Non volevo ritrovarmi qui, in questo letto che è un sarcofago grigio di cotone ruvido, sporcato dalla linfa maleodorante che il mio corpo secerne.
Decubito ergo sum, non cogito, non digito, non coito. Piaghe, puzza, dolore.
Mai avrei pensato che l’esser immobili e insensibili facesse così male. Fuori non sento niente, non muovo niente. Dentro, c’è un mare di male che mi scorre dentro le vene e se ne esce dalle piaghe del mio corpo marcescente e inattivo.
Sento e vedo, ma non muovo. Non muovo le gambe, non muovo le braccia, solo le palpebre sono ancora libere e le pupille roteano e le labbra si muovono cercando di emetter suoni che sono oggi, li sento io, solo tentativi di dialogo. Non una comunicazione reale, ma una emissione stentata, impacciata, come avessi un larsen in gola.
E io che ho sempre pensato di morire baciando e urlando, adesso ho davvero paura.
La mia voce si sta modificando in un urlo bestiale e incomprensibile e temo di morire. Domani. Da solo.
Non ho avuto mai così tanta paura come oggi, che la mia voce se ne sta andando. E con la voce, ho paura, si fermeranno le labbra e la lingua e non potrò più parlare e baciare. Allora sì che sarò un morto con gli occhi aperti.
Sono mesi che temo questo momento. Ogni mattina, prima che arrivi l’infermiera a lavarmi, girandomi a destra e a sinistra come se fossi un baco da seta, senza gambe e braccia, ma pieno di merda putrescente che mi esce dai buchi nuovi che il mio corpo ha formato, io canto.
Lo faccio solo per sentire la mia voce e muoverle queste labbra, per spostar la lingua. Esercizi contro l’ultima paralisi di un corpo che oramai non risponde più. Il mio.
Poi, pulito, aspetto che arrivi mia moglie, e quando lei entra dalla porta, io con gli occhi e questa voce cerco di farle capire che voglio solo una cosa: un bacio, lungo, lento, con le lingue che son velluto che si intreccia. Che diventa canto silenzioso. Senza effetto larsen.
La-la-laaaaa-la-la-la.
Baciami, amore mio, anche se senti la mia bocca che sa di medicina e cloroformio. Che solo se mi baci, io, qui, in questo letto-prigione, mi sento ancora vivo.
Ma tu, amore mio, ti scosti in fretta. Sarà l’odore, sarà che hai paura di farmi soffocare, sarà che temi un rigurgito, ma ti togli subito.
Appoggi solo le tue labbra alle mie, di fretta. Sono fredde. Poi ti vai a sedere a fianco del mio letto e mi guardi, con quegli occhi tristi di chi sa che non riavrà mai un marito e manco più lo riconosce. Vedi solo un baco in decomposizione.
La-la-laaaaa-la-la-la.
Se potessi, amore mio, ti regalerei tutti i baci del mondo e tutte le melodie e le parole inventate e usate e lasciate in giro. I baci rubati e quelli regalati, le lingue vellutate e quelle golose, le canzoni dimenticate e quelle che son finite in cima alla hit parade per un giorno o un secolo. Non fa differenza, perché le canzoni e le parole sono come i baci. Danno ritmo all’esistenza, eliminano i suoni fastidiosi e li riempiono di senso o dissenso. Non importa se è melodia o una steccata. Non faccio più differenza oggi tra un vaffanculo o un ti amo. Riuscire a pronunciarli, è già tanto per me e in questo stato pure la bestemmia diventa un dono prezioso. Così è per i baci, tutti quelli che ho dato.
Ne ricordo tanti. Alla bambina dai capelli castani, con le trecce, all’asilo davanti alla fontana. Alla compagna delle elementari, Emma – sì, si chiamava così – che mi regalava sempre metà della sua girella.
Alla Edy, quella spilungona del ginnasio, tutta gambe e pallavolo.
E poi a Sandra, arruffata e mal vestita, che avevo conosciuto alla manifestazione pro Palestina e che mi aveva prestato la kefia per proteggermi dai lacrimogeni.
A Linda, la prima che mi fece baciare altre labbra, e che non mi volle lasciar solo la notte prima degli esami.
E poi tante anonime bocche che manco ricordo più, in giro per l’Europa quando partii con Edoardo e il biglietto del Inter-rail per la prima vera vacanza da uomini.
E Paola, che mi baciò solo quando promisi che non avrei più mangiato cipolle e aglio e che subito dopo mi chiese quando ci saremmo sposati. Chissà se è ancora lì che aspetta la risposta.
Poi vennero Marta e Rebecca e un’altra Sandra, non più arruffata, ma elegante e chic che baciava solo a labbra strette con un piccolo pezzetto di lingua a disposizione. Di classe ma troppo avara, di testa e di corpo.
La-la-laaaaa-la-la-la.
E dopo sei arrivata tu, amore mio, delicata e sfuggente come una melodia di Satie, con quegli occhi liquidi da ex ragazzina sbandata, i buchi sulle braccia e tanta, troppa fame d’amore. Che potevo fare? Ti ho saziato nutrendoti di baci e musica e con quelli ho riempito tutti i nostri silenzi.
Ecco perché voglio, adesso, subito, senza un se o un ma, manco una titubanza momentanea dettata dallo schifo, tutte le parole e tutti i baci del mondo. Perché in questa immobilità, il silenzio ora fa davvero paura se non ci sono le tue parole e i tuoi baci a saziare me prima che la mia bocca si paralizzi.
Mi resterà, dopo, solo la pupilla che rotea per disegnare in aria le lettere di tutte le bestemmie che conosco e che posso inventarmi, giorno dopo giorno, perché tanto non mi resta mica altro da fare.
E allora, porca puttana, Sonia, alzati da quella sedia e vieni a baciarmi finché ho fiato in gola e una lingua da muovere. Che dentro a questo baco putrido, c’è ancora un uomo.