Archivio Mensile: Settembre 2009

La volta che la Marisa cadde di culo

La Marisa comparve prima che potessi sentire il rumore del suo passo arrivarmi alle spalle. Me la trovai dietro all’improvviso. Due minuti prima ero alla fermata del bus, pacifica e serena. Un attimo dopo mi guardavo i piedi quando sull’asfalto, alle mie spalle, vidi netta l’ombra deforme da barbapapà.

Non feci neanche in tempo a girarmi per capire cosa era, che partì il primo ceffone. Fortissimo, una staffilata netta sulla guancia destra che scottava come quella volta che avevo scoperto che il ferro da stiro se te lo posi sulla faccia, acceso, brucia.

Ecco ricevere uno schiaffo dalla Marisa, era come beccarsi in faccia un ferro da stiro.

Con la guancia ustionata, cacciai un urlo, mi portai la mano alla faccia e poi aprii l’unico occhio che mi era rimasto sano per vedere chi era il responsabile di cotanto male.

La vidi

Enorme. Aveva una pancia che sembrava viver di vita propria, la Marisa. 

Vidi prima la pancia, poi lei. Una enorme massa gelatinosa che sporgeva dai jeans. Portava la cintura, le pance sembravano due.  Io non riuscivo a staccar gli occhi da quelle due pance, gonfie, che ballonzolavano ad ogni passo e che mi venivano lentamente addosso. L’occhio che fissava quel doppio sobbalzo, le fece montar la rabbia. 

Come tutte le ragazze obese, si incazzava perché non riuscivo a spostare l’occhio dall’effetto ipnotico di quel movimento gelatinoso, e quando mi ripresi, era troppo tardi. 

Lei mi respirava addosso. 

Aveva i capelli corti, troppo ricci, che donavano alla sua capigliatura la forma del fungo, aveva la faccia larga, con una bocca che sorrideva sguaiata e gli occhi piccoli e cattivi. 

Il rossetto ciliegia sulle labbra enormi, conferiva al suo viso un aspetto invecchiato, non dimostrava mica 17 anni. Aveva due anni più di me ma sembrava mia zia. 

Ora mi stava addosso. Strofinava le mani come se avesse voglia di tirarmi un altro schiaffo. Alla mano destra portava qualcosa che sembrava un guanto di lattice, e con l’occhio solo che mi era rimasto, mi misi a fissare quell’arto grosso come una paletta per le pizze nella speranza di schivare il prossimo colpo. E mi ritrovai stupita a fissarle la mano. Anulare, medio e indice erano infilati in tre lunghi cappucci, simili a quelli che il Gino mi mostrò quella volta che eravamo rimasti a casa da soli e lui voleva che lo toccassi in mezzo alle gambe.

La Marisa si allontanò da me come se all’improvviso le avessi fatto schifo e cominciò a vantarsi, a voce alta, di esser donna, di saper del sesso più di quel che noi, adolescenti liceali, potevamo intuire dai discorsi di mamma e papà. Lei ogni anno collezionava una raffica di fidanzati, tutti militari di leva alla caserma del paese, dicevano le mie amiche che avevano avuto già a che fare con lei.

La Marisa diceva che sapeva usarli bene quei cappucci, che tutti la volevano e che noi brufolose adolescenti liceali non avevamo neanche un’unghia del suo sex appeal. 

Ogni ragazzina che alla fermata del bus veniva picchiata da lei, raccontava poi che la Marisa prima di farle la faccia gonfia come un melone a suon di schiaffi, per rubar i cinquemila franchi che la ragazzina di turno aveva nel taccuino, e che erano la paghetta settimanale, ti arrivava addosso con le sue dita guantate con i preservativi e si vantava di tutti i maschietti in età da milite che si era fatta. 

Perché diceva, lei era bella, era cattiva e tutti avevano paura di lei. Anche i maschi avevano paura di lei. E tu che la guardavi, non potevi non darle ragione. 

Urlava che non ero niente, io che ero un terzo di lei in termini di densità corporea e non avevo avuto manco un settimo dei fidanzatini che lei diceva di aver avuto e per la paura mi ritrovai ad annuire. 

Aveva fantasia, la Marisa. Ogni volta il suo discorso sul suo esser bella, amata e ricercata da tutti i militari del paese era farcito da un pezzetto di storia in più. 

Stavolta, guardandomi da distante, raccontò di quella volta che prese a schiaffi quattro ragazzine in un colpo solo. Da sola. Poi raccontò del Pippo, il più cattivo del paese, che lei picchiò, disse, a mani nude e lui si innamorò poi perdutamente di lei. 

Poi arrivò l’urlo raccontato dalle amiche passate sotto le sue mani.

 “Tuuuuuuu, non sei niente”. 

E le diedi di nuovo ragione, perché aver davanti un simile molosso con le labbra color ciliegia e i capelli alla Julius Irving mi faceva sentire un microbo. 

Stava nelle cose. 

Tutti al liceo sapevano che lei era la ragazzina cattiva che a scuola non ci andava, perché non aveva voglia di studiare, e si divertiva ad aspettare le ragazzine alla fermata del bus del liceo, quelle che aspettavano il pullman per tornar a casa, per menarle e poi rubar i soldi della paghetta. 

Io, per quello, andavo a scuola il più possibile in bicicletta, che sapevo della Marisa ma mi avevan anche raccontato della fama di sua sorella Giuliana, che come cattiveria era peggio di lei, ma che era finita a lavar mutande e sfornar figli a raffica a vent’anni. Tanto che la chiamavano adesso la Coniglia.

Quindi potete capire bene che quando quel giorno mi son trovata la Marisa di fronte alla fermata del bus ho maledetto il sole, arrivato ad illuminare la fermata dopo una mattinata di pioggia che mi aveva costretto a lasciar la bici in garage. 

E già mi immaginavo il secondo schiaffone, se non aprivo il portafogli. 

Quel giorno avevo in tutto quattromila lire, che mille li avevo spesi per l’aranciata a scuola e così mentre guardavo la Marisa urlare che lei i pompini li faceva così bene che nessuno le diceva di no e che io ero una brufolosa cozza di periferia che mai avrebbe potuto esser donna come lei, e le guardavo i denti storti muoversi dentro la bocca color ciliegia, una tonalità così fastidiosa, mi immaginavo di finire schiacciata a terra, urlante nell’implorare pietà perché non avevo cinquemila lire da farmi rubare, ma solo quattro, e vedevo l’enorme deretano della Marisa schiacciarmi la faccia, mentre ero a terra, dolorante per le botte, e quelle natiche ostruirmi il naso fino a soffocare…

In lontananza vidi arrivare l’autobus, che mi sembrò la diligenza della speranza, e mi dissi che dovevo salirci anche strisciando carponi, sgusciando da sotto le natiche enormi della Marisa che mi stavano schiacciando la faccia e mi misi sul bordo del marciapiede davanti ad una enorme pozzanghera, che quella mattina, come vi ho detto, aveva piovuto forte, e l’autobus arrivava e la Marisa mi urlava nelle orecchie che non ero nessuno, che ero una cozza, che mi dovevo vergognare per i brufoli e intanto il bus avanzava, arancione e con lo sbuffo del diesel dal posteriore, e quando la corriera si fermò alla fermata, la Marisa, arrabbiata come un ossesso, si lanciò in strada per impedirmi il passo verso la salita dalla porta posteriore. 

Ma saltò così tanto che finì con entrambi i piedi dentro la pozzanghera e scoprii cosa era l’acquaplaning: ovvero il galleggiamento di un solido su uno strato liquido. La Marisa nell’impatto perse il passo e la sua enorme scarpa da ginnastica destra scivolò verso l’alto, portandosi dietro il resto. Vidi la bocca color ciliegia modificarsi in una smorfia e l’angolo sinistro del labbro sollevarsi e sentii perfettamente quel ”Orca madonna” uscirle dalla lingua e lanciarsi in aria e poi sentii il tonfo. E in quel momento, preciso, mi dissi che dovevo saltare sul predellino e andare. E saltai. 

E così mentre la Marisa cadeva di culo nella pozzanghera, io, nello stesso momento, saltavo sul bus della mia salvezza.  

 

 

Il custode

Posso scalciare quanto voglio, puntare i piedi, tener il muso al mondo, guardar gli altri con un occhio incazzoso. Non ci sei. 

Non posso schioccare le dita e vederti bussar alla porta con quel mazzo di margherite o girasoli che ti piaceva tanto regalarmi.

Perché non ci sei. 

E manco è colpa tua, con te non mi posso incazzare, se non ci sei. 

Quanta incredibile semplicità c’è in queste tre parole. Se penso a quanto è pesante la tua assenza sulle mie spalle, mi stupisco che tutto si spieghi con quelle otto lettere. E’ tutto lì. 

In otto lettere, l’assoluta negazione della tua presenza nella mia vita. 

Me ne rendo conto, sai, su questa autostrada, in procinto di andarmene. Ma io ritorno, tu no. Non ti è consentito, a me la scelta invece di decidere se ripercorrere questo asfalto grigio all’indietro e tornare a casa. 

So perfettamente riconoscere il punto dove per te si è fermato tutto, ma preferisco uscire al casello prima, per non vedere. Non posso farcela, e non mi consola sapere che io ci sono.   

Ho rivisto tua madre, ieri, erano anni che non ci vedevamo. Ho visto i suoi occhi stupirsi nell’incrociare il mio sguardo sul marciapiede vicino alla piazza. Si è fermata, mi ha salutato e abbracciato, poi mi ha accarezzato. Mi ha detto: sembri ancora una bambina. Non l’aveva mai fatto, lo sai, l’accarezzarmi.  

E io ho sentito un solo bisogno: andarmene.

Aveva gli occhi lucidi, era contenta di rivedermi dopo tanti anni. La tristezza che le avevo visto addosso l’ultima volta che ci siamo viste è diventata come la veletta fumée di un invisibile cappello.

Ho trovato una scusa, la prima e più banale ,e me ne sono andata. 

Vedendola, mi è tornato nitido il ricordo di quel che abbiamo fatto. Quel che lei mai saprà. Era giusto farlo, non mi pento. 

Si doveva fare, solo che poi si vive da ignobili. E noi, le tue custodi, alla fine ci siamo perse e non ci vediamo più. Sta nelle cose. E’ il peso da portare, ne sono certa.

Quando tutto è successo, abbiamo agito da bestie ferite, avevamo la pancia squarciata dalla tua assenza, volevamo solo proteggerti perché tu non potevi più difenderti da solo. Ci interessava solo custodirti.

Abbiamo finito con il cancellarti. 

Ci siamo chiuse in camera tua, dove con te  cantavamo, si parlava d’amore e di sesso, si sognava di girare il mondo e si giocava all’impossibile. 

Sapevamo dove mettere le mani, sapevamo cosa cercare. E il dolore si è fatto urgenza: muoviti, nascondi, togli questo, togli quest’altro. O dio, le foto…via le foto, via le lettere, via tutto. 

Poi, a casa vomitai tutta la notte. Mamma pensava fosse il dolore di averti perso, io sapevo che era anche la vergogna di aver contribuito a cancellarti a far reagire così il mio apparato digerente. Che da allora mi ha punito. 

E così quando ieri ho rivisto tua madre, io mi sono risentita colpevole.  Mi è tornato il mal di pancia e sono salita in macchina. Via, a guidare, non pensare, anestetizzare.

 Tu non potevi più difenderti da solo, dovevamo farlo noi per te.

 

Che scusa del cazzo che è oggi questa, noi dovevamo custodirti ma non cancellarti. Eravamo ragazzine, avevamo paura di quello che sarebbe successo. Temevamo non sarebbero mai venuti a baciare la tua foto sulla lapide, se avessero saputo.

Il risultato è che loro vengono a baciarti tutte le settimane, io arrivo ogni anno a San Valentino davanti al cancello del cimitero e mi vergogno di entrare. 

Porto il peso, cerco di non pensarci ma poi basta un piccolo gesto e ritorno con la mente nella tua camera, seduta sul tappeto davanti ai tuoi album fotografici. Davanti ai tuoi amori.

 Ritorno al punto di partenza, a quando ho contribuito a farti sparire, per proteggere la tua reputazione. Ti avrebbero amato di meno, sapendo?

 Me lo sono chiesta incrociando gli occhi di tua madre, quelli che da allora ho evitato.

Una risposta, ancora non ce l’ho. 

Viviamo tempi difficili, mi sa che siamo stati fregati. 

Tu hai cominciato a dare un senso al tuo bisogno d’amore quando l’Aids era una bestia feroce e sconosciuta. Le lacrime che abbiamo versato in silenzio, al cinema, guardando “Philadelphia”…I baci che poi abbiamo deciso di non negarci mai per batter la paura tutti assieme…Ricordi? Io sì.

Il mondo lo volevamo semplice, rispettoso, permeato di intelligenza. Invece sono tornati i pestaggi, gli schiaffi , le battutacce, i sorrisi di fastidio se sanno che ami in modo diverso dal consentito. 

Ma tu non ci sei e ora te ne puoi bellamente fottere. 

Io, invece, continuo a custodire il tuo segreto e a maledirmi per questo.

 

 

L'uomo che ride

Quando l’ha fatto sono rimasta lì, sotto di lui, stupita. Ho inarcato la schiena per alzar la testa e sentire meglio. Non sbagliavo, avevo sentito bene. Era una risata. 

Mica ho capito subito. Rideva di me? 

Dentro la testa, in quella frazione di secondo che ci mette il cervello a distinguere tra il positivo e il negativo, ammetto che mi è passato davanti, l’ho visto nettamente e quindi posso descriverlo,  un ragazzo abbronzato con gli addominali scolpiti. Indossava solo un paio di  boxer rossi lunghi e teneva alto con le mani un cartello, come i segnapunti delle gare di boxe. Ma lì di solito son donne, è vero…

Sul cartello c’era scritto: “Rivestiti più in fretta che puoi”.

Per una frazione di secondo, avevo pensato ridesse di me.

Poi ho capito. E non mi sono rivestita. 

Sono rimasta a fissarlo mentre rideva,  e mi sembrava di aver trovato l’isola perfetta. Ero come il bambino che passa davanti alla gelateria, si ferma, e appiccica il naso alla vetrina, tenendosi con le mani, per vedere la meraviglia del grande paradiso in terra dei gelati di tutti i colori.

 

No, lui non rideva di me, era solo felice.  

Intimidito dall’aver svelato il suo segreto, subito dopo si è gettato sul cuscino, affondando la testa sulla mia spalla, come a cercar riparo dal mio sguardo e dalla mia faccia sorpresa e divertita. 

Il respiro affannato lentamente rallentava ma  il ritmo in calare era intervallato da piccoli scoppi di risate, sussurrate. Teneva la mano sulla bocca per non farmi sentire.

Non si vergognava, sia chiaro, ma era in preda al giusto imbarazzo che coglie chi svela il suo segreto. Senza manco un termine di preavviso.


Tutti i segreti si portano dietro quel momento di imbarazzo, tanto più se si tratta di corpi e menti che cominciano solo ora a conoscersi. 

E’ giusto così. 

Ci vuole qualcuno con cui condividerlo un segreto, affinché sia tale, e ci vuole quel momento di imbarazzo quando la bocca si apre e parte la voce. 

Se tieni i segreti per te sono solamente dei tuoi ricordi. Sono loro a renderli unici e avvincenti, storie perfette da raccontare.

Se non provi imbarazzo nel raccontarli, rischi di considerare ogni ricordo uguale all’altro, senza valore.

E il segreto più custodito, tra tutti,  è il mostrarsi per quello che si è davvero, quando si smette di parlare e si lascia che siano i corpi a dirsi tutto. 

Non so se lui sia rimasto stupito quanto me, nell’intuire il piccolo mistero, che è anche dentro di me e che io faccio finta non ci sia.

Non lo so, non ho chiesto. Per pudore. 

Io so che mi sono persa in quella risata che esplode e trasforma i suoi occhi grigi in una burrasca di sussulti. 

Un uomo che ride, per dimostrare quanto si sente bene, ora, qui e con me, è uno che ha capito tutto. 

E non gli devo dire niente. Lo devo lasciar vivere come vuole, sperando che la risata torni ad esplodere.

La prossima volta.