Guardarlo mentre dorme è il secondo piacere della giornata. Il primo era stato vederlo eccitarsi davanti a me, e capire che quell’eccitazione era merito mio, solo mio.
Quando Mario si è tolto i pantaloni e mi ha detto: “ Guarda Linda, è merito tuo”, beh io mica avevo capito. C’è voluta la sua opera convincente per farmi sentire il piacere fine e duraturo dell’esser donna e di piacere, io che sono abituata a non esser vista, nella mia sempre troppo larga tuta da lavoro, unica donna in mezzo a tanti uomini, intenti a scaricar cassette della frutta ai mercati generali.
Sono una fruttivendola e mi piace. Vendere frutta significa vender natura, vitamine, anche qualche pesticida, è vero, ma non vendo prodotti finti; io tratto solo frutta di stagione e anche se mi chiedono le fragole d’inverno, io non le ho e quindi mi sento la coscienza a posto. Credo che per ogni cosa ci sia il suo tempo e per me è anche vero che ognuno semina e raccoglie, quel che si merita.
E io son donna dalle braccia forti e dalle gambe muscolose, abituata a sporcarmi le mani di terra. Non so usare rossetti e fondotinta, non so portare quella lingerie costosa che mi fa le cosce grosse.
Non so sentirmi femmina, fino ad oggi.
Ho sempre avuto una sola passione, il bustino. Con le stecche alte e i laccetti dietro che stringo con l’aiuto di mia sorella, quando voglio provare a sentirmi donna, io che vivo tutto il giorno in tuta e con le unghie nere di terra.
Quando vado da mia sorella lo porto dietro, il bustino nero, dentro la borsa. E solo da lei lo indosso perché so che da lei posso giocare, come facevamo da bambine. E’ il mio momento.
E’ solo mio e poco importa se torno a casa con la schiena a strisce per i solchi lasciati dai laccetti sulla pelle. A me piace ammirarli, quei segni, quando mi tolgo la felpa. E’ come un sapere che potrei anche io …
Ci ho giocato anche l’altro ieri con mia sorella, a far finta di esser femmina. E ho fatto tardi perché siamo andate avanti a ballare fino a tardi con la bottiglia di Santiago sul tavolino del salotto e i Talking Heads di sottofondo.
E come le bambine, avevamo le borse piene di vestiti e di scarpe con il tacco alto ed era divertente far le ragazzine a quarant’anni e non accorgersene. Come frutti fuori stagione, dirà qualcuno ma non importa.
Giocare per me e mia sorella è fondamentale; giocando, noi, ci raccontiamo tutto, come facevamo da bambine. Ed ora che lei è senza un seno, falcidiata da un tumore, il giocare a far le femmine è terapia e complicità. Come è giusto che sia tra sorelle.
Ho fatto alla fine così tardi che sotto la felpa ho lasciato il bustino nero e seppur bloccata dalle stecche me ne sono andata a lavorare alle quattro, dopo una notte insonne.
E lui, Mario, il mio socio era già al nostro banco quando sono arrivata e mi ha visto nello sgabuzzino, togliermi la felpa per indossar la tuta.
“ Ma che porti là sotto? Un corsetto? ”, mi ha detto, ridendo. E io sono arrossita perché fuori dalla casa di mia sorella, che era quella dei nostri genitori, io non so portar roba da donna se non quando gioco. E pensavo che Mario , scoperto il piccolo segreto, mi avrebbe preso in giro tutto il giorno, canzonandomi con i colleghi.
Ma lui, invece, non ha detto nulla. Allora ho pensato fosse poi un gioco, colpevole il bustino, mi sono detta, quando lavorando lui mi passava vicino vicino, strusciando il suo petto sulla mia schiena.
Alternava sempre un lieve “scusami” al suo sorriso giocherellone, che mi piaceva tanto da tempo. Ma sapete, io pensavo che per me fosse passata da un pezzo la stagione dei sorrisi, sostituita da quella del lavoro duro e basta. Che a quarant’anni suonati non avevo più tempo per i tremolii. Dovevo lavorare per pagarmi il mutuo di casa, perché non avevo mariti a prendersi cura di me e l’unico mio sostentamento era il banco di frutta che significa sveglia all’alba e sporcarsi le mani.
E con i guadagni divisi a metà con Mario significava pure sgobbare come un uomo, per farsi rispettare. Da lui e dai colleghi del mercato.
E un pochino alla volta, la mia seppur precaria femminilità è andata così a marcire, come la frutta tenuta troppo sulle cassette.
E così quando lui ieri si faceva vicino mentre vendevamo le fragole o le zucchine, io mi dicevo che non era merito mio ma del corsetto, intravisto dalla tenda, e che era un gioco per canzonarmi. E mi andava bene, era quasi consolatorio.
E quando mi ha chiesto di vederci la sera per una pizza, con la scusa di chiudere i conti del mese, io manco pensavo più al corsetto e alla insolita vicinanza di Mario durante il giorno. E quando mi ha offerto da bere al bar sul lungomare, mi sono detta che era solo cortesia tra soci. E quando mi ha portato a casa in macchina e mi ha chiesto di salire da me per un caffè, io non ho detto di no, pensando che era stanco e si voleva svegliare prima di rimettersi a guidare.
Solo quando è uscito dal bagno con i pantaloni calati e mi ha guardato fisso e mi ha detto “ Guarda Linda, questo è merito tuo”, io ho cominciato a sentire che qualcosa stonava. Mi guardava tutto eccitato, Mario, e io mi sono messa a ridere. “Non è merito mio, è il corsetto”, ho detto tenendo gli occhi bassi.
E lui allora mi è venuto di fronte, mi ha sollevato il mento e mi ha alzato il viso costringendomi a guardarlo e mi ha detto. “ No Linda è merito tuo e quel bustino è solo uno specchio. E ora ti faccio vedere perché”.
Mi ha preso per le braccia fino a farmi alzare dal divano e mi ha portato allo specchio del bagno. Poi mi ha invitato a sfilarmi la felpa. Io allora sono rimasta ferma a guardarmi riflessa nello specchio, con il mio corsetto nero che mi stringeva i fianchi e mi alzava il seno, come se dovesse scoppiare da un momento all’altro.
Mario mi era dietro, mi ha sciolto i capelli e me li ha accarezzati lentamente. E io mi guardavo nel mio specchio con il mio socio, all’improvviso solo un uomo, alle mie spalle e intento ad accarezzarmi i capelli con il più bel sorriso mai visto.
Lì mi sono vista.
Ero una donna, non una fruttivendola. La tuta non c’era più e dentro al bustino sembravo pronta ad esplodere in mille coriandoli di carne rosa.
Ma non mi facevo ridere, no. C’era forza in quella immagine riflessa allo specchio, c’era serenità e felicità. C’era l’allegria di una donna. Non bella da copertina, ma bella comunque, come un frutto di stagione, maturo al punto giusto.
“ Ecco vedi, è merito tuo, non del corsetto”, mi ha sussurrato Mario all’orecchio. E quella frase è stata come il lasciapassare che apre la porta: poi è stato tutto diverso e io non mi sentivo più dentro la tuta, ma un tutt’uno col corsetto, finché quei lacci non ho visto l’ora di scioglierli e Mario non vedeva l’ora di farlo.
E il vederlo eccitato davanti a me, ai miei fianchi e alla schiena con i segni delle stecche e dei laccetti, mi ha fatto felice solo come una femmina può esserlo. Ed è stato stupendo vedere un uomo eccitarsi così per me.
Se ci ripenso, ora, che lo guardo estasiata mentre dorme, stanco, al mio fianco, mi vien voglia di svegliarlo per dirgli grazie. Non lo faccio perché è troppo bello guardarlo dormire, sereno e sorridente. Non posso togliere gli occhi da questa visione che mi eccita ancora, assolutamente pacifica.
Posso solo sdraiarmi di nuovo accanto a lui e sincronizzare il mio respiro, libero dal corsetto, con il suo.