L’unità di misura

L’unità di misura della felicità, secondo Aldina, sta tutto nel conteggio dei vuoti e dei pieni. Il vetro a rendere si conteggia a metà, mi ha detto stamattina, mentre l’aiutavo a piegare le lenzuola che doveva stirare. Se ti tocca rendere, non è tuo del tutto e quindi la felicità anche se c’è ti tocca restituirla, mi ha detto.

Questione di vetri, mi ha spiegato la Aldina, figlia di un serventino di un maestro vetraio di Murano, sposata al postino di Pellestrina, uno figlio di matti, si dice dalle parti mie.

La felicità, mi dice l’Aldina, piegando il lenzuolo con mosse sicure che mi obbligano a fissarle le mani, per non sbagliare, è questione di vetri e allora se vuoi capire quanta ne hai avuta in questa vita, ti tocca contar i vuoti e i pieni. Un vuoto: meno uno. Un pieno: più uno. E via a contare.

“E riesci a tener il conto?”, le ho chiesto fissandole le mani che veloci, comandavano la piegatura.

“Certo, sono anni che mi scrivo tutto in un libretto nero, che tengo nel cassetto del bagno. Lì è difficile che qualcuno vada a guardare con attenzione”, mi dice lei.

Torno a casa con in testa questa storia dei vuoti e dei pieni e mi distendo sul letto che ho un pochino di stanchezza addosso, che a me il rumore del vaporetto in navigazione, con quel uuuuuuuuuu di fondo, metallico, mi mette sempre sonno. Il vaporetto mi fa lo stesso effetto dell’aereo in fase di decollo in pista. Mi addormento.

Io riesco ad appisolarmi sulla spalla di chiunque, sia un vecchio in Loden verde sul battello per piazzale Roma che la signora con il capello cotonato e il tailleur finto Chanel, color cipria, sul volo per Roma. E mi spiace sempre, dopo, all’arrivo, scoprire di aver dormito della grossa sulla spalla di un finto Chanel o di un Loden originale, che ho sempre paura, io, di prendermi libertà non concesse come il lasciarci, su quelle spalle, la scia di bava del sonno dei giusti. A casa mia, sono sempre i bambini, i giusti. Anche se hanno novant’anni. A casa di altri non so mica chi sono. E di conseguenza, spero sempre di non dormire.

Distesa sul letto mi sono immaginata la mia felicità come una pila di bicchieri, di quelli fighi, lavorati a mano, di vetro colorato, che hai paura di romperli solo a toccarli.

Ma per misurar la felicità sono perfetti. La vita, se è tua, non puoi accontentarti di contarla in vetri opachi dell’Ikea, fatti dai cinesi. Io contro i cinesi mica ci ho niente ma vivo nella città del vetro a soffio più famoso del mondo e fin da piccola, fin dalla prima volta che sono entrata in una vetreria con la gita scolastica, e ho visto quelli che soffiavano nella palla appena uscita dal forno e poi il maestro che la modellava e tirava fuori un cavallino, ecco, io ho pensato che dentro il vetro c’erano i respiri delle persone e non crederò mai che una macchina industriale, per quanto veloce,  sappia darmi la stessa cosa.

Ovvero il respiro.

Ecco, la Aldina c’ha ragione, mi dico adesso. Perché nel conto del pieno e del vuoto per misurare la sua felicità, lei, figlia di un inserviente di vetreria, di sicuro, anche se non me lo ha detto, ci ha messo dentro pure il peso dei respiri suoi e di chi ha amato o ha odiato.

E nel conteggio di vetri e respiri, con l’occhio guardingo nel cercar di evitar di rompere la pila di bicchieri preziosi, sta tutto lo sforzo della mia e sua vita passata a cercar il meglio e lasciar andar il peggio, senza farsi mai troppo male, che con il vetro, si sa, ci si può tagliare e i segni restano. E alla vista delle mie cicatrici, penso che il conto giusto deve tener conto anche dei segni che i vetri, saltati in aria, ti lasciano sulle mani e sul corpo, e sotto pelle, nei muscoli e  nei pensieri. Che il dolore ci cambia, sempre.

E così, distesa sul letto, sto circondata da bicchieri, bianchi, verdi, rossi e blu. Tanti pieni e altri vuoti. E mi tiro su per contarli e i pieni li ho annusati e ci ho sentito dentro l’odore di chi ho amato e mi ha fatto del bene, senza voler niente in cambio. E in quelli vuoti ho sentito l’odore della mia paura e dei miei sbagli. Mica pochi, ma il numero, no, non lo dico. Lo scrivo nella prima pagina del taccuino nero. Io sono brava a far di conto e penso che la Aldina sarebbe contenta se fosse qui.

Avrebbe uno sguardo di orgoglio.

Lei che, mentre piegavamo le lenzuola, me l’ha detto, e io non ci ho fatto subito caso. In mezzo a tutti questi bicchieri, pieni e vuoti, io mica mi sento sola. Che nel vetro ci sono le voci, mica solo i respiri, e le parole giuste e sbagliate. E visto che le ho dette, io adesso ne sono gelosa.

  1. mastrangelina

    io ti scrivo un commento e non si neanche che scrivere.. ma ti voglio un gran bene ecco. E questo è bellissimo. Bacio f.

  2. After the lifting of the mist
    after the lift of the heavy rains
    the sky stands clear
    and the cries of the city risen in day
    I remember the buildings are space
    walled, to let space be used for living
    I mind this room is space
    this drinking glass is space
    whose boundary of glass
    lets me give you drink and space to drink
    your hand, my hand being space
    containing skies and constellations
    your face
    carries the reaches of air
    I know I am space
    my words are air.

    The speed of darkness (Muriel Rukeyser, 1968)

  3. michiamomitia

    grazie Elena 🙂 adesso mi metto e lo traduco (che ho un inglese orribile io )

  4. Ecco, io queste cose di mattina non dovrei mica leggerle, che io dovrei lavorare al computer, dovrei, e con gli occhi tutti annacquati non si vede niente!

  5. michiamomitia

    Raffa, hai ragione eh

  6. Il vetro non è “solo” trasparente, insomma…

  7. e nel vetro soffiato le parole belle, i bisbigli d’amore, rotolano e si rifrangono in cascate cristalline. bello mitia

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