Archivio Mensile: Aprile 2009

Yo soy viento

 

Pregúntate que pasará cuando yo acabe de dar vuelats y de venir a despeinarte, en vez de lamentarte si llego, travieso para cambiarte de lugar, para erosionar tu máscara con cada pasada mía. Puedo ser tramontana fría y nórdica delante de tus noes insistentes o sentirme en cambio un viento sureño que varía desde el lebeche hasta el siroco, cuando tienes ganas de sentir el calor que tengo dentro. Puedo ser levante y volverme briza lieve para hacerte descansar después de haberte cansado de seguirme o un viento del Egeo para alegrar tus juegos estivales. Puedo silbar, absoluta como una reinante, hacia tus ventanas para darle voz a tus silencios, pero puedo también cogerte de sorpresa, de espaldas, con un abrazo cuando menos lo esperas. Y luego irme, como si nunca hub iera pasado por allí, dejándo que me busques confundido en el horizonte. No temas, también sé ser una sonriente briza matinal para despertarte con una caricia. O transformarme en un temporal dominante cuando rozas mis labios y lo que siento es miel. Que la hiel la reconozco con dificultad, yo, yo soy viento, cambiante y absoluto, ingenuo y testarudo, pero también rosa sin maldad si las largas espinas te dan miedo, pregúntate como te sentirías si no estubiera. Menos loco, per más disfrazado.

 

traduzione di Claudia Sangoi http://sancla.wordpress.com

Un mondo piccolo

foto da internet

 

Un mondo piccolo è tutto quello che voglio. Con una casa piccina ma piena di sole e con tante finestre per far entrare il vento quando vuole venirmi a parlare. Con pochi mobili di legno e tanti libri e giocattoli per non annoiarmi mai. E tonnellate di cioccolata per addolcirmi.

Un mondo piccolo che lo metto dentro il taschino della giacca. Quando voglio partire posso portarlo con me e mi sento al sicuro anche se sono in un deserto sconfinato.

Nel mondo piccolo ci metto anche una girandola colorata perché quando il vento mi parla, tutto diventa cerchio e il mio semicerchio emotivo finalmente si allarga.

E dentro al semicerchio che diventa vortice c’è un uomo , nel mondo piccolo, che mi regala girandole e non fiori, che preferisco vivi;  che parla alle mie piante grasse come parlerebbe ad un gatto; che sa essere grande come una coperta quando voglio coprirmi la testa e giocare all’indiano,  e piccino come un mondo piccolo quando voglio andare via.

Epinefrina

Il ferro è freddo, tu sei caldo. 

Posso sentire il tuo calore a un metro di distanza, senza neanche toccarti. Sudi mentre fissi la tua Smith & Wesson 686 che è ora nella mia mano sinistra. Me l’avevi data da toccare e guarda adesso. Io che la punto diritta al tuo naso, senza toccarlo e tu che sudi come uno che è appena stato in sauna. 

Lo sento il tuo cuore che batte all’impazzata, la vedo la goccia di sudore che ti scende sull’occhio; posso seguirne la traiettoria pazza.

 Ma il mio braccio resta teso, non mi sfiora l’idea di abbassarlo e di venire ad asciugartela quella goccia. E tu non fai niente, lasci che lei scenda sull’occhio fino ad accecartelo, poi lo chiudi di colpo con una smorfia di fastidio, ma stai fermo.

 Fissi il mio braccio che non si abbassa e la mia mano, che impugna la 686. 

La vedi anche tu la  tacca di mira contornata da una riga di colore bianco che mi consente di prendere la mira meglio. Ho a tiro il tuo naso, fisso il mirino e la striscia rossa al centro mi aiuta a individuare il bersaglio. 

Chissà cosa pensavi quando me l’hai messa in mano. Forse volevi impaurirmi? Farmi capire chi comanda ? 

Hai sbagliato i conti. Adesso il ferro ce l’ho io, e lo punto diritto al tuo naso. Se sfioro il grilletto, il colpo parte e ti centra in pieno e il tuo naso, bum, non c’è più. Accarezzo lentamente il grilletto, lo sfioro, come si sfiorerebbe l’ombelico di un uomo per riempirlo di brividi.

 Tu guardi, intuisci e sudi ancora di più, perché ti ricordi all’improvviso che la sicura l’avevi tolta prima, mentre giocavi a fare il duro che ha una arma. 

E adesso il tuo occhio, quello che si era chiuso accecato dalla goccia di sudore, è spalancato e la pupilla vibra, perché capisci quel che può accadere e hai paura. Hai paura di un bum e del tuo naso che esplode, e del niente improvviso. 

Non sentiresti neanche male, se premessi il grilletto sentiresti solo quel bum, il resto lo farebbe il proiettile che ti frantuma il naso. Poi sarebbe il nero.  

Ma non mi interessa ucciderti, manco mi è passato il pensiero veloce di farti del male. Quando mi hai messo in mano la pistola, il gesto è stato automatico, non cercato ma immediato, non pensato ma come un tic. La mano ha impugnato e il braccio si è alzato. E io ho preso la mira. 

Mi stupisco di essere in questa posizione, e tenerti sotto tiro, ma adesso che il braccio lo sento parte di me e non più a sé stante, mi vien da dire che mi piace vederti aver paura. 

Ieri mica ne avevi, quando mi hai mollato davanti l’ospedale e mi ha detto “ Ci vediamo stasera, che ho da fare. Chiama se hai bisogno”.

 Eri sollevato nel vedermi varcare la soglia dell’ospedale dove mi avevi fissato l’appuntamento per l’aborto. 

Mica avevi paura che potessi aver terrore, che potessi piangere da sola, mentre una cannula  aspirava quello che poteva essere nostro figlio. Mica eri là a tenermi la mano quando sono uscita dalla sala operatoria. Io avevo freddo e tu non c’eri. 

Avevi altro da fare, dovevi andare a tirare al piattello con gli amici o soltanto non ci volevi essere, non volevi sentirti parte di questo. 

Ma sapere che c’è tuo figlio lì in quella cannula che il medico sta aspirando, ecco, fa male dentro.  Anche se sai perfettamente che è la scelta più giusta. 

Non è un male del cervello, è un dolore delle ossa.  

E arriva anche se sai che quell’embrione non lo puoi crescere e farlo diventare bambino e vederlo nascere e piangere, e succhiare dal tuo seno. Non puoi perché sei sola, e non ce la fai a dargli quel che si merita ( un padre, una vita serena, giochi al parco, mai la solitudine e la povertà ). 

Ecco, io avevo male alle ossa, un male muto e continuo, come se non solo stessi abortendo ma mi stessero succhiando il midollo. E tu non c’eri. 

Era figlio anche tuo ma mi hai lasciato al freddo. E nel gelo sono tornata a casa da sola, ore dopo, in taxi. 

Da sola senza pensare e per non disturbare. Salite le scale e aperto il portone, mi sono seduta sul divano a battere i denti al ritmo del male muto e mi sono avvolta nella coperta. Mi serviva calore. 

Quando sei arrivato e mi hai chiesto come stavo e ho visto che manco mi sfioravi e sei andato a pulire la tua Smith & Wesson, con lo straccetto di panno bianco, tu, parlavi e pulivi e parlavi e pulivi, io diventavo ghiaccio. Non mi guardavi in faccia, evitavi i miei occhi e mi dicevi che era la cosa giusta, che eravamo giovani e senza soldi e senza certezze, manco  che questo amore potesse durare, dicevi.  Ma l’amore era già morto, tre ore fa, sul tavolo operatorio quando non hai avuto paura di lasciarmi sola. 

E adesso che sento l’odore della epinefrina che ti entra in circolo e il caldo del tuo corpo che teme di morire, io, adesso,  ho decisamente meno freddo. 

Aggettivi – da hotelushuaia

Scostante. Mi sa che hai sbagliato a definirmi così. Se leggi sul vocabolario l’aggettivo si usa per chi è introverso. E io non lo sono, caro lei. Sull’introverso non ci siamo, eh , no. Io ho attorno a me un sacco di gente e ci rido e faccio ridere. Forse che tu volevi usare un aggettivo diverso e ti è uscito quello? Dimmelo, caro signore. Quando volevi ingabbiarmi in una definizione, sei incappato in quella sbagliata. Volevi definirmi come una donna priva di cordialità? Ma non ci siamo! Dai, vatti a leggere lepido. Alla elle, sì. Ecco. Senti, lascialo aperto il vocabolario, ce lo guardiamo assieme e vedrai che alla fine la troviamo la parolina che mi ingabbia…tu che hai bisogno di paroline per definire altrimenti ti senti privo di riferimenti. Ehi, no, mica te ne vai…adesso andiamo a cercarla la parolina. Ecco, vediamo. Sono scontrosa? A volte ma non sempre. Sono dura? Beh, quello solo con me. Sono ruvida? Ma come! Vuol dire non uniforme al tatto e scusami al tatto io sono morbida e talvolta sono ruvida solo sul tallone, quando tardo l’appuntamento con la pedicure. Scorbutica? Ma non ho malattie e soprattutto mai incappata nello scorbuto. Non la trovi? Dai, non fare quel grugno da bimbo insoddisfatto. E’ semplice, aspetta che la trovo, ecco. Difficile. Ovvero chi richiede un grosso sforzo per essere compreso. Ohh, ci siamo quasi. Dentro l’aggettivo difficile mi trovo abbastanza bene. Non basta però, mi sa, per il tuo cervellino. Allora vediamo, sono una persona seria, sì, va bene. Ma sono amena? No, lo sarei se fossi un luogo geografico. Non si usa per le persone. Semmai si dice divertente o arguta. Per te vado oltre? Ah, dici pazza? Se intendi la malattia mentale, mica lo so se hai ragione. Se intendi che a volte me ne esco con idee che cozzano con la tua immagine di me, allora può starci ma ce ne sono tante che puoi usare, per le mie idee: balzane e bislacche mi vanno bene, dai. Hanno un bel suono. Proseguiamo: se volevi dire che io sono seria e pure non seria, ti ascolto sì, volevi arrivare alla fine a definirmi discordante? Ma io mica sono in opposizione al tuo pensiero per partito preso, è che se non sono d’accordo, lo dico e basta. Dai, ti aiuto io: volevi dirmi, alla fine, che sono inconcludente. Anche su questo posso disquisire. Se intendi che sono oziosa, questo è vero e mi pare pure di meritarlo e me ne vanto. Se intendi che non raggiungo il mio scopo, non so che dirti. E’ vero tu mi conosci da secoli e io sono stata ai tuoi occhi tante cose: giocatrice di basket, poi arbitro, e ancora suonatrice di sassofono, studentessa di liceo prima e di scienze politiche poi, raccoglitrice di pomodori estivi, segretaria di un circolo della Fgci, fidanzata per bene. E di nuovo studentessa universitaria e poi aspirante moglie e madre. Di quei momenti mi resta solo il ricordo, oggi, è vero, hai ragione tu. Risultati? Tu non li vedi. Successo? Non so che dirti. Ma darmi della inconcludente, mi pare eccessivo. Per te non ho portato avanti alcun scopo. Boh, erano esperienze, utilissime. Mica dovevo andar in giro con le medaglie… Ah, tu avresti preferito… capisco. E’ tardi, scusami, ora devo andare. Ti lascio il vocabolario, così finisci di definirmi per bene. Io ho meglio da fare. Cosa? Vivere, per esempio.

Linda

Guardarlo mentre dorme è  il secondo piacere della giornata. Il primo era stato vederlo eccitarsi davanti a me, e capire che quell’eccitazione era merito mio, solo mio.

Quando Mario si è tolto i pantaloni e mi ha detto: “ Guarda Linda, è merito tuo”, beh io mica avevo capito. C’è voluta la sua opera convincente per farmi sentire il piacere fine e duraturo dell’esser donna e di piacere, io che sono abituata a non esser vista, nella mia sempre troppo larga tuta da lavoro, unica donna in mezzo a tanti uomini, intenti a scaricar cassette della frutta ai mercati generali.

 Sono una fruttivendola e mi piace. Vendere frutta significa vender natura, vitamine, anche qualche pesticida, è vero, ma non vendo prodotti finti; io tratto solo frutta di stagione e anche se mi chiedono le fragole d’inverno, io non le ho e quindi mi sento la coscienza a posto. Credo che per ogni cosa ci sia il suo tempo e per me è anche vero che ognuno semina e raccoglie, quel che si merita.

 E io son donna dalle braccia forti e dalle gambe muscolose, abituata a sporcarmi le mani di terra. Non so usare rossetti e fondotinta, non so portare quella lingerie costosa che mi fa le cosce grosse. 

Non so sentirmi femmina, fino ad oggi. 

Ho sempre avuto una sola passione, il bustino. Con le stecche alte e i laccetti dietro che stringo con l’aiuto di mia sorella, quando voglio provare a sentirmi donna, io che vivo tutto il giorno in tuta e con le unghie nere di terra. 

Quando vado da mia sorella lo porto dietro, il bustino nero, dentro la borsa. E solo da lei lo indosso perché so che da lei posso giocare, come facevamo da bambine. E’ il mio momento. 

E’ solo mio e poco importa se torno a casa con la schiena a strisce per i solchi lasciati dai laccetti sulla pelle. A me piace ammirarli, quei segni, quando mi tolgo la felpa. E’ come un sapere che potrei anche io … 

Ci ho giocato anche l’altro ieri con mia sorella, a far finta di esser femmina. E ho fatto tardi perché siamo andate avanti a ballare fino a tardi con la bottiglia di Santiago sul tavolino del salotto e i Talking Heads di sottofondo.  

E come le bambine, avevamo le borse piene di vestiti e di scarpe con il tacco alto ed era divertente far le ragazzine a quarant’anni e non accorgersene. Come frutti fuori stagione, dirà qualcuno ma non importa. 

Giocare per me e mia sorella è fondamentale; giocando, noi, ci raccontiamo tutto, come facevamo da bambine. Ed ora che lei è senza un seno, falcidiata da un tumore, il giocare a far le femmine è terapia e complicità. Come è giusto che sia tra sorelle. 

Ho fatto alla fine così tardi che sotto la felpa ho lasciato il bustino nero e seppur bloccata dalle stecche me ne sono andata a lavorare alle quattro, dopo una notte insonne. 

E lui, Mario, il mio socio era già al nostro banco quando sono arrivata e mi ha visto nello sgabuzzino, togliermi la felpa per indossar la tuta. 

“ Ma che porti là sotto? Un corsetto? ”, mi ha detto, ridendo. E io sono arrossita perché fuori dalla casa di mia sorella, che era quella dei nostri genitori, io non so portar roba da donna se non quando gioco. E pensavo che Mario , scoperto il piccolo segreto, mi avrebbe preso in giro tutto il giorno, canzonandomi con i colleghi. 

Ma lui, invece, non ha detto nulla. Allora ho pensato fosse poi un gioco, colpevole il bustino, mi sono detta, quando lavorando lui mi passava vicino vicino, strusciando il suo petto sulla mia schiena. 

Alternava sempre un lieve “scusami” al suo sorriso giocherellone, che mi piaceva tanto da tempo. Ma sapete, io pensavo che per me fosse passata da un pezzo  la stagione dei sorrisi, sostituita da quella del lavoro duro e basta.  Che a quarant’anni suonati non avevo più tempo per i tremolii. Dovevo lavorare per pagarmi il mutuo di casa, perché non avevo mariti a prendersi cura di me e l’unico mio sostentamento era il banco di frutta che significa sveglia all’alba e sporcarsi le mani. 

E con i guadagni divisi a metà con Mario significava pure sgobbare come un uomo, per farsi rispettare. Da lui e dai colleghi del mercato. 

E un pochino alla volta, la mia seppur precaria femminilità è andata così a marcire, come la frutta tenuta troppo sulle cassette. 

E così quando lui ieri si faceva vicino mentre vendevamo le fragole o le zucchine, io mi dicevo che non era merito mio ma del corsetto, intravisto dalla tenda, e che era un gioco per canzonarmi. E mi andava bene, era quasi consolatorio. 

E quando mi ha chiesto di vederci la sera per una pizza, con la scusa di chiudere i conti del mese, io manco pensavo più al corsetto e alla insolita vicinanza di Mario durante il giorno. E quando mi ha offerto da bere al bar sul lungomare, mi sono detta che era solo cortesia tra soci. E quando mi ha portato a casa in macchina e mi ha chiesto di salire da me per un caffè, io non ho detto di no, pensando che era stanco e si voleva svegliare prima di rimettersi a guidare. 

Solo quando è uscito dal bagno con i pantaloni calati e mi ha guardato fisso e mi ha detto “ Guarda Linda, questo è merito tuo”, io ho cominciato a sentire che qualcosa stonava. Mi guardava tutto eccitato, Mario, e io mi sono messa a ridere. “Non è merito mio, è il corsetto”, ho detto tenendo gli occhi bassi. 

E lui allora mi è venuto di fronte, mi ha sollevato il mento e mi ha alzato il viso costringendomi a guardarlo e mi ha detto. “ No Linda è merito tuo e quel bustino è solo uno specchio. E ora ti faccio vedere perché”. 

Mi ha preso per le braccia fino a farmi alzare dal divano e mi ha portato allo specchio del bagno. Poi mi ha invitato a sfilarmi la felpa. Io allora sono rimasta ferma a guardarmi riflessa nello specchio, con il mio corsetto nero che mi stringeva i fianchi e mi alzava il seno, come se dovesse scoppiare da un momento all’altro. 

Mario mi era dietro, mi ha sciolto i capelli e me li ha accarezzati lentamente. E io mi guardavo nel mio specchio con il mio socio, all’improvviso solo un uomo, alle mie spalle e intento ad accarezzarmi i capelli con il più bel sorriso mai visto. 

Lì mi sono vista.

 Ero una donna, non una fruttivendola. La tuta non c’era più e dentro al bustino sembravo pronta ad esplodere in mille coriandoli di carne rosa. 

Ma non mi facevo ridere, no. C’era forza in quella immagine riflessa allo specchio, c’era serenità e felicità. C’era l’allegria di una donna. Non bella da copertina, ma bella comunque, come un frutto di stagione, maturo al punto giusto. 

“ Ecco vedi, è merito tuo, non del corsetto”, mi ha sussurrato Mario all’orecchio. E quella frase è stata come il lasciapassare che apre la porta: poi è stato tutto diverso e io non mi sentivo più dentro la tuta, ma un tutt’uno col corsetto, finché quei lacci non ho visto l’ora di scioglierli e Mario non vedeva l’ora di farlo.

 E il vederlo eccitato davanti a me, ai miei fianchi e alla schiena con i segni delle stecche e dei laccetti, mi ha fatto  felice solo come una femmina può esserlo. Ed è stato stupendo vedere un uomo eccitarsi così per me.

 Se ci ripenso, ora, che lo guardo estasiata mentre dorme, stanco, al mio fianco, mi vien voglia di svegliarlo per dirgli grazie. Non lo faccio perché è troppo bello guardarlo dormire, sereno e sorridente. Non posso togliere gli occhi da questa visione che mi eccita ancora, assolutamente pacifica. 

Posso solo sdraiarmi di nuovo accanto a lui e sincronizzare il mio respiro, libero dal corsetto, con il suo. 

Io sono vento

Chiediti che succederà quando smetterò di volteggiare e di venirti a scompigliare i capelli, invece di lamentarti se arrivo, birichino, a cambiarti di posizione, a eroderti la maschera ad ogni mio passaggio. Posso essere tramontana, fredda e nordica, di fronte ai tuoi insistenti no, o sentirmi invece un ostro, mutevole dal libeccio allo scirocco, quando hai voglia di sentirlo il calore che ho dentro. Posso esser levante e diventare lieve freschezza per riposarti dopo esserti stancato a corrermi dietro o una etesi, per allietare i tuoi giochi estivi. Posso sibilare, assoluta come una regnante, alle tue finestre per dare voce ai tuoi silenzi, ma posso anche coglierti di sorpresa, alle spalle, con un abbraccio, quando meno te lo aspetti. E poi andar via, come se non fossi mai passata di lì, lasciandoti interdetto a cercarmi all’orizzonte.

Non temere, so essere anche una sorridente brezza mattutina per svegliarti con una carezza. O trasformarmi in tempesta dominante quando sfiori le mie labbra e quel che sento è il miele. Che il fiele ancora lo riconosco a fatica, io. Io sono vento, mutevole e assoluto, ingenuo e caparbio, ma anche rosa priva di cattiveria: se le lunghe spine ti fan paura, chiediti come ti sentiresti se non ci fossi.

Meno pazzo, ma più mascherato.

Famatina

Famatina - foto di Mitia Chiarin

Un guanaco mi guarda dall’alto

io osservo la tarantola piccina e nera

Non fa paura anche se potrebbe

La montagna piange cianuro

e l’acqua gialla odora di morte

La miniera è gelo e sul sentiero degli Inca

nessuno oggi ci cammina

Qui non esiste dolore e morte

c’è solo pace

Ada

A me piace la tartare, la carne cruda. Il filetto tritato grossolanamente condito con uovo crudo, capperi, olive tritate, un pochino di cipolla, del prezzemolo. C’è chi ci mette le acciughe, io non le voglio. C’è chi accetta un goccio di brandy, io no, mi limito ad un pizzico di tabasco. Voglio sentirlo il sapore della carne cruda. E l’alcool lo ammazza questo piacere.
Mi chiamo Ada, ho 45 anni. Sono dirigente di una azienda che produce salviette e ausili per i sanitari, mi occupo della gestione del personale. Produciamo portasalviette, porta-carta igienica, dispenser di profumo, dentifricio monodose, preservativi.
Mio marito, Pino, è il mio superiore, è il vicepresidente della società. Ma vi giuro, arrivo a casa io dopo di lui, che si occupa per lo più di contratti e pubbliche relazioni. Da cinque anni, cioè da quando sono diventata capo del personale, non pranziamo assieme e non ceniamo assieme. Lui finisce alle sei di sera, io dopo le 21.
I nostri figli, Paolo di 7 anni e Davide di 5, solo ai compleanni e a Natale hanno il piacere di vedere mamma e papà seduti l’uno a fianco dell’altra. Io e Pino sono anni, 5 per l’esattezza, che non ceniamo mai o pranziamo, mai , lo ripeto, da soli.
A lui piace il pesce, a me la carne cruda. Ma non la mangio certo quando ho lui davanti.
Non voglio mostrargli cosa succede. Non più.
A me, quando mangio la carne cruda, mi cambia la faccia, la pelle diventa più lucida, sorrido sempre e ho voglia. Voglia di cose strane, che lui non capirebbe. O che capiva ma ha smesso di capire.
Dopo aver mangiato carne cruda, ho voglia di sbottonarmi la camicetta. Ho voglia di alzarmi e andare in bagno con passo deciso, e di essere seguita, e di ritrovarmi davanti al lavabo del gabinetto, mentre mi aggiusto il rossetto, con due mani dietro che mi sollevano la gonna, mi abbassano le mutandine e due dita che vanno alla scoperta. Ho voglia di non avere orari e pensieri, ho voglia solo di avere voglia, non perché va bene.
Ho voglia di farlo bene, come viene, il sesso, con la gamba alzata, di lato, o con le gambe spalancate come una offerta; ho voglia di esser presa da dietro o davanti, non mi importa. Voglio sentirla la carne, voglio annusare il piacere che diventa odore, così forte da lasciarmi senza fiato. Odore di carne fresca, di sangue che scorre, di vene che pulsano, di sudore sulla pelle, di umore che mi penetra, di saliva che mi cerca.
Per questo non mangio carne cruda con mio marito. Pino è una brava persona, ha una intelligenza incredibile, penso sia l’uomo più intelligente con cui sono stata.
Quando ho partorito Paolo, mi è stato vicino tutto la notte. Eravamo sposati da nove mesi, dall’età del suo concepimento. Allora era diverso, Pino mi guardava con occhi diversi, allora. Non stava tre giorni senza vedermi e toccarmi e cercarmi e mi veniva a scovare ovunque: al bagno, come sul divano, in cucina a casa dei suoi come al bancone del bar. Avevo le sue mani , calde, addosso sempre. E mi offriva spesso carne cruda. 
Dopo il travaglio, durato 48 ore, non mi ha mai lasciato un attimo ma le sue mani non mi hanno più cercato come prima. A letto si dormiva con un orecchio teso a turno a sentire se Paolo respirava, o piangeva. O eravamo alzati ad accudire il piccolo, o eravamo a letto, stremati, cercando di dormire un paio d’ore a testa. Davide è arrivato due anni dopo: avevamo fatto l’amore ubriachi nella piscina di un hotel di Marrakesh, ospiti di amici per un matrimonio. E’ stata quella l’ultima volta che ho risentito le mani, quelle vere, di Pino, come le conoscevo io. Offuscato dal gin tonic, si era tuffato nella piscina dell’albergo, e mi aveva tirato con sé, cercandomi a lungo. Non che altre volte, non avessimo fatto l’amore, a casa, quando Paolo e la sua asma, ci davano pace.
Ma allora fu diverso: Pino aveva voglia davvero di me, sentiva la sua e mia di carne, mi aveva tirato nell’acqua deciso a gustarmi. E io pensai che sarebbe stato così per sempre. Come si fa quando ami mangiare la carne cruda, aveva quella notte quella faccia decisa e la bocca che chiedeva ancora. Come me , quando mangio la tartare al ristorante.
Nove mesi dopo, sul letto dell’ospedale, mi tenne la mano per otto ore, poi mi disse: “tesoro sono stanco, vado a dormire. Ci vediamo domattina. Passo prima della riunione con i milanesi”.

E rimasi da sola per altre nove ore, con il solo aiuto dell’ostetrica , a metter al mondo Davide. Pino arrivò nella pausa pranzo, lamentandosi che la riunione era stata anticipata e che non era riuscito a passar presto e di non aver visto Davide venire al mondo. E che era stanco, disse. E io, senza forze, con 45 punti di sutura, gli dissi di tener duro, che a sera si sarebbe rilassato.
Da allora non ho più mangiato carne cruda in sua presenza, evito sapientemente di arrivare a casa con lui o di pranzare con lui alla mensa. A letto, sono sempre stanca e mi addormento prima di lui. Come lui era stanco quella notte, dopo otto ore passate a tenermi la mano, io ho una vita davanti per riposarmi dalla fatica di aver messo al mondo suo figlio. E non tocco più alcool, in sua presenza. Così non ha manco l’alibi di tornare sé stesso, colto dal torpore di un gin tonic.

Lui non è più l’uomo che mi cercava ovunque, ora mangia pesce, il sushi, così quando va a pranzo con i giapponesi sa cosa ordinare. 

Dopo il parto, quando gli ho chiesto di prepararmi della carne cruda al mio rientro a casa dall’ospedale, mi ha detto che non era il caso, che quando la mangiavo,  io gli sembravo tutt’altro che una brava moglie e non era il caso visto il mio ruolo sociale.  Meglio una sogliola, disse.

Da allora cerco altrove la mia carne, a casa sono una moglie con la camicia abbottonata e la gonna liscia, e il silenzio stampato come un marchio di fabbrica. Mi faccio masticare altrove.

La notte che ho parlato col vento

Il bambino mi guarda, mi fissa e mi sento in imbarazzo e giro lo sguardo.

Guardo verso la finestra.

E’ notte e c’è vento e gli alberi si piegano quasi a toccare terra.

“Non esci?”, mi chiede il bambino.

“No, resto qui”, gli rispondo e continuo a fissare la finestra e fuori c’è il vento che scompiglia tutto. E io ho voglia di uscire, ma resto dove sono.

“Vai, a te piace il vento”, mi dice lui.

“Lo so ma non sempre tutte le cose che ti piacciono poi le fai”.

“Come? Sei tu che dici che deve essere la passione a muoverci”.

Mi giro a guardarlo, infastidita. E’ piccolo come un neonato ma ha lo sguardo da uomo, maturo.

“Cosa vuoi da me? Che ci fai qui?”.

“Mi hai chiamato tu”.

“Ah, l’ho fatto io? Non mi pareva”.

“Ho sentito perfettamente la tua voce”.

“Lo dici tu”.

“Lo dico io”.

Tace e si gira a guardare la finestra. Il vento sibila e muove il vetro, il rumore è lieve e costante. Un tremolio continuo.

“Cosa c’è che non va?”, mi chiede senza guardarmi.

“Non c’è niente che va male, niente. Solo che è bene che stia ferma. Se mi muovo, vado dove non devo andare”.

Il bambino si avvicina alla finestra e diventa di colpo più alto, adesso ci arriva da solo alla maniglia e la afferra.

“Non far entrar il vento”, gli urlo.

Lui non mi ascolta e apre e una folata d’aria lo fa volare all’indietro, vicino ai miei piedi. Rotolando come una pallina sul pavimento.

Lui ride. Io rido.

“Mi prendo io cura di te, il resto lo fa lui”, mi dice, rialzandosi.

Il vento adesso è dentro la stanza e mi gira attorno, improvvisa un vortice ma non mi tocca, forse sente che non ho voglia di lui e sta lontano.

“Ne sei sicuro? Sei piccolo, tu”, rispondo al bambino che adesso è tornato della misura di un neonato. Sul volto, quell’espressione seria che ti prende in giro.

“Sarò piccolo, ma so ballare”.

“Anche io. Sarai bello da grande, con quella faccia un po’ così…”.

“Lo so – mi risponde – sono come tu mi vuoi, mi hai chiamato tu, dimentichi?”.

“Sì, e adesso che si fa?”.

“Ovvio, balliamo”, mi dice il piccoletto, “la musica la metto io”.

Mi alzo dalla sedia, gli tendo la mano e lui la afferra, ha le manine che sembrano panetti di burro, ma sono forti. Improvvisiamo un girotondo con il vortice che ci gira intorno e io giro e lui gira e il vento, attorno a noi, gira in circolo pure lui e ogni rotazione è un suono di melodia cupa ma che non fa paura, che scioglie i nervi e i muscoli e il volto sorride ad arco e dalla bocca escono risate.

Poi il bambino si stacca all’improvviso e piroettando si allontana.

“Adesso fai tu”, mi dice.

E io sorrido e annuisco. E obbedisco.

E allora il vortice del vento mi accerchia e più gira, più si avvicina e io allargo le braccia e lui, il vento, mi viene addosso e diventa tutt’uno con me e i miei capelli vagano. Il bambino ci guarda da lontano e se la ride di quella danza concentrica, goffa ma divertita.

Adesso ha i capelli lunghi, che vagano da soli sopra la sua testa e che indicano i movimenti, come un coreografo al corpo di balletto. 

E io mi sento vento, e sto finalmente bene.

L'ovatta

Raramente mi son sentita davvero sola, devo ammetterlo. Che se avevo un problema, fingevo non ci fosse, e andavo in mezzo al rumore, che tutto rende come l’ovatta. E invece adesso l’ovatta l’ho tolta, strappata a morsi dalle orecchie,  e lo sento il rumore e sento il silenzio, e adesso che parlarti non posso, perché tu non mi ascolti, questo silenzio è così forte che fa rumore. E visto che l’ovatta l’ho buttata, mi becco il rumore e pure il silenzio. E vivo nel frastuono e sento la mancanza della melodia muta e sono nel silenzio e mi mancan le parole, avevo solo quelle,  che rendevano piacevole la quiete. Indietro non si torna, le persone semplicemente se ne vanno e non puoi dire torna indietro. E se lo dici passi per fessa, e ci passi volentieri quando all’affetto dai un valore che esula dal silenzio e dal frastuono, perché l’affetto alla fine è ritmo, sia che abbia toni alti o impercettibili, ma lo senti e solo quello è importante. Se togli l’ovatta ti godi il frastuono e pure il silenzio.  E mentre tu te ne vai a passi leggeri, io sento il ticchettio che  si fa più lento fino a diventare impercettibile, e allora mi percuoto, e faccio finta di niente e mostro apertamente, così faccio rumore io.