillio, il nostro amore.
Sono arrivata a pensare, alla fine, che fosse colpa mia, che la tua reazione fosse la conseguenza di una mia colpa, di un mio comportamento sbagliato.
Adesso fumo io, mi rilasso io mentre tu sei di là a frignare.
La situazione si è capovolta, e la cosa è divertente . Sono io a farti piangere.
Sento la tua voce che mi implora ma non ti ascolto, sono concentrata sui miei pensieri. Sono come te, pacifica dopo la punizione. Sul muro c’è la tua foto appesa: le ondate di nicotina ti coprono il viso come un velo oscuro.
Perché non ho voluto vedere subito che era quella la tua vera faccia, che i tuoi schiaffi non sono mai stati motivati. Che l’irruenza con cui mi costringevi a darti piacere non era un gioco condiviso ma solo un comando.
L’ho capito solo ora, dopo che la mia rabbia ha avuto il sopravvento, all’improvviso, costringendomi a vomitare fuori tutto lo schifo che ho seppellito dentro di me.
Come un antidoto, il coltello mi ha difeso stavolta dal tuo veleno. Lui non ha sbagliato. L’avevo nascosto nel cassetto del comodino senza neanche rendermene conto, prima che tu suonassi al campanello di casa mia. Volevi fare pace. Ti ho fatto salire, abbiamo parlato un pochino ma eri stanco e siamo andati a sdraiarci sul letto.
Eri stanco di chiedermi scusa, stavolta volevi startene con me senza alzar le mani. Volevi che ti curassi, che ti coccolassi. Chissà perché, forse in ufficio le cose ti erano andate male. E io ho accettato il comando. Ti ho tolto la maglia, ho accarezzato lentamente la schiena, ti ho fatto stendere a pancia in giù.
Se penso al dopo, mi vien da ridere: non me ne frega assolutamente niente di quel che accadrà ora o domani. E neanche mi scompongo quando sento i tuoi passi alle mie spalle. Sento che prendi il telefono e piangendo chiami qualcuno. Chiedi che facciano in fretta, stai male. Temi di morire.
Non mi interessa niente, è questa la verità. E’ questo ora che mi da piacere e non voglio neanche perdermi un centimetro di questa percezione. Sento il mio corpo che vive, sento il dolore dell’ematoma sul braccio, ma anche il caldo della mia mano che accarezza, sfiorandola lentamente, la gamba.
Sto bene. Quando massaggiandoti la schiena ti ho visto finalmente innocuo, dolorante, assolutamente passivo , lui mi ha chiamato. La mia mano, senza neanche attendersi un comando, si è diretta verso il cassetto, verso il coltello.
Tra quel movimento e quello successivo, il colpo netto della lama dentro la tua schiena, quanto sarà passato? Un paio di secondi al massimo. Il tempo di spostare il braccio, inarcare la schiena, colpire.
Bastava così poco per ottenere la quiete?
L'ultimo incontro
“Avevamo deciso di concederci una ultima cena, prima di lasciarci”. Francesca si girò verso Luca, fissandolo negli occhi e sorridendogli.
Lui fissava la sua maglietta nera, scollata.
“Certo, che hai ancora le tette più belle che abbia mai visto”.
Lei sorrise, erano mesi che non pensava a lui senza un mugugno, una smorfia di dolore.
Francesca si ritrovò stupita a sorridere a colui che le aveva regalato una felicità assoluta per dieci anni ma nel contempo gli aveva mandato in pappa il cervello, con la sua eterna incertezza nei sentimenti.
Si mise a ridere, pensando che poteva provocarlo senza più star male.
Luca sghignazzava, era contento di aver ritrovato per un attimo l’intesa che per lunghissimo tempo era stata la miccia della loro attrazione. Aveva temuto una reazione negativa di Francesca, nonostante fosse stata proprio lei a ricordare che si erano promessi di lasciarsi nel migliore dei modi, facendo l’amore, senza pensieri. E poi non si sarebbero più visti.
A tranquillizzarlo fu la mano di Francesca che senza pensarci, ridendo, finì con il posarsi sul suo interno coscia, accarezzandolo. Lui sapeva perfettamente che quello era stato in passato uno dei loro modi di dirsi ti voglio, senza parole.
Da quando si erano lasciati era passato oramai un anno. Si erano lasciati male, tradendo la promessa.
Un sms di Luca aveva allontanato bruscamente Francesca , la sua amante da dieci anni. “ Non ce la faccio più”, le aveva scritto una mattina.
Erano bastate cinque parole per distruggere tutto.
In quel modo aveva allontanato da sé la donna che amava davvero, ma non così tanto da stravolgere la sua vita, lasciare la casa in cui vive ancora e la compagna che lo aveva accolto dopo la prima separazione come un fuggitivo, regalandogli la tranquillità agognata.
Luca sapeva di aver usato le parole perfette, la chiave giusta per uscire da quel dolore che oramai lo rodeva dentro.
Francesca gli aveva sempre detto di non tollerare di esser di disturbo, un peso nella sua vita. E così accadde: lei all’inizio gli scaricò addosso quintali di fiele avvelenato, poi non lo cercò più. A parte qualche sms di circostanza per sapere come andavano le cose, una volta uno, una volta l’altra. Ma niente incontri, niente sorrisi, niente colloqui.
Un anno dopo si ritrovavano al bancone di un pub, con due spritz davanti ed una strana serenità tra loro. Lui si stupì di rivederla bella, dimagrita, truccata, ben vestita. Lei si stupì che non fosse cambiato, salve qualche capello grigio in più.
Il discorso era finito presto sulla loro storia.
Lei gli aveva appena raccontato della storiella finita male con un ragazzo spagnolo. Che l’aveva conosciuta, cercata, desiderata, e che le aveva detto:” Ti sposo”.
Per Francesca non era una promessa importante, ma era una novità. Fece bene però a non fidarsi troppo, perché nel giro di un paio di mesi capì che la proposta non veniva dal cuore ma da un momento di afasia provocato dalla cocaina, la sua unica vera amante, di cui Rafael, così si chiamava l’intruso, non faceva a meno quando era a Madrid.
Francesca , incuriosita da una richiesta di un prestito di 300 euro, come suo stile aveva indagato scoprendo l’amante chimica.
E così dopo due mesi di amore a distanza, Francesca era di nuovo sola.
Ma stava bene. E Luca non sapeva che la sua ex amante aveva, in quell’anno di separazione , non solo aveva frequentato un altro , ma aveva reimparato ad amarsi. Si voleva bene, Francesca. Dopo che si era annullata per cercare di far funzionare un rapporto impossibile, che avrebbe regalato felicità solo se non ci fossero state di mezzo una moglie, vacanze separate, amplessi non seguiti dalla serenità della successiva quiete fino al mattino seguente.
Luca non sapeva che ogni volta che diceva a Francesca che preferiva la tranquillità di un rapporto di coppia non esaltante, allo sconvolgimento di una vita di gioia vera con lei, le procurava un livello di ansia che ne stravolgeva, da dentro, pensieri, emozioni ed obiettivi. Non sapeva che ogni volta che la guardava e lodava la sua indipendenza, la sua intelligenza, lei in realtà voleva solo stare con lui su un divano a farsi massaggiare i piedi, accarezzare le sue cosce rocciose, sentire il suo pene insinuarsi dentro di lei e vibrare al suo stesso ritmo.
E che l’intelligenza, l’indipendenza, l’impegno, lo humour alla fine erano diventati un niente se lui non la voleva.
Anche Luca quell’anno aveva sofferto. Il suo ego bruciava al pensiero che Francesca potesse anche solo aver pensato, come aveva fatto, che lui avesse trovato una nuova amante. E soprattutto lei gli mancava, a volte nel sonno aveva pronunciato il suo nome. Ne era convinto, ma sua moglie non si era mai accorta di nulla. Lei pensava andasse tutto bene e non sentiva neanche bisogno di dirgli qualche volta un “ ti amo”, tanto lui era di sua proprietà. E comunque mai aveva detto nulla.
Quella di Francesca era stata in realtà una provocazione, il pensare all’amante in seconda, ma Luca non lo sapeva. E aveva sofferto al pensiero di non poter più toccare quel corpo che gli piaceva tanto, quei seni che adorava morsicare in continuazione. La amava, a modo suo, certo. Ma era stato incapace di dimostrarlo al cento per cento e soprattutto era stato incapace di scegliere. Ed odiava che Francesca pensasse di esser vittima di un tradimento.
Tra loro due, c’era una differenza sostanziale. Lei voleva vivere, lui si accontentava di sopravvivere. Luca era andato avanti con quella storia, clandestina, finché la sensazione di distruggere la persona che gli dava felicità, ogni giorno, non lo aveva costretto all’ultimo, giusto, atto della sua incapacità di agire.
Tirarsi indietro, scappare via. Rinunciare. Così lei si sarebbe cercata altrove una vera felicità.
Francesca per una settimana tentò di resistergli. Gli mandava sms adirati, poi a casa si ingozzava, lontano da occhi indiscreti di cioccolatini, maledicendo l’amore della vita finito male. La mattina dopo gli mandava ancora sms pieni di veleno e cattiverie.
Poi all’improvviso Francesca si spense, come una candela che un colpo di vento rende inattiva. E non si fece più sentire.
Accadde tutto una sera; dopo aver fatto fuori un sacchetto di patatine, due bistecche di maiale, un contorno di avocado e pomodori, e per finire una vaschetta di gelato, Francesca andò davanti allo specchio.
E si vide: ingrassata, la pelle grigia, senza trucco, con una ruga che le solcava la fronte e le trasformava il volto in una maschera triste. Si riconobbe. Ed ebbe paura. Di sé e del suo dolore. Si sentì svenire, il petto le faceva male, sentiva il battito del cuore in accelerazione percuoterle il collo.
Era in preda al suo primo solitario attacco di panico.
Le lacrime cominciarono a scendere come un torrente in piena, allagandole faccia, petto e gambe. Rimase fino al mattino in un angolo della cucina, con le gambe al petto, la speranza che la disperazione passasse in fretta e le tornasse il respiro. Francesca capì che avrebbe finito con l’invecchiare lì, in quell’angolo della cucina, odiando sé stessa per non esser stata capace di farsi scegliere dall’unica persona a cui voleva appartenere.
Dopo una notte insonne, la mattina seguente decise di lavorare per ritrovarsi. Non fu facile, le servì tanto aiuto, ma un anno dopo e dopo la parentesi di un calesse amoroso ( l’avventura con Rafael), si era ritrovata. Non più sicura, ma serena nel vivere la sua condizione di quarantenne single non come una costrizione alla solitudine.
Luca notò il cambiamento e pensò dentro di sé, che ricominciare con lei era quello che voleva. Del resto ci aveva pensato tante volte.
Francesca lo intuì al volo, e dentro di sé, se la rideva. Lo aveva provocato ricordandogli quella promessa che si erano fatti a letto, dopo aver pianto abbracciati dopo un orgasmo tanto forte da provocare ad entrambi una tremarella corporea durata quasi un’ora. Amanti tarantolati, si definirono.
Lui la voleva ora, lì sul seggiolino del pub. Lei si era eccitata toccandogli la coscia granitica, ma era terrorizzata dal solo pensiero di ricascarci, alla fine.
Non dissero altro, raggiunsero l’auto di lei parcheggiata fuori dal pub.
Lei si appoggiò alla portiera, lui le sbarrò la strada piazzandosi davanti a lei, accerchiandola con le braccia.
“ Facciamolo subito, saltiamo anche la cena”. Lei rimase in silenzio, spostò il braccio di lui che le impediva di aprire la portiera dell’auto ed entrò. Lo guardò e gli fece cenno di salire.
Restarono cinque minuti buoni a fissarsi, in silenzio. Sorridendosi a vicenda. Lei gli accarezzava l’interno del ginocchio, lui sfiorava con il palmo della mano il suo seno destro, il suo preferito.
Si volevano, era chiaro. Ancora.
Si guardavano. Lui vide nei suoi occhi il guizzo frizzante che aveva conosciuto dieci anni fa in un bar.
Lei, lo sguardo accattivante che l’aveva conquistata in un attimo davanti ad un caffè.
Avvicinarono i volti come la calamita al ferro per il primo bacio post separazione.
Le labbra si sfiorarono, lievemente. Le bocche avevano sete uno dell’altra.
Poi il cellulare di Luca squillò, un improvviso rumore ad interrompere la quiete.
“Rispondi”, gli disse Francesca.
“Non voglio”, replicò Luca.
Il telefonino trillava e vibrava, fastidioso. Imperterrito, deciso a non smettere.
Alla fine Luca rispose. E Francesca sapeva perfettamente chi era.
“Devo andare, mi aspetta per cena”, gli disse dopo aver riattaccato.
“Sì, Lei ti aspetta, vai”.
“Starei qui se potessi, ma devo andare. Cerca di capirmi, devo sopravvivere”.
“ Sì, lo so. E devo dirti che va bene così: possiamo dare per rispettata la nostra promessa”, ribattè Francesca.
“No, voglio rivederti. Dobbiamo andare a cena”, si infervorò lui.
“Questa è l’ultima volta che ci vediamo _ attaccò Francesca _ ci desideriamo, certo, ma sarà una cosa breve. Finiremo con il farci male da soli, oltre che a vicenda. E io non mi farò mai più male per te. Se capita che ci rivediamo, ci sorridiamo e passiamo oltre. Va bene?”
Il tono di lei era così duro e deciso che Luca rimase senza parole e non potè dire altro se non un sommesso ” Va bene”. Non scherzava.
Luca le baciò la guancia e scese dall’auto. “ A modo mio ti ho sempre amata”.
“Anche io, ma non ho potuto dimostrarlo”, ribattè lei.
La portiera che sbatte, il silenzio, il profumo di Luca ancora nell’aria.
Francesca prese dalla borsa una sigaretta e la accese, la prima tirata fu lunga ed avida, il respiro successivo lento e rilassato. Quel buon odore stava sparendo in fretta, per fortuna.
Poi prese in mano il cellulare e compose un messaggio.
“Sta tornando a casa. Non mi rivedrà, stanne certa. E ora dimentica pure tu il mio numero di cellulare. E soprattutto il mio nome”.
Il marchio
Elena si mise davanti allo specchio. Il suo sguardo riflesso, stanco, dopo la notte insonne, le lanciò un timido sorriso. Lei non risposte neanche con un cenno, gli occhi arrossati e lucidi, la mente annebbiata dopo una notte di vino e rum. Si sedette sulla tazza del water e si accorse solo allora del silenzio che invadeva la casa. Non c’era nessuno con lei a smaltire il post-sbornia. Era quello il momento più difficile, il mattino dopo.
Lui se n’era andato, lo faceva sempre. Non era una novità, ma Elena si sentiva infastidita: la mattina, dopo ogni sua partenza, sentiva la sua assenza. E un leggero nervosismo le saliva dentro, dall’interno cosce fino al petto.
Bastava dirlo.
Ma non riusciva a dire. Una parola sola poteva bastare, pensò. Resta.
Niente, non la sapeva dire quella parola, non le usciva dalla bocca. La pronunciava solo dentro di se quando lui oramai era lontano. A vivere la sua vita.
Poco male, si disse Elena , per scacciare quel pensiero fastidioso. Faccio quello che voglio, conduco io la mia vita, decido io per me. E comando. Ho un lavoro importante, una carriera in ascesa. Cosa mi serve un compagno? Se lo ripeteva anche stavolta, seduta sulla tazza del water.
Amore? No tra loro era solo sesso.
Lui non chiedeva di più e a lei andava bene. Nessun coinvolgimento emotivo, solo divertimento.
Elena si lasciava andare, si divertiva. Lui non doveva costringerla, doveva solo sussurrarle all’orecchio e sorridere, come faceva ogni volta che la voleva. E lei, docile, si trasformava in quel che di giorno non era mai. Remissiva.
Elena si alzò e si diresse di nuovo verso lo specchio. Stavolta si accorse subito del segno, un morso netto sotto il seno. Il solco lasciato dai denti di lui le avevano arrossato la pelle. Si potevano anche contarli i denti che avevano lasciato quel marchio.
Come il morso di un lupo. Elena si concesse un sorriso, mentre ammirava quella meraviglia, la sfiorava. Poteva ancora sentire la forza di quella bocca. E ricordava:lui l’aveva attirata a se e aveva stretto il seno tra le labbra come se volesse mangiarla.
E lei , adesso, allo specchio si diceva che avrebbe voluto volentieri esser finita a brandelli dentro il suo stomaco, a farsi sciogliere dai suoi succhi gastrici, diventando nutrimento per lui.
Assaggiata, addentata, masticata, ingoiata.
Un bel modo per sparire.
Svanire dentro chi ti desidera, per stare sempre con lui.
Anche Elena, pensò tra se, non era stata da meno; anche lei gli aveva addentato il braccio, con foga. Non aveva urlato. E Elena ricordando, si congratulò con se stessa. Stava imparando, lui sarebbe stato orgoglioso di lei. Era stata brava. Si lasciava andare, senza temere. Si lasciava godere senza tirarsi indietro.
La sveglia si mise a suonare. Erano le nove. Elena si scosse di colpo, si guardò attorno. Rischiava di far tardi, di non arrivare in ufficio in tempo. Si vestì velocemente mentre il caffè borbottava dentro la moka sul fuoco. Si sistemò i capelli, indossò la giacca. Si sfiorò lievemente il seno, con il piacere di esser l’unica a sapere che sotto la giacca, la camicia, il reggiseno c’era il suo segreto.
Il dolore al minimo tocco ritornava alla mente, come un piacere silenzioso. Penetrante come una fitta.
Arrivata in ufficio, Elena sistemò la borsa nell’armadietto, girò attorno alla scrivania, controllò con il dito che la scrivania fosse pulita. Al solito non andava bene. Elena aprì un cassetto, tirò fuori una salvietta e dell’alcool e pulì di nuovo il piano di lavoro. Doveva esser perfettamente pulita la sua scrivania, lo diceva ogni volta a quella imbecille della donna delle pulizie.
Imprecando, si tolse la giacca, inforcò gli occhiali e si mise a leggere il giornale.
Poi venne distratta da un paio di colpetti alla porta. Un grugnito acido di Elena era il segnale per entrare. Lo sapevano tutti in ufficio.
Paolo, il suo segretario, entrò tenendo tra le mani il vassoio. Sopra una tazza di caffè fumante e due bustine di zucchero di canna. Lei gli lanciò un sorriso tirato, lui replicò con un buongiorno bofonchiato alla meno peggio.
Paolo sistemò il vassoio e si fermò davanti ad Elena, in attesa delle indicazioni della giornata.
Ma Elena, sollevato il viso dal giornale, restò stupefatta.
Paolo la guardava e sorrideva, con quella smorfia del viso che mai aveva aveva osato mostrare in ufficio, nel regno di Elena. Mai si era permesso di guardarla così fuori dal letto.
La stava evidentemente sfidando.
Ma in ufficio non si poteva giocare, questo Paolo non poteva dimenticarlo.
La mano di Elena istintivamente andò a sfiorare il seno. Il morso sotto la camicetta pulsava, le faceva male come se l’attacco fosse appena avvenuto.
Paolo sollevò la manica della camicia e si strofinò il braccio.
Poi tolse la mano, facendo in modo che Elena vedesse. Un morso, netto, con i segni dei denti sulla pelle arrossata.
Il suo morso.
Elena sorrise. Ora avevano un marchio, un legame tutto loro.
Ballata in balla degli amori in potenza
La strada è piena di amori potenziali, di sguardi lanciati salendo le scale di un palazzo, di spalle che si sfiorano dentro un ascensore, di parole farfugliate davanti allo schermo di un pc. Gli amori potenziali li puoi vedere solo se non hai il cuore inaridito. Sono belli ma fragili come foglie in autunno. Sono due amici a passeggio nella calle che conversano e non vorrebbero smetter mai. Sono due vecchi che ballano il liscio e sentono il ritmo che pulsa come un antidoto alla solitudine. Sono due ragazzini su una panchina con i libri sulle ginocchia e le prima sigaretta, nascosta nello zaino, da fumare assieme. Sono due uomini in discoteca che si sfiorano e si vogliono perché si immaginano mentre si muovono. Sono una coppia stanca che torna a camminare alla stessa andatura solo per sfiorarsi le mani. La strada è piena di amori potenziali, di parole farfugliate davanti allo schermo di un pc, di spalle che si sfiorano in un ascensore, di sguardi lanciati salendo le scale di un palazzo. Li puoi vedere solo se smetti di correre. Sono belli ma fragili come un cerchio nell’acqua. Sono gli occhi chiusi di una donna che ricorda ogni solco della tua pelle. Sono le mani nascoste nel cappotto di un uomo che sa quanto potrebbe esser forte la stretta. Sono i denti della ragazza delusa che si morde le labbra per non dirti quel che si lascerebbe fare. Sono i capelli ribelli del dirigente che torna a casa e ogni sera desidera fermarsi a quel marciapiede. La strada è piena di amori potenziali di parole farfugliate davanti allo schermo di un pc, di spalle che si sfiorano in un ascensore, di sguardi lanciati salendo le scale di un palazzo. Li puoi vedere solo se non pensi che siano inutili. Sono belli ma fragili come una supernova. Sono gli occhi dell’adolescente che cercano conforto nell’insegnante. Sono le mani bagnate della barista che vorrebbe una bocca che le asciugasse. Sono i fianchi del commesso che sfoglia l’ennesima rivista senza leggerla. La strada è piena di amori potenziali, di sguardi lanciati salendo le scale di un palazzo, di spalle che si sfiorando dentro un ascensore, di parole farfugliate davanti allo schermo di un pc. Gli amori potenziali li puoi vedere solo se non hai la pelle muta. Sono i tuoi e i miei ricordi. Sono le menti che non hai voluto assaporare. La strada è piena di amori potenziali, di sguardi lanciati salendo le scale di un palazzo, di spalle che si sfiorando dentro un ascensore, di parole farfugliate davanti allo schermo di un pc. Gli amori potenziali li puoi vedere solo se ci credi. Sono la nostra voglia di vita.
L'autobus della linea 7
Quando l’ho notata per la prima volta in mezzo alla calca di gente, sull’autobus della linea 7, è stato solo un istante. E da allora è dentro di me. Continuo a cercarla. Salgo sul bus ogni giorno a Mestre, destinazione Venezia, porte dei Tre archi. Tutti i giorni, domenica compresa. Per me c’è sempre lavoro, non si va mai in ferie.
Di solito per passare il tempo, provo ad immaginarmi chi siano i miei compagni di viaggio. Cerco di indovinare che lavoro fanno, se hanno figli o mogli o mariti che li aspettano. Se il collega che fissano di continuo è il loro amante o un odiato rivale verso la promozione. Lo facevo anche da piccolo, quando mia madre stava tutto il giorno al lavoro, mia sorella doveva studiare e io alla fine mi mettevo alla finestra ad immaginare che vita facessero le persone che mi passavano davanti casa. Ma torniamo a quel giorno. Io me ne stavo seduto ad osservare l’impiegata del Catasto, stranamente ben vestita, con la piega fresca di parrucchiere e l’abitino stirato. Parlava con un collega e si toccava sempre i capelli. L’avevo capito: quell’uomo alla signora del Catasto piaceva proprio. Ma lui sembrava assente.
Poi l’ho vista , seduta sul sedile opposto al mio.
Carnagione chiara, capelli castano scuro. Un viso dolce perso in un corpo non certo magro. Le unghie dei piedi tinte di color ciliegia spuntavano dalle infradito rosa, portate su jeans scampanati larghi. A coprire i seni prosperosi una canottiera verde militare. Non era bella ma qualcosa in lei mi attirava ed eccitava. Al collo portava un ciondolo di acciaio, che ondeggiava seguendo i sobbalzi degli pneumatici del bus sull’asfalto del ponte della Libertà. Mi è apparsa all’improvviso, era impossibile non stare a guardarla mentre il ciondolo rifletteva davanti a me un ballerino raggio di sole.
Silenziosa, lo sguardo fisso davanti a sé, gli occhi nascosti dietro un paio di occhiali scuri. Un nasino simpatico. Ma furono le labbra a colpirmi. Le guardavo e mi veniva voglia di sfiorarle, per sentire se erano davvero umide. E dolci.
All’improvviso la sua bocca si è aperta in un sorriso e io ho temuto di esser stato scoperto. Ho girato la faccia di scatto e mi sono subito messo a fissare diritto davanti a me. Come un ragazzino spaventato. Sono rimasto immobile a fissare la nuca del ragazzo moldavo del sedile davanti. Non l’ho più guardata finché non siamo arrivati in via Poerio e sono dovuto scendere.
Mi sono lanciato fuori, trasportato dalla ressa , e dopo aver messo un piede sul marciapiede, ho respirato forte. Ero turbato.
A lei non ho più pensato, finché il giorno dopo sul bus delle 17.30, stesso tragitto e stesse facce serie, mi sono sorpreso a guardare con la coda dell’occhio verso il sedile dove c’era lei , il giorno prima.
No, lei non c’era. Poco male, mi sono detto. Ma mentivo: dentro di me si era oramai insinuato un lieve fastidio. Un disappunto per una assenza non desiderata? Non credo nei colpi di fulmine, del resto non sono un tipo che ci casca. O meglio non mi è mai capitato che qualcuna mi guardasse e mi amasse. Di solito se mi guardano è per mandarmi a quel paese insultando mia madre. Che non ha colpe, anche perché è morta. La gente di solito mi evita e le donne che riesco a frequentare sono le ragazze del campo. Troppo indaffarate a pensare alle loro vite bastarde. E poi anche se vivo con loro da tempo, con me, gratis, non vengono.
Andata e ritorno. Mestre-Venezia, Venezia-Mestre. Io che la cercavo in mezzo alla calca del bus e lei che non si vedeva mai. E il fastidio diventa disappunto, la vana ricerca del suo volto mi innervosisce.
Poi, finalmente, è successo.
Ero sul ponte a lavorare. Me ne stavo a testa china , rannicchiato a terra ad aspettare i miei clienti, come tutti i giorni da tre anni a questa parte. La testa bassa, come una posa d’ordinanza. Non devi mai guardare, il cartello parla per te. E’ il mio modo di superare la vergogna di dover far finta di avere tre figli che mi aspettano a casa. Quale casa, che un tetto sopra la testo non ce l’ho più …E quali figli, che non ho manco una donna che mi guardi.
Davanti a me quel giorno, all’improvviso, è apparsa un’unghia color ciliegia. Un piede inserito dentro delle infradito rosa. Sopra un lembo di jeans dal fondo largo. Erano lì, fermi davanti alla mia faccia. Non ho avuto il coraggio di alzare subito la testa, ma dentro di me avevo caldo. Avevo capito perfettamente che era lei. E la volevo.
Poi il rumore, un lieve tonfo. La moneta da due euro che cade dentro il cappello. Allora ho alzato la testa. Lei stava guardando me, attraverso i suoi grandi occhiali neri. Sorrideva e io le sorridevo.
Poi la mia mente mi ha lasciato, non era più con me sul ponte dei tre Archi. All’improvviso ero lontanissimo da Venezia.
Sono a casa. Sto correndo , le mie mani sfiorano le spine di grano del campo e sento, nitida, la voce di mia madre che urla dalla finestra che è pronto da mangiare. Ma io non voglio andare, in fondo al campo c’è Anja, la dolce, che si faceva toccare di nascosto per capire cosa provasse suo padre nel farlo alla signora della drogheria.
Anja, che mi aspettava con la gonnellina stretta tra le gambe e le calzette arrotolate e mi chiedeva di non fare troppo in fretta, ma poi mi sorrideva con quelle labbra rosa che solo una volta ho avuto il coraggio di sfiorare. Sapevano di mare.
Stop.
Una voce mi ha risvegliato all’improvviso dal mio sogno ad occhi aperti. Era un uomo tarchiato, sui 50 anni che mi toccava con un bastone, pieno di astio. Mi urlava di spostarmi perché la signorina doveva passare. Ero un pulcioso, ero di intralcio, mi urlava. Io non mi sono mosso: fissavo il bastone, pronto a sferrare un colpo se osava ancora toccarmi. Ma il bastone non era più puntato verso di me. Lo aveva la ragazza: lo teneva in mano, andandosene, per scandire il passo davanti a sé. Intanto il tarchiato continuava ad imprecare. Mi diceva che dovevo vergognarmi.
Bella scoperta, tutti i giorni la vergogna mi faceva compagnia ma quello stronzo come poteva saperlo?
Non potevo più restare, così ho raccolto il cappello e i soldi e sono corso verso piazzale Roma. Sembravo uno che aveva appena rubato. Qualcuno mi indicava e si guardava attorno per vedere se arrivavano i vigili. Dovevo arrivare in fretta a piazzale Roma. Sparire è la prima regola della sopravvivenza. Il 7 , per fortuna, era al capolinea . Ancora pochi passi, un saltino ed ero finalmente al sicuro.
Dentro il pullman eravamo in quattro. Un operaio dei cantieri De Poli, un pensionato con il nipotino ed io. Ma c’era anche una quinta persona, sul fondo. Non l’avevo vista salendo. Era lei, bellissima, sorridente. Cieca.
Mi sono andato a sedere vicino a lei, lasciando uno spazio tra noi. Ero intimidito. Lei aveva lo sguardo fisso davanti a sé e spostava ogni tanto la testa, a sinistra e destra. Come se ballasse una musica immaginaria. Non sentiva, ho pensato, la mia presenza a pochi passi da lei. Il bus è partito praticamente vuoto, si correva veloci lungo il ponte della Libertà. In fretta siamo arrivati in via Poerio ma io non sono sceso, non potevo. La mia faccia era girata a fissarla, per cogliere esattamente ogni tratto del suo viso.
Pensavo che sarei stato volentieri con lei nel campo in cui da ragazzino imparavo il piacere con la piccola Anja. Mi chiedevo come sarebbe stato sentirla godere. Sentire la sua mano fermarmi chiedendo di rallentare. Il mio respiro che segue il ritmo del suo.
-Scusi. Potrebbe suonare, devo scendere alla prossima.
Lei stava parlando proprio con me. Guardava verso di me. La sorpresa mi ha paralizzato, intimorito. E non ho fatto nulla. E’ stato l’operaio a correre a premere il bottone della prenotazione della discesa.
Lei si è sporta in avanti , tendendo la schiena, poi si è fermata. Allora, con il dito le ho toccato il labbro inferiore. L’ho solo sfiorato, lo giuro. Non ho fatto altro, poi sono corso verso la porta, sperando che lei non urlasse, che l’ autista aprisse in fretta la porta. Per scendere e sparire, prima che fossero guai.
Lei, silenziosa, si mise dietro di me. Mentre attendevo che la porta si aprisse, sentivo il suo sospiro sulla mia nuca. Avevo paura, ma mi sono ritrovato a respirare al suo ritmo.
Poi si sono aperte le porte, siamo scesi ed appena ho messo un piede a terra, come se fossi solo allora davvero in salvo, di colpo mi sono voltato e le ho parlato.
Come mi sia venuto in mente di farlo, non riesco ancora a concepirlo.
-Posso darle una mano, signora?
Lei mi ha sorriso, ringraziandomi ed ha appoggiato la mano sul mio braccio. Un appoggio saldo, per scendere. Ha mosso solo pochi passi sull’asfalto. E la mia bocca è tornata ad aprirsi.
– Scusi, ha perso qualcosa.
Le ho messo tra le mani la moneta da due euro che aveva lanciato nel mio cappello. Lei dubbiosa, si è messa a girare la moneta tra le dita. Mi ha ringraziato e sorriso. E se ne è andata via, portandosi dietro il suo odore di campo di grano, di gonne alzate e calzettoni alle caviglie, di sudore e strofinamenti. E io, l’accattone del ponte dei tre archi, sono rimasto a guardarla allontanarsi da me, cercando il suo odore sul mio dito.
Pippi e Francesco
I piedi che oscillavano, come un vecchio e stanco pendolo. Di Davide, Marta aveva come ricordo quell’immagine. I suoi piedi , che oscillavano, lentamente dall’albero in fondo alla campagna.
Erano stati compagni di lavoro in una azienda agricola. Raccoglievano, ogni estate, pomodori nell’azienda di un conoscente. Per Marta era l’occasione per guadagnare qualche soldo in più. Davide, invece, non aveva altra possibilità: da ex tossicodipendente, faticava a trovare lavoro e quell’occupazione nella fattoria di Gigi era stata la sua unica occasione di guadagnarsi da vivere.
Dopo aver passato una giornata a raccogliere pomodori, con la schiena che faceva un male boia, Davide ogni sera tornava dai vecchi amici. Al bar in piazza. Un bianco oppure una birra e poi la compagnia andava nella stradina dietro l’angolo per il solito rito. Quello della dose. Davide aveva provato per mesi a resistere, si era inventato qualsiasi scusa per non seguirli nella stradina. Era sotto terapia al Sert, segnalato dalla Prefettura. Se sgarrava, finiva in galera. E lui non voleva. Ma la voglia, assieme alla stanchezza, lo rendevano debole. Due giorni prima di andarsene l’aveva detto a Marta, ma lei all’epoca, non sapeva neanche cosa fosse l’eroina. E non poteva capire. Marta lo vedeva giù di morale, aveva cercato di invitarlo a ragionare, a non mollare. Ma le sue erano parole inesperte ed inutili. Due giorni dopo, Davide se ne stava, freddo e bianco, a penzolare da un albero in fondo al campo di pomodori. Una corda stretta al collo, i piedi che ondeggiavano come il rintocco di un pendolo stanco e vecchio. Una lettera in tasca, con due parole, due. “Sono stufo”. E ai piedi del tronco dell’albero, una dose di eroina ancora chiusa dentro la stagnola. Aveva resistito ma sapeva che la prossima volta non sarebbe andata così. A Marta, allora diciassettenne, fu impedito di arrivare fin sotto l’albero e vedere Davide in quello stato. Era la piccola del gruppo, cercarono di proteggerla da quella visione così drammatica. Marta riuscì solo a vedere i piedi di quel ragazzo, dallo sguardo sempre triste. Per anni non ci pensò più, il tempo finisce con il collocare i ricordi in un qualche cassetto del cervello, non sempre a portata di mano.
Venti anni dopo, quell’immagine era tornata all’improvviso a farle visita. Era nel suo studio, con un paziente nuovo. Un ragazzo di vent’anni. Occhi grandi, sguardo assente. Il cognome gli diceva qualcosa. Poi il ragazzo le raccontò di essere orfano di padre, morto suicida tanti anni fa. E Marta ripensò al suo vecchio compagno di raccolte. Quel ragazzo che aveva lo sguardo sbruffone di chi si crede già grande era il figlio di Davide. Francesco, così si chiamava il ragazzo, le spiegò che suo padre era morto prima che lui venisse al mondo. La madre non sapeva ancora di esser incinta quando quell’uomo si ammazzò, le disse.
Marta deglutì forte, senza dire nulla. Ma pensava. Forse se Davide avesse saputo, forse, non si sarebbe ucciso.
Ma era la sagra dei se, quel pensiero, e Marta tornò subito al suo paziente; erano in terapia, le divagazioni non erano ammesse. Francesco continuava a parlare, le diceva che il suo problema non era grave ma che sua madre lo stressava e quindi l’aveva costretto a rivolgersi ad uno specialista.
Lei lo era? Il problema, continuò il ragazzo, era la sua apatia. Si svegliava stanco, a scuola non rendeva, a volte al mattino si svegliava tardissimo e perdeva le prime due ore. E sua madre, che lavorava tutto il giorno, non sapeva più cosa fare con lui.
Marta ogni volta che sentiva questi discorsi, dentro, si indignava. Giovani che non hanno sogni, aspirazioni, voglie. Svogliati, pronti solo a scatenarsi in discoteca per tentare di avere voglia. Anticipavano tutto, dalla droga al sesso, e non gustavano nulla. Da lei ne passava qualcuno ed ogni volta sentiva dire le stesse cose. Sapeva che il problema era uno solo: questi ragazzi non avevano nessuno con cui parlare davvero, un adulto con cui confrontarsi.
Francesco, pensò, era il paziente perfetto per la sua terapia speciale. Gli diede appuntamento così per la settimana successiva. Quando il ragazzo se ne andò, Marta, non appena la porta della stanza fu chiusa, aprì il cassetto e tirò fuori la pallina rossa. Se la mise al naso, azionò il led luminoso e si voltò a guardar fuori dalla finestra, sorridendo.
Il mercoledì successivo arrivò in fretta. Francesco si era stupito della telefonata di Marta che gli comunicava che l’appuntamento non era al centro ma in un asilo. Ma non osò chiedere il motivo e alle tre era davanti al portone della scuola. In spalla, lo zaino carico di libri. La faccia stanca, dopo una notte con gli amici passata a fumare “nero”.
Varcò la porta e sentì il brusio dei bambini che urlavano. Erano tutti seduti a terra e ridevano nella sala del refettorio, vicino all’ingresso. E vide un pagliaccio che gli veniva incontro. Aveva una grande parrucca rossa, gli occhi neri e le guance contornate di bianco. Al centro una bocca rossa, enorme, aperta in un sorriso grandioso.
“Muoviti, devi preparati”, disse il pagliaccio.
E Francesco rimase a bocca aperta, riconoscendo la voce di Marta, la sua terapista.
“Ma…che vuole?”. Il ragazzo non potè dire altro, il pagliaccio lo trascinò in una stanzetta dove c’èrano vestiti e trucchi.
“Mettiti quel grembiule da scolaro con il fiocco grande e truccati”. Il pagliaccio ordinava e Francesco, allibito, buttò per terra lo zaino e incrociò le braccia. “Se lei ama farsi deridere, io non sono così”, replicò.
Marta, irriconoscibile vestita da dottoressa Pippi, il suo nome d’arte, lo copiò. A braccia consente lo guardava, battendo il tempo con l’enorme scarpa che portava al piede destro.
“Tu sei in terapia, con me. E il patto è che se ti chiedo di fare una cosa, tu la fai Francesco. Non sono qui per deriderti o farmi deridere. Men che meno da te. Adesso muoviti, che dobbiamo lavorare. Sei sveglio, però, hai capito subito che ero io”.
Francesco allibito, si girò a guardare i vestiti appesi ad una sbarra e i trucchi coloratissimi con il cerone bianco e i rossetti di tutti i tipi. Marta, intuendo i suoi pensieri, gli si avvicinò e prese il martello di gomma dal tavolo. Che finì irrimediabilmente a colpire la testa del ragazzo. “Muoviti”, gli sussurrò la terapista e se ne uscì mimando un passo da marcia militare.
Francesco non ci capiva niente, si sentiva morire di vergogna, dentro. Un pagliaccio per terapista. “Ma quella è matta, altro che terapista. Dovrebbe farsi curale lei”, disse tra sé. Controvoglia, infilò il grembiule nero e sistemò al collo l’enorme fiocco blu. Poi passò davanti alla scatola dei trucchi e pensò di fare un bello scherzetto a quella stronza. Prese la matita nera e disegnò tra labbro superiore e naso un baffo alla Hitler. Prese il gel e si lisciò i capelli. Poi si guardò allo specchio, sembrava un bambinone cattivo. Azzardò pure un sorriso , il risultato fu un ghigno inquietante.
“Così fai paura, tu sei il cattivo, vero?”. La voce lo sorprese davanti allo specchio mentre faceva smorfie al suo riflesso.
A parlare era un bambino . Piccolo e con gli occhi a mandorla.
“La dottoressa Pippi ti aspetta”, gli disse il bambino. “Muoviti, cattivo”. E il piccolo cominciò a tirarlo per il grembiule, spingendolo a seguirlo. Francesco sbuffava, sentiva i piedi pesanti e sudava. Aveva paura.
Seguì il piccolo fino al refettorio. E vide Marta o la dottoressa Pippi come si faceva chiamare, seduta tra i bambini a confezionare animali e fiori fatti con i palloncini gonfiati. Marta neanche lo badava, continuava a far facce strane gonfiando i palloncini, poi li manipolava come burro e tirava fuori , con gesti veloci, una margherita e dopo un cagnolino.
I bambini ridevano ad ogni smorfia. Una piccola con le trecce si era avvicinata così tanto che gli alitava quasi in faccia. E Marta se la rideva, felice.
Francesco rimase in piedi in mezzo ai bambini a guardare, con un lembo di grembiule ancora stretto dal piccolo cinese.
Che lo fissava, con lo sguardo contrito.
“Che hai moccioso?”, gli disse Francesco.
“Non mi sei simpatico, tu non ridi mai?”, fu la risposta del cinesino che poi lo lasciò solo in piedi ed andò a sedersi davanti a Marta. Lei, la dottoressa, non lo guardava manco di striscio. Il tempo passava e Francesco così conciato si sentiva un cretino. Allora si avvicinò alla dottoressa e le parlò.
“Cosa devo fare? Sto qua a non far niente, mi sento uno scemo”.
“Divertiti”, fu la risposta di Marta.
La dottoressa gli passò il martello di gomma. E Francesco si accorse che tutti i bambini lo guardavano, muti e seri. Allora cominciò a camminare, su e giù, su e giù, come in una marcia militare. E ad ogni passo si tirava una martellata in testa. Il sorriso mimava il gnigno cattivo provato prima allo specchio. E i bambini ridevano, alcuni si erano alzati e camminavano come lui. Si formò così una sorta di carovana con Francesco come apripista, una cattiva majorette capo con i baffetti alla Hitler. Poi intervenne Marta che tirò per finta un calcio nel sedere di Francesco. Lui intuì l’azione e si proiettò in avanti come se quel calcio l’avesse davvero colpito. E la carovana ogni tre passi vedeva quello dietro tirare un calcio a quello davanti e il primo saltar in aria come in una danza di grilli. Francesco aveva buttato via, dopo mezz’ora di salti e risate di bambini, il suo ghigno cattivo e se la rideva. Non se ne era manco accorto, fu Marta a farglielo notare.
“Ti stai divertendo, vedo. Mi sa che come prima terapia non è andato così male”.
Francesco la guardò, con una sguardo interrogativo. “Lo dobbiamo rifare?”.
“Certo _ ribattè pronta Marta _ la prossima settimana. Creati un personaggio, datti un nome. E arriva puntuale che avremo un sacco di cose da fare”.
“Ma io non so far ridere, non so manco divertirmi _ rispose Francesco, con la faccia arrossata per le corse _ insomma non sono capace”.
“Per esser felici non si nasce imparati _ disse Marta, simulando una voce da vecchia _ non devi imparare a far felici gli altri, a farli ridere. Se ridi tu e sei felice, gli altri staranno bene standoti vicini. Ed ora torna coi ragazzini che devo cambiarmi”.
Francesco la guardò andarsene con il suo passo saltellante, i piedi dentro le scarpe di dieci misure più grandi, la parrucca rossa riccia che ondeggiava al passo e il cuscino a gonfiare il posteriore dentro la tuta bianca da operaio. “Dottoressa, sei tutta matta”, le urlò. Marta si voltò e gli sorrise accennando un passo di rumba.
Francesco le corse incontro, frugando dentro la tasca dei jeans. Tirò fuori una foto. “Dottoressa, questo era mio padre”.
Marta vide la faccia di Davide e tornò a sorridere. ” Sì, lo conoscevo. Tuo padre, Davide, era mio amico tantissimi anni fa”.
Francesco la guardava ed ora sembrava davvero il ragazzino che era in realtà.
“Dottoressa, poi mi racconti di lui?”
La stella alpina
Anzi, Marta pensò bene anche di girargli le spalle, ficcando la testa sotto il cuscino e mettendosi a guardar la porta della stanza. Senza rispondere.
Davide, stanco, fece altrettanto. Il sonno li avrebbe ammansiti tra poco, pensò, e domattina avrebbero visto tutto in maniera diversa. Non ci credeva ma voleva crederlo. Marta invece aveva la testa a centinaia di chilometri da quel letto sfatto. Dove? Mica lo sapeva Si tirò addosso le coperte. Aveva freddo e non aveva nessuna voglia di parlare e soprattutto di spiegare perché si ritrovava nel letto di uno che conosceva da poche ore e di cui in pratica sapeva solo nome, età, professione, indirizzo di casa. Lei sapeva che mentre baciava, toccava, sfiorava il corpo di Davide in realtà non pensava affatto a lui, ma a Samuele, che se ne era andato la settimana prima senza un motivo apparente: improrogabili impegni di lavoro. Samuele l’aveva chiamata il giorno prima per avvisarla della partenza, senza lasciarle il tempo manco di un saluto. E finora non si era fatto sentire. Non una telefonata, non una mail. Aveva lasciato nella cassetta della posta del suo palazzo soltanto una busta con all’interno una stella alpina, infilata in un sacchettino di cellophane. Ed un bigliettino. “Quando torno, parliamo”.
E Marta aveva passato i giorni seguenti senza parole e lacrime. Tra amici ci si lascia con il sorriso, ci si cerca quando si può. Non si puntano i piedi. Ma c’era quella notte passata svegli a guardar vecchi film e a bere vino rosso, con il plaid condiviso e poi c’erano stati i sorrisi, l’addormentarsi abbracciati sul pavimento, mezzi ubriachi, e poi al mattino, invece dei saluti di rito, mentre Marta, che si era svegliata per prima, si faceva la doccia, Samuele era entrato nel bagno, si era spogliato e si era infilato nella vasca con lei. E avevano fatto l’amore in un modo lieve e delicato, che Marta ogni volta che ci pensava ancora aveva i brividi. Poi Samuele non aveva più detto nulla. Dopo pochi giorni era partito. E lei si era sentita di colpo sola e passava le notti a guardar vecchi film e a bere vino, avvolta nel plaid che non era più condiviso ma solitario. Non perché lei si sentisse abbandonata; no era perché lui non avrebbe condiviso niente con lei. Le risate, le letture, i film, la bottiglia di vino, le discussioni avvincenti su qualsiasi argomento. Era amore? No, era affetto. Marta aveva voglia di chiedere, ma se Samuele non c’era, il dialogo era un monologo assurdo. E lei parlava solo a sé stessa, ponendosi domande senza risposta perché mancava l’interlocutore. E con le domande, cresceva il fastidio per una assenza che pesava. Ad ogni doccia, ad ogni film visto avvolta nella coperta. E nel letto, di notte, quando la fantasia corre veloce prima del riposo, e risenti a volte nitide le sensazioni più piacevoli e forti. Era come se la presa delle sue mani fosse entrata sotto la pelle e fosse rimasta lì, mollando calore poco a poco. Qualcosa Marta doveva fare e la festa a casa di amici con un invito allargato a tutti i conoscenti possibili, le era sembrato il modo migliore di liberarsi dal pensiero di Samuele, dal suo profumo.
Per una sera non ci avrebbe pensato. E infatti fu l’anima della festa, ballò per ore con le amiche con una sana allegria da quindicenni. E poi arrivò Davide con i cocktail, le battute e gli apprezzamenti. E con la sbornia che avanzava, la distanza tra loro si era ridotta. Lei ballava senza pensieri e lui la cercava, la tirava a sé e Marta non aveva voglia di resistere. E si lasciò andare. Quando Davide la portò a casa e la spogliò e poi le accarezzò a lungo il corpo, Marta non c’era per davvero. Lei era di nuovo nel bagno, sotto la doccia, con Samuele. Chiuse gli occhi, fece uno strano sorriso e ricambiò il favore a Davide ma tutto quello che faceva, con la bocca e le mani, non lo faceva a lui, ma a Samuele.
Un gioco perverso di presenza ed assenza, un corpo che agisce scollegato da una mente che si alimenta di un desiderio che in realtà è altrove. Per questo alla domanda di Davide, Marta scelse di non rispondere. Sarebbe stato decisamente difficile dirgli che aveva fatto l’amore con lui solo per non dimenticare un altro uomo.
Si svegliò la mattina più serena, anche se il mal di testa le rendeva difficoltoso il passo. Si avviò in bagno e si spogliò, pronta a farsi una doccia. Aprì la tenda di plastica e rimase a bocca aperta. Nudo, intento ad insaponarsi le spalle, c’era Samuele. La faccia sbalordita di Marta rivelò i suoi pensieri imbarazzati ma anche le mille domande rimaste senza risposta. “Che ci fai qui?”, le chiese Samuele.
“No, che ci fai tu qui _ ribatté Marta _ non eri via per lavoro? E che ci fai a casa di Davide?”. “Siamo coinquilini, io abito qui _ le rispose Samuele, ridendo _ E sono tornato ieri sera. Ho visto che dormivate e non vi ho svegliato”. Marta sentiva la pelle della faccia scottare, come in preda alle febbre e desiderò tanto di esser capace di sparire. Ma non era un super-eroe.
Invece aveva davanti l’uomo che desiderava e che aveva capito benissimo che la scorsa notte lei e Davide avevano fatto sesso. ” Ti sei divertita?”. Le parole di Samuele le echeggiarono in testa formando un eco, come se sotto la corteccia cranica non ci fosse più materia grigia, ma il vuoto. “Ti piace, Davide?”. Samuele proseguiva nelle domande e Marta taceva ma sentiva che erano in arrivo le lacrime. Samuele le posò una mano sulla spalla. “Sì, ci siamo divertiti ma non ho fatto l’amore con lui, nella mia testa l’ho fatto con te”, disse Marta con un filo di voce e vergognandosene. “E ti è piaciuto”, le rispose Samuele accarezzandole i capelli. “Sì, tanto”, replicò Marta oramai incapace di pensare prima di parlare.
Lui la attirò a sé dentro la vasca e la abbracciò. “Dobbiamo parlare, dopo”. E tirò la tenda.
Gigio, il marziano
Eravamo amici, io e il marziano.
La prima volta che vide il mare, mi chiamò al cellulare. Ricordo che era pomeriggio, e la sua vocina urlava dentro al telefono.
“L’ho visto, l’ho visto. Sono entrato dentro, con i jeans e la maglia!”
Gigio quel giorno era davvero felice. Quando chiuse la comunicazione, dopo avermi urlato per trenta minuti nell’orecchio la sua gioia e i giochi di spiaggia e le onde, io piansi. Di felicità. Chi era con me non ci capì nulla, ma poco importa.
Gigio aveva visto il mare, per la prima volta, a sessant’anni.
In realtà era come se ne avesse diciotto di anni, era come un ragazzino alla scoperta del mondo. Il mare, la pizzeria, la discoteca, le gite in montagna. Un diciottenne che viveva in un posto da vecchi, ospite di una casa di riposo .
Viveva in un corpo da vecchio in mezzo ad anziani non autosufficienti e per loro era diventato un simpatico punto di riferimento. Eccentrico, ma utile, e soprattutto allegro. Gigio accudiva il giardino, andava al mercato a far le spese per gli ospiti che non potevano muoversi oppure andava in farmacia a far le commissioni. E soprattutto nel giardino della casa di riposo aveva creato un angolo dove dava ospitalità agli uccellini abbandonati o ai volatili, che d’estate restavano soli per le ferie dei padroni di casa. A Mirano tutti andavano da lui a portargli gli uccellini trovati feriti, ammalati o abbandonati. Ma arrivava anche gente che gli lasciava il canarino per due settimane. Era come una pensione per volatili. Lui, felice, accoglieva tutti i nuovi amici, li accarezzava e li metteva nella grande voliera del giardino della casa di riposo.
A me aveva spiegato perché lo faceva. Era il suo modo di rifarsi da una vita passata in gabbia, controvoglia e soprattutto forzata.
Eravamo diventati amici nella sua precedente vita. Quando Gigio era un barbone che viveva al Macallè, in mezzo alle case diroccate del rione di Mestre a due passi da piazza Barche. Un giorno rischiò di morire: aveva freddo, aveva bruciato dei giornali dentro una casa diroccata e il fuoco aveva arso in fretta le assi marcite mandando in fumo lo stabile. Lui si salvò per miracolo e così il piccolo mondo del Macallè si accorse di lui.
Cominciò a vagare per i negozi, poi arrivò anche al mio ufficio. Non voleva soldi, chiedeva un pacchetto di caffè ed un chilo di zucchero. Ero incuriosita da un accattone che non chiedeva denaro ma solo cose che gli potevano servire per vivere in strada. Saliva le scale e sapevi che era lui: “Marziani!!!!” urlava non appena la porta si apriva, e io ridendo ricambiavo chiamandolo a sua volta, Gigio il marziano.
Un giorno venne a trovarmi, io ero al telefono e lo feci accomodare davanti a me, e finita la telefonata, dopo averlo visto così calmo osservarmi mentre lavoravo, ci provai. Gli chiesi chi cavolo fosse, che vita aveva alle spalle. Credo, non aspettasse altro. Mi raccontò la sua vita di bambino abbandonato dalla madre, spedito in orfanotrofio con un nuovo cognome e dopo qualche anno dichiarato pazzo, perché troppo vivace. Mi mostrò i polsi, piagati dai lacci di costrizione. I denti, scomparsi, mangiati dalle dosi di elettrochoc a cui venne sottoposto negli anni. Aveva girato i manicomi di mezzo Nord Italia. Ogni volta scappava, mi raccontò. Ma non sapeva dove andare, saliva su un treno e lo riprendevano alla fine. Tornava in manicomio, e giù dosi di farmaci e cure psichiatriche. Mi raccontò che in quegli anni aveva finito con l’abituarsi alla fine ad essere pazzo.
Non capiva niente, i farmaci lo rendevano un essere inanimato. L’elettrochoc gli strappava via i pensieri dalla testa e gli lasciava solo, dentro, un atroce dolore.
Pensava di essere pazzo e di morire da matto. Non so se tutti i suoi ricordi fossero reali o offuscati dagli anni di manicomio. So quel che Gigio mi confidò: che ogni giorno ringraziava il suo santo , Franco Basaglia che aveva conosciuto a Trieste, perché quell’uomo era riuscito a far chiudere i manicomi e regalargli la libertà.
Come molti altri, da incapace di intendere e volere, si ritrovò libero di colpo. Ma senza aiuti, riferimenti, amici finì sulla strada, passando da pazzo a barbone. E tornò a Mestre, forse perché quella città era l’unica che conosceva e qui era in fondo nato. Anche se da madre ignota.
La sua seconda fortuna fu rischiare di morire bruciato nella catapecchia del Macallè. Quartiere di lavoratori, gente per bene. Dove di notte si aveva paura a girare perché c’erano gli spacciatori. Ma lì la rete di solidarietà della gente aiutò Gigio, scampato al rogo. C’era chi gli pagava il caffè, chi il panino, chi gli assicurava il pacchetto di caffè e lo zucchero. Altro non chiedeva, andava dai frati a mangiare. Andò avanti così per alcuni anni, finchè non cominciò ad ammalarsi ed allora ci fu chi riuscì a trovargli un posto a Mirano, in casa di riposo. Lui pagava una parte della retta, con la piccola pensione che lo Stato gli passava. Gigio trovò una casa. E tornò a rivivere, si mise a fare tutte le cose che la vita in manicomio gli aveva negato. A sessant’anni vide il mare per la prima volta. Andò in montagna con gli scout e pure anche in discoteca dopo una serata passata in pizzeria. E baciò una donna. Me lo aveva raccontato in una delle sue telefonate. Era un segreto , mi disse. Tra amici. Ogni sua telefonata era una esplosione di felicità: urlava nella cornetta, chiamandomi marziana, e mi raccontava tutto quello che aveva combinato. Potevo essere in bagno, ad un convegno o a letto. Non importava, Gigio doveva raccontare.
Andavo a trovarlo in casa di riposo e mi mostrava gli ultimi amici pennuti arrivati nella grande voliera. Ed ogni volta gli occhi gli brillavano, e le rughe della vecchiaia sparivano. Mi prendeva le mani e cominciavamo a saltellare, come in un grande girotondo di ringraziamento. Come due amici, marziani.