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1985

Io lo so che lei se lo chiede. Lo so, che ogni volta che le metto i 50 euro dentro la fessura, tra le tette, e sistemo la banconota tra le stecche del reggiseno, con cura, lei, se lo chiede.
Spendo cento euro la settimana per vederla ballare davanti a me, sul palo della lap dance. Lei ha imparato a salutarmi con gli occhi, li abbassa per un attimo ogni volta che mi vede seduto al tavolino accanto alla pedana. Mi sorride.
All’inizio aveva provato a parlarmi, lo faceva sicuramente perché il padrone del locale le aveva detto di far così.
“Vai là, gli sorridi, gli dici ciao bello e ci parli. Gli chiedi cosa vuole. E te fai e lui paga”.

Solo che io le ho risposto che bevevo da solo e che mi bastava vederla ballare, anche due volte di seguito davanti a me. Sempre la stessa canzone. Andava benissimo.
Dalla pensione tolgo quattrocento euro al mese, che io ho diritto anche di pensar un pochino al mio bene. Il resto va via per le bollette, la spesa mensile, i fiori da portare in cimitero e i desideri dei miei nipotini. Quattrocento euro ce la faccio a metterli via ogni mese e poi il sabato vado in quel bar. Cinquanta euro finiscono tra le stecche del reggiseno della Olga e son due balli assicurati, il resto va via in gin tonic. Quel che avanza, lo metto da parte. Metti che mi decido a offrirle una cena di pesce in quel localino, fronte porto. Metti.

Ma non mi decido. Per ora mi basta guardarla Olga. Mi sta davanti in reggiseno e tanga bianchi, i capelli biondi lucidi, le labbra rosse, la pelle così chiara. Secondo me, mangia poco. Se fosse a casa mia, qualche bistecca la obbligherei a mangiarla.
La vedo muoversi al ritmo di “Slave to love”. E io mi ripeto in testa le parole della canzone.

“Posso sentire la tua risata
Posso vedere il tuo sorriso
No, non posso scappare
Sono uno schiavo d’amore”.

Brian Ferry la cantava e a Marta, mia moglie, piaceva. Lei aveva la passione della musica e quando la sentiva per radio, era il 1985, lei ballava sempre e io seduto al tavolo della cucina la vedevo ancheggiare con la vestaglia addosso e allora sorridevo, allargavo le gambe, mi mettevo a fissarla e lei ballava e rideva. E io non potevo mica star fermo sulla seggiola con le gambe larghe. Dovevo alzarmi e andare a sfiorarle i fianchi, mentre lei si muoveva e quando si girava verso di me e mi abbracciava, sentivo quella pressione addosso. Ogni abbraccio di Marta era come se un improvviso vuoto pneumatico mi tirasse fuori nervi, sangue, linfa. Tutti, allo scoperto.
Dovevo prenderla e portarla in camera. Erano anni belli, i figli erano al liceo, io cominciavo a lavorare verso le dieci e la mattina a colazione, complice la radio e i Roxy Music, noi ci abbracciavamo e partiva quel risucchio. Facevamo l’amore e se scappava che urlavamo come ragazzini, quello restava un segreto nostro.
E la sera a cena davanti ai ragazzi, non ci abbracciavamo mai, che era pericoloso sempre per la storia del risucchio. Ci guardavamo e ci lanciavamo un’occhiata che voleva dire “Grazie, che mi fai godere”.

Adesso io sto fermo. Sto in questo bar con lap dance nel retrobottega, aperta ogni fine settimana. Ci sono capitato per caso sei mesi fa. C’era quell’insegna, “Roxy”, che mi ha ricordato la canzone che piaceva a Marta. E sono entrato.
Non cercavo niente ma è arrivata Olga, bionda, in reggiseno e tanga bianchi, le labbra rosse, la pelle chiara e mi ha detto “Ciao, se vuoi ballo per te”. E io le ho risposto: “Ok balla, ma non mi serve altro”.
E lei ha ballato, illuminata dal faretto, avvinghiata a quell’insulso palo e intanto si toglieva il reggiseno e le chiappe si muovevano, lente, mentre Brian Ferry cantava che era schiavo d’amore e io mi sono messo a fissare con attenzione quel culo.
Latteo, pareva una burrata gigante, con i piccoli solchi della cellulite che spuntavano ad ogni ancheggio.
Mi son commosso. E ho allargato le gambe.
Il culo di Olga è il gemello di quello di Marta.
E ogni volta che lo guardo io torno al 1985. Prima dei giramenti di testa. Prima della stanchezza che ha tolto a Marta la voglia di ballare. Prima della voce del dottore che diceva che c’era una speranza, piccola, ma c’era.
E invece no.

E così io adesso sono qua al “Roxy” a guardar la Olga sorridermi, abbassare gli occhi, girarsi e ancheggiare, cosciente di portarmi fino alla commozione. Lei pensa che a me escono le lacrime mentre le fisso il culo perché è bella. Io, mentre allargo le gambe, penso che manco sa di averlo un inno alla vita, dietro.

Lo so che Olga ha voglia di chiedere. Perché non pago per andare mezz’ora nel camerino, dopo lo spettacolo? Lei ci verrebbe a casa mia a mangiare una bistecca. Lo so.
Ma a lei manca la coscienza di esser tutto, di aver un inno alla vita incorporato, ad ogni passo. Marta, invece, lo sapeva perfettamente.
E io me vado, con la voce di Brian Ferry in testa.

“Dille che aspetterò
Al solito posto
Con gli stanchi ed estenuati
Non c’è scampo
Al bisogno di una donna
Devi sapere
Come chi è forte diventa debole
E il ricco diventa povero
Stai correndo con me
Non toccare la terra
Siamo quelli dai cuori senza riposo”

Ansia

Secondo me la cosa più difficile quando condividi quello spazio di vita che è il letto, con un uomo, non è farlo godere, ma dormirci accanto. Dormire, dico, mica vegliare.

Intendo proprio il lasciarsi andare al sonno, alla voglia di tepore, alla stanchezza. Raggomitolarsi al suo fianco, senza toccarlo. Sentirne il calore a lieve distanza.  E dormire. Senza controllare nulla del corpo. Risvegliarsi poi come se ci fossi solo tu, ma il tuo io è doppio. Doppio corpo, doppio calore, doppio sonno che si avvita.

Ho sempre pensato che per le donne, dopo secoli di fissazioni, pare, costrizioni mentali, con cui siamo cresciute, senza manco rendercene conto spesso, ed è questo il peggio, ci sia come primo impegno il far i conti con l’atavica paura dell’abbandonarci ad un corpo altrui.

Abbiamo paura di lasciarci andare, in quella cosa così intima che è il sonno. Il sesso? Certo, è intimo, ma come  tutti i giochi, quelle cose fondamentali che svelano chi sei, noi giochiamo e ci piace, perché lo sappiamo che possiamo essere, ogni volta, quello che vogliamo, quello che sogniamo.

Bimbe. Puttane. Esperte. Inesperte. Fredde. Aggressive.

Poi, finito il gioco, si va oltre. L’intimità diventa la condivisione del tepore. Col corpo, stanco e appagato, che reclama silenzio.

Allora spesso si finisce col vegliare. Gli uomini sono come noi. Fragili, pieni di pare. Ma sono abituati a non dirlo e a dormire.

Comunque. Ovunque. Noi, il più delle volte, no.  Li fissiamo al ritmo di risvegli frequenti ogni loro respiro profondo. Giriamo la testa nel buio della camera da letto e li guardiamo. E li troviamo così diversi da quelli che conoscevamo.

Sarà che mia madre dorme pochissimo e si addormenta solo con la tv accesa. Ma si tiene in forma con il suo personale brain training:  individua ogni giorno un difetto nel mio corpo, nel mio aspetto, nel mio modo di essere. Io come reagisco? Rido e me ne vado.

Io da sola dormo benissimo, mai ho sofferto di insonnia. Se divido il letto con un uomo, che ha voglia di restarci tra quelle coperte fino al mattino dopo, che mica è scontato, finisce che lo veglio.

Cado in un sonno leggero. Mi pare di esser andata,  ma in realtà sono sempre lì, aggrappata al cuscino, la pancia trattenuta dal diaframma.

Non si sta male ma non è dormire. E’ come far le vedette sulla collina, lo schioppo in mano e il sonno che bussa e te che ti dici, dentro la testa, io devo star attenta. E controlli. Non lui, ma te. La posizione del piede, della gamba, il respiro…Ti giri e lo guardi dormire, lui, beato, la bocca aperta, le braccia distese sul materasso. E te lo chiedi.

“Ma come cazzo fai a dormire, così, come se non ci fosse  un domani, che son tre ore che mi sei stato sopra e sotto e adesso non senti che ci sono…Che non dormo? Io ci sono, o no?”

E te lo chiedi se stai emanando tepore o se in realtà non ci sei perché sei fuffa, che ne hai piena la testa, e te lo chiedi se la sai la differenza tra l’esser donna e femmina.

Che aver le mestruazioni non basta. Aver il tanga spostato di lato, nemmeno. Succhiargli le palle bene,  non ti rende unica. Hai la pancia e la devi tener indietro. E quando cammini, per strada, te lo chiedi se la gente ti vede normale o grassa. Se ne accorgono gli altri della cellulite.

E pensi che c’è davvero chi li usa quegli occhiali, che li metti e vedi le persone nude, come sono davvero. Esaltatori di difetti. E vorresti uscire di casa con un barattolino di bianchetto in tasca, e cancellarne uno al giorno, di difetti, per 365 giorni. E se hai culo, in un anno ti sei cancellata. 

Sei una che una foto non dovrebbe farsela fare mai, tanto è sfuocata.

 No, non è difficile far godere un uomo, il difficile è dormirci accanto.

Della pioggia metropolitana

Alla fine, bisogna farsela piacere la pioggia. Che sono quattro settimane che piove di continuo, mattina e sera. Non smette, solo cambia di intensità. Prima piove che sembra solo uno spruzzo dall’alto. Poco dopo, guardi dalla finestra e vedi una cascata d’acqua. Fastidiosa, fredda, rumorosa.

Per me l’ombrello non serve, comunque. Mi calco in testa il cappello e me ne vado a camminare. Altrimenti come potrei piangere sotto la pioggia? La pioggia per un uomo è l’unico modo per piangere con dignità, senza passare per un morto di fame a cui la vita toglie qualsiasi gioia.

Gli uomini non piangono, mi diceva sempre mio padre. E quando ero piccolo e mi sgridava, e lo faceva spesso, io speravo che ci fosse, fuori, la pioggia per correre in giardino a piangere. Che la pioggia cadendo sui miei capelli e sulla mia faccia si portava via le mie lacrime e io non facevo la figura di quello che non era uomo, perché piangeva. Crescendo non ho perso l’abitudine. Sarà che di schiaffi lui me ne ha dati tanti, ma io ho imparato che quando piove, ne approfitto, esco solo, con il cappello calcato in testa, e mi metto a camminare. E se ho voglia, piango.

Nessuno se ne accorge perché ho la faccia bagnata completamente dalla pioggia e non si notano le differenze tra gocce. Cammino per le vie del centro, guardo le vetrine, e intanto lascio andar fuori tutto, e se qualcuno mi ferma, mentre passeggio, e mi dice “Ragioniere, ma che occhi rossi ha?…”, tiro fuori la scusa che mi sono raffreddato.

“Sa, sono senza ombrello, mi prenderò un malanno, lo so”, rispondo. Piccole ipocrisie metropolitane, che non fanno male a chi le dice e a chi le sente. Che poi, a pensarci bene, se uno ti chiede se stai male, e magari hai , sotto il cappotto, il fianco trafitto da un colpo di katana, te lo dice così per non passar per insensibile, ma in realtà a lui cosa gliene frega del fianco trafitto. E allora, meglio non scaricare su altri i propri problemi. C’è una piccola scusa e tutti stiamo a posto. Così è per le lacrime, solo la pioggia le rende dignitose. Se lo sapesse mio padre, che quando piove, io approfitto ed esco a buttar fuori i pianti che mi porto dietro per mesi, mi darebbe del coglione. Ma poi apprezzerebbe, ne sono sicuro, che ho scelto un modo elegante, per smettere di essere uomo.

Piove da quattro settimane. Mi sveglio la mattina ed è là che mi aspetta. Rientro a casa la sera tardi, con il passo incerto di chi ha bevuto un pochino troppo, e trovo la pioggia intenta a bussare ai vetri della mia macchina. Mi infastidisce: in questo periodo ho esaurito le lacrime e allora tutta questa acqua mi pare superflua, mi irrita. Odio gli sprechi.

Ho provato a vedere il lato positivo della pioggia. Mi sono detto che lava via tutto, le polveri sottili che si incastrano nell’asfalto nero e pure le cicche buttate a terra che galleggiano fino ai tombini. L’aria pare meno pesante, cambia anche la luce dei lampioni, che diventano meno fastidiosi. Ma è tutto questo grigio che c’è attorno, questo fango che schizza dalle pozzanghere e macchia i cappotti, quest’acqua grigia che infradicia le scarpe, che rende tutto più sporco. Irritante.

La pioggia non mi è amica. Perché io quando piove non ho donne che mi abbraccino. L’unica che ho baciato sotto la pioggia, l’ho sposata e adesso mi attende a casa ogni sera, fastidiosa, fredda, rumorosa. Lei è una primatista dell’arte sottile dell’ipocrisia. Che un marito ed una casa li ha. E le basta poco altro, oltre alla carta di credito con cui fare shopping a metà mese. Ha due passioni, il bridge e la vodka. Quando le prende quella passione lì, quella bianca che pare proprio pioggia, allora fa come mio padre e mi urla contro e mi percuote mentre sono sul divano a guardare l’ultimo tg della notte. Gli schiaffi non mi fanno male. Mi fa male quando mi urla addosso che non sono un uomo. O almeno non sono quello che vorrebbe lei. Come con mio padre ho imparato a stare zitto, a non ribattere. Aspetto che se ne vada, come questa pioggia, che pure lei mi perseguita. Ma sono passate ben più di quattro settimane.

Io la odio la pioggia. Perché c’è Graciela e lei la posso vedere solo quando non piove. E’ una regola che potrà sembrare stupida, lo so, ma l’unica volta che ho baciato e ho pensato che era amore, ho sbagliato tutto. E c’era un temporale pazzesco. E allora se devo amare una donna voglio che non ci sia mai pioggia. Fastidiosa, fredda, rumorosa.

Graciela lo sa, non fa troppe storie. So perfettamente che le manco. Lo vedo da come mi accoglie quando vado a casa sua, che il grigio lascia il posto all’azzurro nel cielo. Io salgo, lei accende la radio e si mette a cantare e mi bacia sull’uscio della porta e mi toglie il cappotto, butta per terra il cappello, e si mette a scherzarmi. “Ragioniere, vuoi che ti faccio contento?”, mi dice. E io ogni volta mi limito ad annuire, la seguo lungo il corridoio fino alla camera da letto, mi siedo sulla seggiola vicino al letto per togliermi i pantaloni e la guardo che si spoglia e poi viene verso di me, per toccarmi. Ed è calda e umida, la Graciela, con quella bocca che pare una caverna. “Che uomo che sei”, lei me lo dice mentre mi sfiora le spalle e mi lecca la schiena e poi cerca con le dita il varco, per farsi strada dentro di me.

 

 

Cinque rose

 

Mi piace il numero 5. Cinque come le volte che ho amato in questa vita. Cinque come i miei 50 anni. Cinque come i biscotti che inzuppo nel caffèlatte al mattino.

Cinque come il numero perfetto per l’amore con una donna. Prima e dopo la cena, prima di mezzanotte, prima delle tre e al mattino al risveglio, ora indistinta , se non devi andare a lavorare. Per arrivare a quelle cinque, deve essere amore, vero. E se è amore, ti devi accorgere dopo ore ed ore che erano cinque.

Che bel numero. Per imparare a scriverlo da piccolo ci ho messo un casino di tempo, che assieme al sette non mi veniva la bella calligrafia. Ma il sette non mi piace, che dopo sette anni esatti mi sono separato e secondo me porta sfiga come le settimane che non mi passano mai. E a dirla tutta, sette in un giorno, di scopate, con una donna, beh o sei un eiaculatore precoce o pure lei si preoccupa.

Cinque va meglio, metà di dieci, e la storia contemporanea la calcolano in decenni e un cinque è un mezzo decennio. Consolante.

Ci penso mentre davanti a me un venditore di rose ondeggia cinque rose. Due rosse, una bianca, due gialle. Amore, amicizia, e il giallo non ricordo, forse gelosia. Belle.

Sono seduto al bancone del bar, davanti ad una  Gordon Scotch. Una pinta, che se è amore vero, c’è solo lei.

Come la donna che ami.

Pensavo al cinque, alla rata del mutuo, alla sigarette quasi finite, fossero cinque sarei almeno sereno, che a tirar l’una ci arrivi, e mi vedo davanti questa mano dalla pelle scuretta che agita le rose.

– “Vuoi, cinque, te le do tutte. Pochi soldi”.

– “Vedi donne qui? _ ribatto senza guardare il mio interlocutore _ Le rose sono per le donne, non per gli uomini soli”.

– “Signore, con un mazzo così la trovi”.

Mi giro a guardarlo questo screanzato, mi tocca far la fatica di alzar l’occhio dal livello della pinta di Gordon per vedere bene in faccia questo sfacciato che dice a me che con le sue rose cucco.

Lo sa chi sono io? No, cosa vuoi che sappia uno arrivato dal mondo degli schiavi. Mangian riso tutto il giorno quelli. E ce l’hanno piccolo. Loro. Se arrivano a sette, porta sfiga. Si sa.

Mi trovo davanti un cappuccio verde di un eskimo usato di quelli che portavo al liceo, quando ero comunista così.

Sotto una pelle splendente, come le olive, marron verde, e due occhi neri. Profondi. Non ci sono cinque là dentro.

– “Cacchio, ma quanti anni hai?”

– “Sedici, signore!”

– “Non raccontarmi palle, al massimo hai dodici anni”.

Gli sgancio cinque euro, mi prendo le cinque rose. Due rosse, una bianca, due gialle. Sorrido, chissà se una donna arriva adesso.

Macché. Siamo quattro gatti spelacchiati al bar.

E poi mi fermo. Che ci fa un dodicenne all’una di notte in un bar della stazione? Vende rose a quattro ubriaconi.

Dodici. Due volte cinque più due. Niente a confronto con i miei 50 anni, dieci volte cinque. Lo osservo con la coda dell’occhio mentre se ne va, il cappuccio calato sulla faccia. Gli ho preso tutte le rose, penso, adesso andrà a casa? La mamma lo aspetterà sveglia col caffélatte e cinque biscotti al cioccolato? O lo aspetteranno a cinquanta metri da qui gli adulti, per dargli altre venti rose da vendere e via andare…Che a un ragazzino mica si dice di no. Basta guardarlo negli occhi, in quel nero. Apri il portafoglio e ti lavi la coscienza.

Perché a me nessuno ha detto niente?

Sono il capo dei vigili, in Comune tutti mi danno del lei. Non c’è foglia che caschi dall’albero che io non senta. Non c’è storia che io non sappia.  E nessuno viene a dirmi, che nel mio Comune, un bambino vende le rose di notte all’una. E soprattutto, nessuno si accorge che è un bambino?

Nessuno si offende, manco il segretario della sezione della Lega Nord che ogni due per tre ( che fa sei, mica cinque, eh) mi manda gli esposti contro i bar dei cinesi e i kebab da asporto che sono covi di malandroni e portano malattie e viene lo scagotto a tutti.

Ecco, tutti con lo scagotto ma tutti ciechi. Manco uno che veda un ragazzino che vende rose nel profondo Nordest, illuminato e avanzato, locomotiva del paese, di notte, invece di star sotto le coperte a sognare di viaggiare in giro per il mondo e diventare ricco. Altro che il Trota.

Ma, visto come stanno le ferrovie, ci credo che succede questo, che siamo una locomotiva cieca, che sta per deragliare e chi ci sale è meglio se si fa il segno della croce.

E io me lo farei comunque il segno, che un paese dove i bimbi non sono di tutti ma diventano invisibili, è un posto marcio.

E io sono il capo dei vigili di un posto marcio. E non ho caffélatte e biscotti, né parole, davanti a questa Gordon, per alzarmi e correr dietro a quel ragazzino e dirgli “ti porto a casa io, c’ho cinque biscotti, cinque coperte, cinque amori che ti potevano fare da mamma”.

Pensavo di valere cinque, valgo zero.

Anatomia di un bacio

I baci sbagliati hanno il suono desolante di uno sbattere di incisivi. Un tempo falsato, forzato da una voglia non condivisa di un’intimità che non c’è, ora o chissà mai.

Se è cercato solo da una parte quel bacio finirà inesorabilmente a trovare una barriera di denti e il colpo sarà netto. Stock!

Labbra schiuse che battono su incisivi superiori. Niente di più triste.

La solitudine fatta contatto.

Dopo ci sarà solo l’imbarazzo del tentativo maldestro, svanito in un colpo inatteso sulla corazza altrui e dall’altra parte ci sarà la sorpresa di aver involontariamente resistito ad una invasione di campo. Spirito di sopravvivenza? Probabile.

Un bacio involontario tra amici, se devia ridendo dalla guancia alle labbra, si ferma lì, si bea dell’effetto cuscinetto. Inoffensivo e soffice.

Se il bacio è invece azione silenziosa ma condivisa,  e lo intuisci eh, che prima c’è uno sguardo che ti fissa obliquo, poi il naso si avvicina e la bocca schiusa ti invoglia, sfacciata e rosea come una pianta carnivora che aspetta solo che l’enzima faccia il suo lavoro, allora, al contatto, morbido, è difficile staccarsi, e da lì cominci  a trovar la strada dell’altro.

Fermarsi diventa impossibile come  il non respirare e il cervello si spegne e, dal basso tuo che è poi uguale al basso mio, arriva l’invito a non mollare. E mordicchiare e leccare è un comando affamato di chi cerca il proprio e l’altrui bene, e lo scambio rende coraggiosi e arditi.

Le protezioni cadono, e non ci sono incisivi a bloccare il passaggio. La lingua cerca la sua strada, tra piroette e passaggi stretti, come un ballerino in una miniera, nera e asfissiante.

E quella screanzata va giù per la laringe e la trachea e  passerebbe oltre. Se ne fregherebbe dei polmoni e punterebbe direttamente al fondo.

Ogni bacio dato e voluto è una immersione in apnea nell’altro. E adesso io e te  siamo solo subacquei in preda alla narcosi.

Mi sa che l’amore, che comincia sempre dai baci stupiti e voluti, è fatto in principio di azoto che si mangia l’ossigeno di cui siamo fatti.  E se continui a parlarmi, guardarmi, sorridermi così, io ho solo voglia di fondo.

E allora salvami, per favore, mettici di mezzo i tuoi incisivi, così evito di perdermi.

L’unità di misura

L’unità di misura della felicità, secondo Aldina, sta tutto nel conteggio dei vuoti e dei pieni. Il vetro a rendere si conteggia a metà, mi ha detto stamattina, mentre l’aiutavo a piegare le lenzuola che doveva stirare. Se ti tocca rendere, non è tuo del tutto e quindi la felicità anche se c’è ti tocca restituirla, mi ha detto.

Questione di vetri, mi ha spiegato la Aldina, figlia di un serventino di un maestro vetraio di Murano, sposata al postino di Pellestrina, uno figlio di matti, si dice dalle parti mie.

La felicità, mi dice l’Aldina, piegando il lenzuolo con mosse sicure che mi obbligano a fissarle le mani, per non sbagliare, è questione di vetri e allora se vuoi capire quanta ne hai avuta in questa vita, ti tocca contar i vuoti e i pieni. Un vuoto: meno uno. Un pieno: più uno. E via a contare.

“E riesci a tener il conto?”, le ho chiesto fissandole le mani che veloci, comandavano la piegatura.

“Certo, sono anni che mi scrivo tutto in un libretto nero, che tengo nel cassetto del bagno. Lì è difficile che qualcuno vada a guardare con attenzione”, mi dice lei.

Torno a casa con in testa questa storia dei vuoti e dei pieni e mi distendo sul letto che ho un pochino di stanchezza addosso, che a me il rumore del vaporetto in navigazione, con quel uuuuuuuuuu di fondo, metallico, mi mette sempre sonno. Il vaporetto mi fa lo stesso effetto dell’aereo in fase di decollo in pista. Mi addormento.

Io riesco ad appisolarmi sulla spalla di chiunque, sia un vecchio in Loden verde sul battello per piazzale Roma che la signora con il capello cotonato e il tailleur finto Chanel, color cipria, sul volo per Roma. E mi spiace sempre, dopo, all’arrivo, scoprire di aver dormito della grossa sulla spalla di un finto Chanel o di un Loden originale, che ho sempre paura, io, di prendermi libertà non concesse come il lasciarci, su quelle spalle, la scia di bava del sonno dei giusti. A casa mia, sono sempre i bambini, i giusti. Anche se hanno novant’anni. A casa di altri non so mica chi sono. E di conseguenza, spero sempre di non dormire.

Distesa sul letto mi sono immaginata la mia felicità come una pila di bicchieri, di quelli fighi, lavorati a mano, di vetro colorato, che hai paura di romperli solo a toccarli.

Ma per misurar la felicità sono perfetti. La vita, se è tua, non puoi accontentarti di contarla in vetri opachi dell’Ikea, fatti dai cinesi. Io contro i cinesi mica ci ho niente ma vivo nella città del vetro a soffio più famoso del mondo e fin da piccola, fin dalla prima volta che sono entrata in una vetreria con la gita scolastica, e ho visto quelli che soffiavano nella palla appena uscita dal forno e poi il maestro che la modellava e tirava fuori un cavallino, ecco, io ho pensato che dentro il vetro c’erano i respiri delle persone e non crederò mai che una macchina industriale, per quanto veloce,  sappia darmi la stessa cosa.

Ovvero il respiro.

Ecco, la Aldina c’ha ragione, mi dico adesso. Perché nel conto del pieno e del vuoto per misurare la sua felicità, lei, figlia di un inserviente di vetreria, di sicuro, anche se non me lo ha detto, ci ha messo dentro pure il peso dei respiri suoi e di chi ha amato o ha odiato.

E nel conteggio di vetri e respiri, con l’occhio guardingo nel cercar di evitar di rompere la pila di bicchieri preziosi, sta tutto lo sforzo della mia e sua vita passata a cercar il meglio e lasciar andar il peggio, senza farsi mai troppo male, che con il vetro, si sa, ci si può tagliare e i segni restano. E alla vista delle mie cicatrici, penso che il conto giusto deve tener conto anche dei segni che i vetri, saltati in aria, ti lasciano sulle mani e sul corpo, e sotto pelle, nei muscoli e  nei pensieri. Che il dolore ci cambia, sempre.

E così, distesa sul letto, sto circondata da bicchieri, bianchi, verdi, rossi e blu. Tanti pieni e altri vuoti. E mi tiro su per contarli e i pieni li ho annusati e ci ho sentito dentro l’odore di chi ho amato e mi ha fatto del bene, senza voler niente in cambio. E in quelli vuoti ho sentito l’odore della mia paura e dei miei sbagli. Mica pochi, ma il numero, no, non lo dico. Lo scrivo nella prima pagina del taccuino nero. Io sono brava a far di conto e penso che la Aldina sarebbe contenta se fosse qui.

Avrebbe uno sguardo di orgoglio.

Lei che, mentre piegavamo le lenzuola, me l’ha detto, e io non ci ho fatto subito caso. In mezzo a tutti questi bicchieri, pieni e vuoti, io mica mi sento sola. Che nel vetro ci sono le voci, mica solo i respiri, e le parole giuste e sbagliate. E visto che le ho dette, io adesso ne sono gelosa.

Senza età

Ci sono amori piccoli, che li tieni dentro il pugno della mano e li puoi dimenticare nella tasca interna della giacca e se un giorno, togliendo i biglietti dimenticati dopo anni,  li ritrovi, manco te ne accorgi che li stai buttando nel sacchetto degli stracci con quella giacca dalle maniche consumate. Perché non sono rimaste manco le briciole a indicare la strada.

Ci sono amori pesanti, che ci hai perso tempo e mesi e parole, e non hai messo manco un punto. Non hai fatto una pausa, ci hai investito un ruscello di esclamativi e ti sei modellato ad immagine e somiglianza. E quando li rivedi, dentro la scatola delle scarpe strette, quelle che non metti mai perché ti fanno male ai piedi,  li senti fastidiosi, fatti come sono di silenzio sordo. Li scuoti per sentire se fan almeno rumore, come i  sassi, ma sono frasi afone, che si sono perse nello sciacquone degli egoismi.

Ci sono poi gli amori lievi, che ci hai messo un sacco di virgole, hai badato alle pause, il tempo che ci sta tra un ti voglio e un ti amo, e li hai farciti con la siringa del desiderio, fregandotene della tranquillità del possesso. Li tieni nel cassetto del comodino, vicino al letto, perché lì hanno spazio per respirare. E ogni tanto lo apri quel cassetto e ne senti il profumo e te ne freghi della costrizione, ti basta annusare quel desiderio, intatto e leggero, che sale su e te lo ritrovi tra le mani. E se sei sfrontato lo fai volar come un aquilone, che è tutto bene, e ti pare di mangiare pane e liberazione. Ti senti senza età come la volta che hai baciato, goduto, ti sei dato per la prima volta.

I provvedimenti del caso

“Rossaaaaaaa! Vedi che adesso ti fregano? E ti mettono in cella con me. Te l’ho detto… non ti conveniva parlarmi”.

Gino Frescobaldi, da dietro le sbarre, nella sala grande dell’aula bunker, scoppiò in una fragorosa risata. Il pubblico del processo a suo carico per vent’anni di associazione a delinquere di stampo mafioso, si girò verso la gabbia dei detenuti. Lui sfidò lo sguardo di tutti e tutti girarono la testa, di scatto, intimoriti, cercando la protezione della corte.

Il giudice Sangrilà stava parlando e per sovrastare la risata di Frescobaldi, dovette mettersi ad urlare. La corte, disse sbattendo il pugno sul  tavolo,  non aveva permesso alcuna ripresa e tanto meno interviste ai detenuti nella pausa del processo e quindi quei giornalisti, visti dalle guardie carcerarie intervistare il boss, dovevano essere tutti identificati dal maresciallo dei carabinieri per i provvedimenti del caso.

Frescobaldi salutò l’annuncio del giudice, ridendo di nuovo e voltandosi per prendere in giro a distanza Sandra Franti, la giornalista della tv privata Canale 99. Lei nel frattempo, nervosa, cercava di nascondersi tra il pubblico; il microfono portatile dentro la borsa.

Sandra era andata spavalda verso di lui, nella pausa del processo, per chiedergli cosa pensava del pentimento del suo ben più famoso compagno di scorribande in giro per il Veneto, il Marco, il boss dell’unica mafia non meridionale che si sia mai vista in Italia. Strano posto il Veneto. Tra polenta e scampi crudi, mentre si dava dei terroni ai napoletani che  lavoravano a Porto Marghera con le paghe conglobate, ci si era ritrovati a convivere con una mafia casalinga, mica foresta, nata nelle campagne tra Padova e Venezia, alimentata da fiumi di eroina e cocaina da piazzare per i festini tra Porsche e prosecco; praticata con il gergo della campagna e i continui favori del capo verso i compaesani più poveri. Prestiti, telefonate a medici compiacenti per facilitare una visita e posti di lavoro presso la rete di imprenditori taglieggiati.

Tanto che alla fine i vicini di casa, il Marco lo consideravano un santo, meno ammuffito e più immediato di Sant’Antonio da Padova.

Ma per ogni beneficenza, dagli anni Ottanta, in cambio, c’erano state rapine, rapimenti, omicidi, traffici di droga, estorsioni, vendette.

E il Veneto aveva scoperto, oltre al sesso a pagamento, pure il crimine.

Frescobaldi davanti a Sandra aveva fatto il duro. Aveva stretto gli occhi che erano diventate due fessure. “Sai cosa meritano le galline? _ le rispose evitando di guardar il microfono che lei gli puntava contro _ Di essere inculate. Beh aspetta che esco da qui, e vedi, rossa,  come me la inculo quella gallina”.

Poi non disse altro. Altri giornalisti avevano visto la Franti intervistare Frescobaldi e si erano lanciati per non perdere l’occasione, ma lui davanti alla decina di microfoni e telecamere che gli erano piombati addosso, disse alle guardie carcerarie che lo stavano infastidendo.

“Sandra è meglio se sparisci. Passa per il bar e vai via che oggi hai già fatto abbastanza casino qui”.

Il commissario Santi si era seduto dietro a Sandra e le  aveva appoggiato la mano sulla spalla. “Vai via, per favore”.

Lei si girò di scatto. Stava pensando alle parole del giudice e agli occhi chiusi a fessura di Frescobaldi.

Dicevano in questura che quando il Gino appoggiava la mano al fodero della pistola faceva così. Rideva e stringeva gli occhi. Guardava avanti a sé da due fessure. “Appena tocca il fodero, sei morto”, le aveva detto un amico poliziotto, oramai in pensione.

Risata, fessura, bang, morto.

A Sandra quella sequenza metteva i brividi e gli sembrava che i capelli sulla nuca gli si erano alzati per la paura. Quando vide lo sguardo affettuoso di Santi che le diceva di sparire, lanciò una occhiata a Michele, il cameraman, e si diresse senza indugi al bar.

Ma non prese niente, passò dal retro, corse verso la macchina della tv e mise in moto. “Via, in redazione”, disse a Michele che la guardava allibito. “Se restiamo qua, ci denunciano”.

Due settimane dopo in redazione, sul tavolo di Sandra la segretaria lasciò una lettera.

Il mittente era uno studio legale di Noventa Padovana. Sandra lo conosceva perché era lo studio che difendeva Frescobaldi e quelli della sua banda. Dentro la busta,  due fogli. Sul primo poche righe, scritte a penna, dall’avvocato Andreasi.

“Le invio una missiva per conto del mio assistito. Le chiedo di non renderla pubblica, visto che si tratta di comunicazioni di carattere personale. In caso contrario, saremo costretti a prendere i provvedimenti del caso”.

Era la seconda volta in due settimane che Sandra sentiva quelle parole.

I provvedimenti del caso. Ma il caso inteso come evento fortuito, senza motivazioni, quando hai a che fare con giudici e avvocati significa solo denunce e cause. Sandra pensò a come certe parole, quasi avventurose e piene di ipotesi, servivano solo a far intendere la certezza di una sequela infinita di casini, udienze e spese legali. Odiava il “formalese”. La chiamava così la lingua dei burocrati. Paroloni, ridondanti, gonfi di aria, usati solo per fartela pagare.

Prese il secondo foglio, era bianco. Non c’era scritto niente.

Ripensò alla risata di Frescobaldi. Fessura, bang, morto.

La stava prendendo in giro. Rimise i due fogli nella busta e la gettò nella borsa. La sera a casa, dopo cena, si ritrovò ancora tra le mani la lettera dello studio legale. La lesse di nuovo e girò il foglio bianco tra le dita. Frescobaldi le aveva mandato un avvertimento. “Mi vuole dire che non scriverò più”, pensò. Non si sarebbe lasciata intimidire, per così poco. Il giorno dopo avrebbe parlato al direttore, avrebbe pure chiamato il commissario Santi per informarlo e poi avrebbe telefonato ad Andreasi per dirgliene quattro.

Si sentì così più rilassata, prese una sigaretta e la accese usando il fuoco della candela alla citronella, che stava sul tavolino del salotto, e nello sporgersi con il foglietto in mano, per accendere la sigaretta, ebbe l’intuizione.

Mise la carta davanti alla fiamma. Era inchiostro simpatico. La calligrafia di Frescobaldi prendeva forma. Lui le aveva scritto usando una sostanza trasparente, del latte o del limone. Come si faceva da bambini, quando ci si doveva passare i segreti. Davanti alla fiamma, cominciò a leggere.

“Mia cara signora, scribacchina da due soldi, ho visto, grazie alle guardie, la replica del servizio che lei ha fatto durante il processo.  Non ho visto traccia della mia intervista. Evidentemente, la sua redazione ha pensato di portare rispetto al giudice e di non mandarla in onda. Peccato.

Marco doveva sentirmi. Io, prima o poi, me lo inculo. Col ferro.

E lui lo deve sapere mentre si sta gustando i suoi scampi crudi da qualche parte. Lei ha fatto la figura della donna per bene, che  rispetta le regole, mia cara signora dai capelli rossi. In altre occasioni la inviterei a cena per spiegarle che le regole sono inutili. Le fanno sapendo che saranno aggirate. Tanto vale, fregarsene.

Le metterei davanti, tra il piatto e il bicchiere, il ferro e le chiederei di ripetermi, guardandomi in faccia, che sono uno spietato, come ha detto nel servizio. Anche Marco lo è, solo che lui ha trovato il mezzo per esercitarsi senza sporcarsi le mani.  E adesso che si è pentito, si sente amato. Per me la cattiveria è un lavoro. Il ferro per me è come la macchina da scrivere per lei, signora. E’ un mezzo. Per intimorire, convincere, parlare, avere. 

Io con l’amore mi ci pulisco il culo, signora. Quindi la sua morale del cazzo, se la tenga per lei. 

La pietà l’ho persa, trent’anni fa, quando hanno ammazzato mio fratello, solo perché non aveva pagato la sua dose di eroina. L’ho visto morire senza un gemito, senza un ciao, senza un per favore, no. 

Andai da Marco e gli dissi che sapevo sparare, lui mi mise subito alla prova. Mi mandò in strada e mi disse di uccidere il mio cane. Io strinsi gli occhi e sparai. Neanche lui, Bubo, ha avuto il tempo di dire per favore, no. E’ lavoro, i sentimenti non c’entrano, signora. Quindi neanche a lei darò il tempo di chiedere per favore, no. Queste righe restano su questo foglio. E se le vedo altrove, prenderò i provvedimenti del caso. 

Cordialità

Gino Frescobaldi.

 

Sandra stropicciò la lettera tenendola stretta dentro il pugno e spense la fiamma della candela.

Risata, fessura, bang, morto.

(post scriptum: nomi e storie sono di pura invenzione, il Veneto malavitoso degli anni  Ottanta invece  è una realtà) 

 

L’amor proprio

Cara Ludovica,

quando leggerai queste righe io sarò già bella che andata. Ho lasciato sul letto il vestito marrone, quello con le spalline strette. Usa quello per vestirmi, tanto nella cassa mi dovete mettere e allora che si faccia, almeno, una porca figura.

Per favore, evita di mettermi le calze che anche se è inverno, la mia pelle sente solo l’estate. Evita di guardarmi, tra dieci anni, quando mi tireranno fuori dalla terra, se avrai l’orribile idea di farmi seppellire, dimenticando quello che io volevo. Ci saranno solo le mie ossa dentro quella cassa e non sarà un bel vedere.

Ti ricordi nonna Pina? Io c’ero quando l’hanno riesumata per spostarla nell’ossario. Era tutta raggrinzita con quelle calze di seta pesanti, che a lei piacevano tanto, color fumo di Londra, e il reggicalze nero. Nonna diceva che una donna era femmina, solo se lo indossava ogni tanto.

Io, di nonna, ricordo ancora i denti, tutti perfetti; non si sono consumati manco dopo 25 anni, tanti ne sono passati, quella volta, prima che mi apparisse davanti ossa e calze.

E visto che mi sono sempre sentita femmina senza, prima, non vedo l’utilità, dopo.

Mia anima, per favore, scuoti il capo, se diranno cose che non voglio sentire dire, e ricorda a tutti che io ho già deciso. Evita ai tuoi occhi sia la visione del mio corpo, quando mi avranno trovato senza fiato, sia la scellerata idea di mettermi a marcire nella terra, che mi è certo congeniale, e te lo sai , che mi sei sorella. Evita l’imbarazzo di un funerale vistoso con incensi e croci, che non ci sono tunnel a chetarmi, credimi.

Fammi ardere, che almeno resto al caldo. Che ho passato la vita a scaldarmi e perdere pezzi, lasciati dentro a comodini di case spesso estranee, alla ricerca di qualcuno che avesse la voglia di ricomporre il puzzle e appenderlo in salotto, per rimirarlo intero.

Ne sono certa, mancherebbe sempre un pezzo.

Io dell’amore ho avuto così tanto rispetto che mai ho puntato i piedi e mi sono sentita niente al suo cospetto e non ho chiesto e ho lasciato che chi voleva entrare, entrasse, e chi voleva uscire, uscisse.

Stamattina, alla radio, uno psicologo, manco ricordo il nome, diceva che l’autostima si alimenta fin da piccini, con le parole dei nostri genitori. E allora mi sono messa a cercarla, dentro di me, la stima, tra il pancreas e il colon, e quella non rispondeva ai miei richiami.

O era sorda o se n’era andata.

Poi mi sono detta, che se era fuggita via, sbattendo la porta, la sorda ero io. E se si era persa nei tanti pezzi di me che ho regalato in giro, non sapeva più darsi manco un nome.

Io, bimba cresciuta, guerriera stanca, mi sono persa nel cercar l’amor proprio, tra i pezzi masticati e leccati. E la camminata è diventata corsa frenetica e ho sentito, assieme al rintocco della vena della tempia, la voce di colei che dice che sono tutta  sbagliata e la carezza, carica di pena, di Piero, che non ha mai saputo tenermi.

E, sudata e fredda di mio, ho messo un piede dentro la vasca e ho aperto l’acqua calda.

Mi sono stesa e ho preso la boccetta dei sonniferi. Per deglutire le trenta pastiglie, ho scelto un Traminer aromatico. Non si dica che mi manca lo stile.

Per sicurezza, ho tirato anche un colpo di lametta sul braccio.

Mi sono rimessa a cercare e nella corsa mi sono addormentata, guardando il rosso del mio sangue fuoriuscire da me. E’ l’ultimo pezzo che va via.

Te  lo scrivo prima, che ho tutto in testa, come un filmato visto e rivisto, e fermato in ogni frame in sala di montaggio dal regista, per capire dove migliorare.

Solo che stavolta  si va via lisci, con la telecamera fissa sul rosso.

Te  lo racconto, prima di lasciarmi andare, perché voglio evitarti di vedere. Se te lo racconto io, sembrerà solo una delle storie che mi  piace raccontarti per farti addormentare. Te ti risvegli, io no.

Per ordine del partito

Avevamo organizzato tutto, per bene. La gelateria era bellissima, un posto dove i ragazzi del quartiere potevano stare ogni sera in compagnia, mentre i genitori andavano a ballare il liscio. C’era la Coca cola, due tipi di birra alla spina per i più grandi. Avevamo già dato tutti i nomi alle coppe di gelato: c’era la Berlinguer, panna e cioccolata. La Cuore, dedicata al meraviglioso inserto de L’Unità, con il melone, le fragole e il curacao, quella sostanza azzurro puffo che mai ho capito bene a cosa serviva davvero. Dicevano che era perfetta per i cocktail e allora io dissi alla Rina, la più grande del gruppo, che dovevamo anche inventarcene qualcuno per i clienti più esigenti, che anche se stavamo in campagna, ed eravamo tra compagni, ci voleva un tocco di classe.

Allora mandammo a cercare il Mirco, per il test.

Un mese prima avevamo organizzato una festa di quartiere, due giorni di musica e bar a prezzi popolari, e avevamo testato così l’organizzazione della gelateria. Solo che la festa era contro gli spacciatori e quelli arrivarono di notte a bruciarci il tendone.

Un avvertimento, dissero alla sezione “Di Vittorio”. Ma dopo un mese e con i preparativi della festa alle porte, oramai non ci pensava più nessuno agli spacciatori e alle lamiere bruciate del bar dei “ bocia”. C’era la gelateria da allestire e mio padre, segretario della sezione, girava per il tendone scuotendo la testa.

“Chi fa le notti, pure qua?”.

“Noi”, gli urlai contro mentre controllavo lo scatolone con gli ombrellini di carta per le coppe di gelato. I ragazzi applaudirono con un urlo: “Sìììììì, facciamo noi la prima notte. Saremo svegli e attenti”, urlò Dante, contento come una Pasqua.

Le notti erano i turni di guardia per presidiare l’area della festa dell’Unità, quando era chiusa. Ogni anno la sicurezza veniva aumentata, sempre senza spendere un soldo perché si lavorava gratis, per la Gloria, si diceva. E tutti a chiedersi se era figa, poi,‘sta Gloria.

Si aumentava ogni anno la sorveglianza perché dalla cucina, di notte, sparivano baccalà, pacchi di farina, il pesce custodito nelle celle frigo. Pure le damigiane si erano fregati.

“Te vai a casa con tua madre”, fu la risposta di mio padre.

Ci volle una serata di pianti a dirotto e implorazioni per convincerlo che la prima notte di guardia alla gelateria l’avremmo fatta noi ragazzi, tutti e dieci, nessuno escluso. Età media, 15 anni. La Rina, pochino di più.

“Sì, va bene. Ma dovete comportarvi bene, capito?”. Mio padre era uno dal cuore d’oro e dalla parlata ringhiosa, che andava ascoltato; sapeva farti male senza neanche far partir lo scapaccione sul culo. Solo l’idea che lo schiaffo era in arrivo, nell’etere, bastava a provocar dolore.

“Giuro che saremo bravissimi, papà”, promisi con il miglior sorriso.

Alle 18 del giorno di inaugurazione, arrivò il Mirco, giubbetto di jeans, e pantaloni stretti, in bicicletta.

“Uhe, compagni. Prossima settimana parto, vado alle Frattocchie. Compris? Sì, vado alla scuola del partito, si cucca un casino eh. E poi divento dirigente nasionale”. Mirco era un piccolo mito, per noi ragazzi della FGCI, che non era la federazione giuoco calcio, ma la federazione dei giovani comunisti. Dei figli dei comunisti. Noi eravamo rimasti intatti.

Mirco aveva vent’anni, chiamava tutti compagno e compagna, era eccentrico e alto una spanna, con la camminata da spaccone e il cuore d’oro. Amava le donne più di se stesso, e si sacrificava per la causa del partito.

Tutti lo vedevano passare e pensavano al furto, da lui ordito, alla  manifestazione studentesca dello striscione degli anti-social. Al corteo seguente, volarono pugni, finché il Mirco e lo striscione non vennero lanciati in campo San Geremia dentro l’ala controllata dagli autonomi. Lui si sacrificò, mormorando solo “Viva el Che”.

“Cosa devo fare?”, ci disse appena arrivato dentro lo stand della gelateria.

“Assaggiare. Che te ne sai”, rispose la Rina, con la shaker in mano.

E cominciò la prova generale dei cocktail da scrivere sul menù.

Paietta, rhum e cola. Poi tutti lo chiamarono Cuba libre.

Ingrao, vodka lemon.

Internazionale, curacao, southern confort e arancia.

Mirco assaggiava e diceva che andava bene, al primo colpo. Rina shakerava e aumentava le dosi. Lui gustava, di nuovo, con posa da sommelier esperto e diceva: “Aumenta un attimo ed è perfetto”.

Io, nel frattempo, gestivo la distribuzione di coppe Gelato e c’era il rosso, la teppa del quartiere, appollaiato al bancone a fissarmi senza parlare, e io mi sentivo per la prima volta femmina, non donna, che é un’altra cosa, ma allora capivo solo la sensazione, non il significato.

E la Rina mi dava di gomito, dietro il banco.

“Al rosso, cavoli se piaci”, mi diceva e io la guardavo strana: “Ma, se non mi parla”. La Rina, allora, smetteva di shakerare e mi fissava: “Sì, ma el varda. E dove xe ben”.

La prima sera scivolò via, tra errori e risate, occhiate del rosso e commenti etilici del Mirco. A mezzanotte, crollammo tutti spossati sulle seggioline dello stand. “E’ andata, adesso tutti svegli, eh, che abbiamo una notte di guardia da fare”, dissi ai ragazzi.

Il rosso andò silenzioso, come era venuto, scopato via assieme alle immondizie della chiusura.

Mirco, ubriacato dalle pozioni della Rina, stramazzò su una panchina.

Mio padre, arrivato per l’ultimo controllo, prima del rientro a casa con l’incasso della festa, lo guardò dormire e sentì dentro un moto di affetto.

“E’ stanco il compagno? Deve aver lavorato tanto”, disse.

E noi, annuimmo, trattenendo paura e risate.

Poi lo guardammo, il Mirco che dormiva con la bava alla bocca. Noi quindicenni avevamo sonno quanto lui, non capivamo mica chi ce lo faceva fare di restare tutta una notte svegli a far la guardia al campo della festa, noi eravamo bambini, figli di comunisti che le ferie le usavano per far la festa dell’Unità e dopo dieci giorni finivamo intontiti a sentir nelle orecchie solo Inti-Illimani e  liscio che non ne potevamo più, di charango e zumpapa.

Perché la notte? Per esser grandi e liberi, per sentir che contavamo. Restammo tutti e dieci e per sconfiggere il sonno, Niccolò, figlio del Gino e della Ida, lanciò l’idea. “Perché non giochiamo a rugby nel campo? Come palla, usiamo i meloni”.

E così alle due di notte, nel campo della festa dell’Unità iniziò la sfida. Ragazze, cinque. Ragazzi, cinque. Mirco, squalificato per manifesta incapacità. Obiettivo: fare meta allo stand della cucina.

Passa e corri, passa e lancia, ocio, spetta, varda mona, tira qua, tira là, ridi e scherza. A correre con il melone sotto il braccio, avanzato dopo una serata di coppe gelato con la frutta, ci sentivamo tutti bimbi felici.

Un passaggio eccessivamente veloce di Niccolò, intercettato dalla Rina, portò allo schianto del melone al suolo, con conseguente squarcio, e risate di condimento. Non avete mai visto un melone esplodere? Non potete capire. Ci ritrovammo in centro al campo, in dieci, a ridere a crepapelle, tutti sporchi di pezzi di melone e finimmo in gelateria a bere, che avevamo sete, ma l’unica cosa fresca era la birra rossa e andava giù che era una meraviglia. Era agosto e faceva caldo.

 Mettevamo ad ogni giro pure i soldi in cassa, che eravamo figli di compagni e non si mangia e non si beve a scrocco, al massimo ci si fa lo sconto. Di sete ne avevamo  così tanta che Mirco ci svegliò la mattina dopo alle otto e noi eravamo tutti stesi a terra, dentro la gelateria, abbracciati uno con l’altro. E lui urlava e noi non sentivamo. Eravamo felici dentro, ne sono sicura. Ci sentivamo compagni, figli di compagni, parte di un qualcosa di vero e che si toccava con mano, e se passava per Guccini e gli Inti-Illimani, valeva la pena.

 Quella notte rubarono tutte le costicine. Entrarono nel campo e si portarono via la carne dal frigo, mentre noi ci riposavamo dopo la partita a rugby col melone.

Nessuno di noi ammise il gioco, ma i pezzi di melone e il fusto di birra finito, ci giocarono contro.

Da quella notte, per ordine del partito, ai ragazzini le notti di guardia in festa furono vietate.