Dopo due presentazioni a Mestre, l’11 aprile sono a Torino alla casa di San Salvario a parlare di alberi, Nordest e castagne matte. Segnatevelo e siateci, se avete voglia 🙂
Avevo judo – dal sito di Blonk
qui spiego perché è un pezzo che non scrivo
http://www.blonk.it/guest-blog/avevo-judo/
Una sera a Treviso
Cliccando sul link, arrivate al video che racconta la lezione che ho tenuto al corso di scrittura creativa dedicato al racconto breve, organizzato da Cucina di storie e Il portolano allo Spazio Paraggi di Treviso. Sono andata a raccontare di “Ottanta lettere”, ho raccontato cosa è per me scrivere, ho ritrovato vecchi amici e ne ho conosciuto di nuovi.
Il video lo ha girato Federico Cassandrin.
“Ottanta lettere” – che succede
“Ottanta lettere” è in gara al premio nazionale Renato Fucini 2012, sezione raccolta di racconti. Quelli di Blonk hanno deciso di provarci, partecipare ad un premio letterario tradizionale con un libro che non è di carta.
Vediamo come va.
Tutte le informazioni sul sito di Blonk editore: http://www.blonk.it/it/post/2012/10/09/ottanta-lettere-candidato-al-premio-renato-fucini-2012
E ricordo che per chi ama leggere in spagnolo, c’è anche la traduzione di Ana Pace “Ochenta cartas”
L’amore non ha scarpe
Prima guardavo il telegiornale e c’erano le immagini di una strage. Un attentato in Siria. L’ennesima brutta notizia dalla Siria.
Oramai, quando accendi la tv e guardi il tg ti aspetti sempre, almeno una volta al giorno di sentire parlare di una strage, di sentire parlare di morti ammazzati, di gente che un minuto prima lavora, passeggia, fa le spese, ride con gli amici, poi scoppia la bomba e non c’è più.
Restano le scarpe, inquadrate dalle telecamere dei tg.
Se ci pensi bene quando mandano le immagini di un attentato, come i tanti di questi mesi in Siria, mostrano quasi sempre delle scarpe. Da sole, sull’asfalto. Ballerine, scarpe da uomo in cuoio, ciabatte sgangherate, infradito mezzi rotti, scarpe piccole da bambino, scarpe grandi e usurate, portate da generazioni, rimesse a posto come si poteva, scarpe impolverate, scarpe usate, scarpe morte.
Quando si tratta di morti per incidente non è poi tanto diverso, vedi il servizio e nelle immagini c’è il corpo sotto il lenzuolo bianco, vedi l’auto, vedi il motorino o la bici per terra, vedi i poliziotti alle prese con i rilievi, vedi la gente che guarda e piange e qualche metro più in là, ci sono le scarpe.
Quando uno muore di morte violenta le scarpe volano via sempre. E vanno lontano da lui.
A volte ti capita di vedere qualche tacco dodici o un mocassino di pelle pregiata.
Ma è raro, a pensarci bene, che se vedi una di quelle scarpe messe meglio non ti viene da pensare che loro sono messe meglio di quelle dei dintorni di Aleppo.
No, ti appare sempre una scarpa morta, per terra, da sola, senza piedi a calzarla, senza pesi umani a sollevarla, una scarpa sull’asfalto, la guardi e ti manda un messaggio preciso: “Chi mi porta non c’è più”.
La morte ti porta via le scarpe, forse è per quello che anche se non ce l’ha mai detto nessuno, l’amore lo viviamo da scalzi.
Yuhuuuu
Vai a questo link : http://barabba-log.blogspot.it/2012/09/lennesimo-libro-della-fantascienza-un.html
L’ennesimo libro della fantascienza, voluto da quei matti di Barabba, con la copertina di Isola Virtuale, è scaricabile nel sito dei Barabbi e se volete leggerlo c’è anche un mio racconto “Samopal”.
Poi ci sono altre cose, alcune che capitano a metà ottobre, e l’altra il 4 dicembre. Ma ve le dico più avanti.
Ciao
L’antologia di Setteperuno
Gli amici di Setteperuno hanno pubblicato la loro antologia e ci sono anche io con il racconto di “Lontano”.
Ringrazio e auguro a questo ebook collettivo lunga e piacevole vita, tra le mani di chi vorrà leggerlo.
Il link per scaricarlo: http://www.setteperuno.it/
Il nome della Fedora
La Fedora non si chiamava così, la chiamavano e lei si era abituata. Sua mamma le aveva messo un nome diverso, meno ridondante, ma oramai lei non se lo ricordava più.
I documenti, dove c’era scritto il nome vero, non li tirava mai fuori, erano persi dentro un cassetto nella sua camera alla locanda dalla Gilda, una ex collega che aveva usato i soldi guadagnati per mettersi in proprio, e dava le camere quasi a gratis alle amiche per lavorare e vivere.
Tanto si rifaceva sugli extra degli operai che lavoravano coi contratti semestrali nelle ditte d’appalto dei cantieri navali di Porto Marghera.
Un sovrapprezzo qua, una aggiunta là, un piacere, un sorriso, una ombra di bianco e una palpata di culo in sala ristorante la sera, dopo la partita a madrasso, e loro mica si ricordavano più quanto avevano speso.
La Gilda faceva il conto il 30 di ogni mese e da una squadra di operai usciva anche il mese di stanza pagata per la Fedora.
Che girava senza documenti perché tutti la conoscevano.
La sua capigliatura, di un nero nero, che avvolgeva la testa come un turbante, le aveva dato quel nome che faceva tanto anni Cinquanta. L’idea era venuta a un cliente, poi era arrivato fino ai poliziotti. Su una Fedora ci aveva fatto un film anche Billy Wilder ma lei non l’aveva mai visto.
Gliene aveva parlato il professore, che le aveva detto che lei aveva un nome, e capelli, degni di una diva.
All’inizio le pareva di esserlo davvero una di quelle star del cinema, poi tutto era diventato normale.
I capelli lunghi fino ai piedi, che non aveva tagliato se non due volte, le uniche in cui si era innamorata nei suoi 55 anni di vita, le battute dei clienti su quel nome da star passata di moda, i loro sguardi soddisfatti quando slegava la cofana e mostrava fin a dove arrivava la capigliatura e la faceva annusare e pure i suoi occhi chiusi mentre loro pompavano noiosi dentro di lei.
Tutto era normale.
Normale quanto può esserlo una vita noiosa, senza mai un cambio di programma, senza una faccia diversa sopra, senza una parola che non sia già prevedibile al primo sguardo.
La Fedora si annoiava, cambiava uomo ogni sera ma non godeva mai. Quelli ansimavano e pompavano e urlavano e lei se ne stava buona e ferma ad occhi chiusi sul letto, le gambe aperte, la sottoveste calata sui fianchi, il seno scoperto, le natiche nude sul lenzuolo, i capelli lasciati liberi a vagare sul materasso.
L’odore lo sentiva solo lei.
Con il professore almeno stava serena, lui aveva studiato, forse era per quello che alla fine era l’unico che sapeva.
Era arrivato una sera, di tanti anni fa, aveva ancora i capelli castani. Aveva lasciato le 50 mila lire sul comodino, si era tolto con calma la giacca e i pantaloni, in silenzio.
Si era girato, era andato verso di lei, nuda in piedi, in mezzo alla stanza, coi capelli sciolti e le aveva annusato le punte dei capelli.
“Sanno di sesso”.
Poi aveva calato la testa davanti a lei fino all’altezza del pelo tra le gambe e aveva annusato di nuovo.
“Lo stesso odore”.
E lei glielo aveva raccontato, non lo sapeva il perché ma lo aveva fatto, che a una persona istruita ci si porta rispetto e non gli si nega conoscenza, e glielo aveva raccontato che quando aspettava un cliente, prima si regalava il suo momento di gioia, e si toccava sul letto, faceva tutto da sola la Fedora e strusciava i capelli lunghi sulla vagina e ogni volta veniva urlando e gridando, e poi ridendo.
Da sola.
E il professore si era commosso a quella ammissione e le aveva detto: “Non lavarti mai prima che arrivo. Fallo sempre, ma non lavarti”.
E quando lui le era sopra, anche adesso che aveva i capelli bigi, voleva i suoi di capelli, sempre neri, attorno al collo, come un collare annodato, e lei lo lasciava fare che vedeva che era contento, che annusava e godeva prima con il naso che con l’uccello.
Il professore le aveva detto che assomigliava ad una lady, la Godiva, ma era senza cavallo e lei, la Fedora, aveva riso tanto per quel nome che era giusto, secondo lei, perché lei con i clienti non godeva, ma da sola godiva.
E per cavallo non aveva manco un bardotto, figuriamoci un barzotto.
E si era sentita così scema a dire quelle cose, che erano anni che non provava una gioia fuori, figuriamoci dentro, in tutta quella normalità di azioni ripetute, di parolacce e pacche sul culo, di ammiccamenti idioti che tanto si sapeva già prima dove si andava a parare.
E lui le aveva detto che lo chiamavano professore, perché insegnava, ma non lo faceva più, aveva perso il lavoro che si era incazzato col preside che aveva detto ad alcuni allievi, figli di meridionali, che puzzavano e dovevano tornare a casa loro. E dopo quella sfuriata, lui che era supplente non aveva più lavorato come insegnante e andava a pulire scale a ore, ma coi soldi ce la faceva. Gli serviva poco.
Fedora gli voleva bene al professore, lui le parlava sempre di cose che non sapeva e gliele spiegava senza mai farla sentire una stupida. Ovviamente mica glielo aveva detto che aveva affetto. Ai clienti non sono cose da dirsi, quelle.
I mesi passavano e la noia montava ed era diventata fastidio e la Fedora era arrivata al punto che non aveva neanche più voglia di alzarsi la mattina e a 56 anni si sentiva vecchia.
Senza sostanza.
E allora una mattina si diede malata, la seconda fece lo stesso, la terza si chiuse in bagno a piangere, la quarta bestemmiò il bestemmiabile, mentre la Gilda le faceva la pedicure, la quinta tornò a letto e dormì 20 ore su ventiquattro, la sesta si alzò dal letto e prese la forbice.
Tagliò i capelli all’altezza del culo, aiutandosi ad occhiate, con le misure, guardandosi nello specchio del bagno.
E i capelli caduti a terra li raccolse, li legò con un nastro, da un lato, ci venne fuori una specie di scopetto, si spogliò nuda e si mise a gambe aperte sul letto e cominciò a passarsi i capelli avanti e indietro tra le gambe, finché non sentì caldo e si mise ad urlare.
Il professore era giù, alla reception della locanda, ci era passato tutti i giorni da quando gli era saltato l’appuntamento perché la Fedora stava male.
Parlava con la Gilda, voleva sapere come stava la Fedora, perché non si faceva vedere.
Sentì l’urlo e corse sù per le scale, facendo i gradini due a due, con una forza che non si sentiva dentro da tempo.
Spalancò la porta della camera, la 12, e la vide sul letto a dimenarsi nuda, con lo scopetto di capelli neri bagnato.
Lei lo guardò e gli sorrise, lui non si accorse nemmeno di essersi tolto i pantaloni.
Saltò sul letto, prese lo scopetto, si mise a fare lui quello che la Fedora stava facendo da sola, e nel vederla godere e ridere e urlare anche lui cominciò a toccarsi e venne da solo e lo sperma di lui colò sullo scopetto bagnato da lei.
E risero fino al mattino nudi, sul letto.
Lui le chiese quale era il suo vero nome.Lei glielo sussurrò all’orecchio.
Lui annuì, andava benissimo.
2 Maggio
Il 2 maggio parlo di “Ottanta lettere” e di finzione ad un corso di universitari milanesi.
Gente che si è letta Calvino e poi me… Incrociate le dita.
Se ne esco intera, vi racconto 🙂
(Allego comunicato, metti che qualcuno voglia esserci).
02-05-2012 Comunicato Chiarin @fondazione milano