“E’ la terza volta che provo il suo rimedio, signor Guadalupi. E non funziona”.
Ersilia Santini teneva tra le mani la boccetta vuota. Si rivolse a Guadalupi, dopo un breve silenzio, obbligato, visto che l’uomo era al telefono con un cliente.
“Non funziona? Questo lo dice lei, signora Santini. Vuole che le mostro di nuovo tutte le lettere dei clienti soddisfatti che mi hanno scritto per ringraziarmi? Chiamo la segretaria e, se vuole, le può rileggere tutte”.
Ersilia Santini tacque. Si limitò a spingere la boccetta sul tavolo verso la faccia del signor Guadalupi.
“Ci sarà qualche errore, nella preparazione. Le ripeto che non funziona. Non è cambiato nulla neanche questa settimana, io continuo a stare male e non passa. Eppure prendo un cucchiaio al giorno, come mi ha detto lei”.
Guadalupi la fissò negli occhi, senza neanche guardare la boccetta che la donna gli aveva parato davanti.
“Signora Ersilia, a volte ci sono casi più difficili di altri. Mi ricordo quello del professor Calvari che era così innamorato della preside del liceo dove lavorava che non dormiva più di notte. Abbiamo dovuto lavorare sul dosaggio. Però lei mi deve aiutare”.
Ersilia Santini annuì.
“Come, signor Guadalupi?”.
“Ersilia lei ci deve credere che è possibile”.
“Ma io ci provo! E credo a lei”
“Evidentemente non a sufficienza”, replicò l’uomo alzandosi dalla seggiola e camminando su e gìù per la sala da pranzo, trasformata in studio.
Gianni Guadalupi, pensionato delle Poste, settant’anni ben portati, invece di portare al parco i nipotini, come tutti i nonni della sua età, si era inventato un lavoro a domicilio. Quello dell’eliminatore.
Ammazzava l’amore su mandato dei suoi clienti, stanchi di provare sentimenti non ricambiati, rimbalzati o avvizziti dal dolore e dalle peripezie a cui erano costretti.
Se lo era fatto stampare anche sul biglietto da visita quel titolo. Aveva la sua storia come credenziale e tutti in paese gli avevano subito creduto, perché tutti sapevano chi era.
Di giorno lavorava all’ufficio postale. Di sera per venti anni di seguito si era seduto al bancone della trattoria della Florinda e le aveva parlato d’amore. E lei mai una volta aveva fatto un cenno di comprensione e assenso, con il capo artificialmente imbiondito e poi, con il passar degli anni, naturalmente ingrigito. La Florinda non sentì mai nessuna delle sue parole semplicemente perché lo vedeva come un cliente qualsiasi, con il bicchiere di vino sempre in mano.
Così tanti anni ci vollero al Guadalupi per capire che non avrebbe mai parlato davvero alla Florinda e una sera, convinto di essere diventato trasparente al mondo, tornando a casa col passo desolato, si fermò davanti ad un campo di zingari e una donna anziana, con le rughe che le avevano scavato il viso, fino a nasconderle pure gli occhi, gli venne incontro e gli chiese se aveva bisogno di una mano, che si vedeva che era affranto.
Lui, ubriaco di vino e tristezza, le urlò contro che gli serviva subito un medico, meglio, un assassino per uccidere l’amore inutile che portava dentro il petto. La vecchia donna lo trascinò fino alla sua tenda, lo fece entrare e sdraiare sul letto e poi gli diede da bere da una boccetta scura e lo invitò a rilassarsi e nel farlo gli cantò una canzone dalle parole incomprensibili.
Guadalupi si svegliò la mattina dopo, completamente sudato. Non ricordava nulla dei sogni di quella notte, ma aveva i polsi segnati, come se fosse stato legato con delle corde. Uscì dalla tenda e non trovò nessuno, il campo zingaro era partito in fretta e furia e i fuochi erano stati spenti con l’acqua. In tasca del giaccone ritrovò la boccetta scura, piena di liquido nerastro. Tornò a casa e dormì il resto della giornata, senza pensieri. Poi la mattina dopo andò in ufficio e gli amici lo videro strano e sereno, senza più lo sguardo perso davanti al vetro attraverso il quale parlava ai clienti. E la sera nessuno lo vide entrare alla trattoria della Florinda. Lui era andato diritto a casa, a guardare la televisione. E a rigirare tra le mani la boccetta scura. E quando gli amici lo andarono a cercare dopo giorni, stupiti di non vederlo più cantar le lodi della Florinda, oramai sciupata, lui mostrò loro la boccetta e spiegò che lì dentro stava il rimedio che gli aveva trasformato il cuore in una pietra. Liberandolo.
Con un amico chimico analizzò il contenuto: stramonio in parti uguali con aceto e limone. E allora pensò di trasformare la fortuna in un lavoro e cominciò a produrne di boccette scure e a prescriverle ai malati d’amore del paese, contando sul fatto che tutti sapevano che lui era guarito. E ora viveva benissimo, senza più lacrime.
Ora davanti aveva il suo caso più difficile, quello di Ersilia Santini, vedova inconsolabile che ogni notte tra le lenzuola di flanella del suo letto matrimoniale, faceva l’amore con Nando. Solo che lui, il marito, stava da 15 anni sotto un cumulo di terra, al cimitero di San Pancrazio, e lei, ancora bella e con gli occhi azzurri color cielo, provava tutti gli oggetti che aveva in casa e ne comperava di nascosto di nuovi, atti a riprodurre la sensazione che solo lui aveva saputo darle, e urlava nei suoi amplessi solitari il nome di lui e nel quartiere la gente non dormiva più a sentir le urla e poi i pianti di quella vedova, inconsolabile nel corpo e nel cervello.
E i cani nelle case dovevano star di notte tutti con la museruola, per evitare che si mettessero a rispondere coi loro ululati.
Ersilia aveva sentito il nome di Guadalupi dal maresciallo Salvi che era andato a casa a recapitarle il terzo esposto in due mesi per schiamazzi e rumori molesti. I vicini si erano stancati e avevano deciso di zittirla con le querele e il maresciallo, impietosito dalle scuse vergognose della donna, l’aveva invitata a cercar aiuto dall’eliminatore.
Solo lui poteva chetare le sue urla e le notti dei vicini.
Guadalupi la storia la conosceva e Ersilia gli faceva pena. Lui sapeva benissimo quanto poteva esser inconsolabile un amore che non era morto da solo e voleva, nonostante tutto, alimentarsi.
Gli stava simpatica quella donna, vogliosa di amore in ogni poro della pelle eppure così compita, così rannicchiata nelle sue spalle da sembrare una delle tante cinquantenni spente del paese.
Sì offrì con piacere di aiutarla e per tre volte preparò il medicamento, ma con lei non funzionava. Guadalupi non capiva il perché. Aveva funzionato con tutti, chi subito e chi con due trattamenti.
Al terzo tentativo fallito, nessuno era arrivato.
“Ha smesso almeno di piangere?”, chiese alla donna.
“Sì, il pianto non arriva più. Pare che ho finito le lacrime”.
“E questo è un buon segno”, disse Guadalupi.
“Ma allora perché penso sempre a Nando e lo cerco e lo voglio?”, disse la Ersilia.
“C’è qualcosa della vostra storia che io non so, signora? Sicura di avermi detto tutto del vostro matrimonio?”
“Sì, signor Guadalupi. Le ho detto tutto”.
“Non capisco. Guardi…le faccio avere una quarta preparazione e stavolta andiamo a due cucchiai al giorno. In caso di effetti collaterali, in primis giramenti di testa e sogni troppo nitidi, sospenda subito. E mi raccomando controlli il battito cardiaco ogni giorno, perché deve scendere. Metta una mano qui sul mio petto. Sente? E’ pietra! Così deve diventare”.
La signora Ersilia toccò con un dito il petto dell’eliminatore e sentì che la pelle era spessa come il marmo. Il cuore di Guadalupi era intrappolato dentro la gabbia durissima, non si sentiva nemmeno un battito.
“E’ vero”, disse lei abbassando gli occhi. “Ma a pensarci bene, c’è una cosa che non le ho detto. Pensavo fosse inutile, ma a questo punto non lo so più”.
“E allora mi dica, signora!”. Guadalupi era indispettito.
“La trasfusione di sangue, signore. Due anni dopo il matrimonio, in un incidente in auto, io fui ricoverata in ospedale. Ero molto grave, avevo perso molto sangue e Nando mi diede il suo sangue con delle trasfusioni. Andò sei volte in ospedale a donare il sangue per me, che i nostri gruppi erano compatibili. E me lo diceva sempre quando andavamo a passeggiare assieme: Nel tuo sangue, c’è il mio”.
Guadalupi sbiancò. Non gli pareva vero ma doveva esser quello il motivo. Era colpa del sangue se non funzionava il medicamento. Il passaggio da un amante all’altra aveva creato una barriera inaccessibile a qualsiasi pozione, perché l’amore di Nando adesso si riproduceva nel corpo di Ersilia, al ritmo quotidiano dei suoi globuli rossi.
La mandò via, con la quarta boccetta, e la raccomandazione di non superare mai i due cucchiai al giorno e di farsi legare al letto, per resistere ai sogni della notte. Guadalupi sapeva che avrebbe fallito ancora. Non poteva tollerarlo. Per preservare la sua onorata attività, e la credibilità di eliminatore, doveva fare solo una cosa.
Quattro giorni dopo il maresciallo Salvi ordinò ai suoi uomini di sfondare la porta di casa della signora Ersilia, che dalla sera dopo la visita da Guadalupi non aveva più aperto la porta di casa ai parenti e non urlava più. Salvi, preoccupato, aveva suonato più volte e poi, spazientito, aveva deciso che bisognava entrare in quella casa. Trovò la signora Ersilia stesa sul letto, le mani legate al parapetto di ottone. Sul comodino la boccetta scura, intatta. La pelle di lei era bianchissima. Il lenzuolo e la camicia da notte erano inzuppati di sangue essiccato. Secondo il medico legale, arrivato dal capoluogo, la donna era morta dissanguata.
Salvi, con la faccia stanca di chi con la morte proprio non riesce a giocarci a tressette, dopo sei ore passate tra puzza di sangue secco e cloroformio, andò a suonare alla porta dello studio di Guadalupi. Il maresciallo sperava di trovare aiuto per capire chi aveva fatto un simile scempio.
La segretaria gli disse che il signore non voleva ricevere visite ma il maresciallo insistesse al punto che andò da solo ad aprire la porta dello studio, senza attendere che lo annunciasse.
Trovò Guadalupi, con la camicia aperta, intento a tirare martellate contro uno scalpello che teneva puntato al centro dello sterno. Tirava colpi e bestemmiava Dio e tutti i santi perché non vedeva sangue.
O almeno così Salvi scrisse poi nel rapporto di aver sentito.
Guadalupi si fece portar via senza fare alcuna resistenza. E non disse mai più una parola.