“Mamma, chi è questo signore?”
“E’ Paolo Santi. E’ tuo padre, Tommaso”.
“E che ci fa in cimitero?”
“E’ morto. E’ successo cinque anni fa e oggi siamo qui, assieme, perché hanno condannato l’uomo che l’ha ucciso. Sai, in realtà la morte toccava a me ma tuo padre ha pagato al posto mio”.
“Quindi, è colpa tua, mamma, se papà è qua”.
“Sì, Tommaso. Per favore, aspettami alla fine del vialetto. Poi ti porto a mangiare il gelato”.
Sandra Franti vide suo figlio allontanarsi lungo il percorso interno del cimitero. Scacciò indietro la lacrima rabbiosa che le scendeva lungo la guancia e posò il dito bagnato sulla foto di Paolo, un piccolo cerchio dorato dentro la lapide bianca appena sotto il suo nome inciso nel marmo.
“Paolo hanno dato l’ergastolo a Frescobaldi. Di galera non esce più ma ti prometto che non è finita qui”, sussurrò Sandra. Poi corse via per stringere la mano di suo figlio che la aspettava in fondo al vialetto.
A casa gli avrebbe raccontato tutto. Glielo doveva. Per dare una storia alla sua nascita, per dare un significato al dolore che per anni, inconsapevole, aveva visto nei suoi occhi. Tommaso, adesso, era grande a sufficienza per capire. Non sarebbe stato facile. Lui la guardava, mentre mangiava il gelato, con gli occhi di chi si fa così tante domande da non riconoscere più la sua mamma. Una che doveva morire al posto di papà.
Avrebbe raccontato tutto, sì. Ma doveva finire quel che aveva cominciato.
Erano passate oramai tre ore da quando il giudice del tribunale di Padova aveva pronunciato la sentenza contro Gino Frescobaldi, il mandante dell’attentato in cui aveva perso la vita il commissario Paolo Santi.
Le prove a suo carico, in primis la lettera inviata alla giornalista Franti, il vero obiettivo dell’azione, erano state ritenute inattaccabili dalla corte che aveva deciso per il massimo della pena, tra gli applausi commossi di colleghi e amici del poliziotto. Ergastolo per Gino Frescobaldi. E cinque anni per favoreggiamento all’avvocato Andreasi. Una pena esemplare, commentarono molti colleghi. Un segnale alle toghe che campavano sulle parcelle milionarie della mala e favorivano i contatti tra i boss, in carcere, e i complici liberi.
In questura era stato organizzato un buffet per festeggiare. Sandra preferì non partecipare. Doveva salutare Paolo.
Tre mesi dopo l’attentato mentre ancora cercava di riprendersi dalla tragedia, si era accorta di esser rimasta incinta. Aveva portato avanti la gravidanza, con tenacia, nonostante le amiche l’avessero sconsigliata.
“Sei sola, Sandra. Pensa a te. Quel bambino è figlio anche di un uomo che non c’è più e non l’avrebbe voluto”, le dissero.
Lei non sentì. Quel piccolo doveva nascere. Quello che Frescobaldi le aveva strappato via, in qualche modo sarebbe tornato.
Partorì dopo 18 ore di travaglio, urla e sfinimento, con l’assistenza di una collega di Paolo, Silvia Montani, e delle sue amiche Paola e Serena.
Nessuna mollò la sua mano, finché la testa di Tommaso non uscì fuori e lei si sentì mancare. Non parlò per una settimana. Restò a letto, muta, nella casa vuota.
Poi una notte, mentre Tommaso strillava per la fame, Sandra cacciò un urlo che svegliò il palazzo e cominciò ad allattare al seno suo figlio. Con rabbia. E amore.
Adesso che la condanna era arrivata e la difesa aveva annunciato la rinuncia al ricorso, doveva spiegare tutto a Tommaso. E finire.
Portò Tommaso a casa di Serena.
“Ci vediamo domani, stai tranquilla. Se fa i capricci il cellulare è acceso”, disse all’amica senza mai distogliere lo sguardo dagli occhi di suo figlio. Assomigliava a Paolo, si disse, mentre scendeva le scale.
Prese la macchina e si presentò allo studio dell’avvocato Andreasi a Noventa Padovana.
Dovette suonare cinque volte il campanello prima di sentire il cancello elettrico aprirsi con uno scatto.
Click.
Quel rumore le fece salire dentro la gola la bestia.
Andreasi l’attendeva in corridoio, sulla porta dello studio.
“Cosa vuole da me Franti? Mi hanno condannato a 5 anni, vuole divertirsi a sbeffeggiarmi? Io non sapevo che consegnando quella lettera decretavo la sua morte. Ma lei è viva, ancora!”, le urlò contro l’avvocato.
“Deve farmi un favore, mandi questa a Frescobaldi”.
“Non sono più il legale, lo sa. La mia carriera è finita”.
“Lei sa come fare. Me lo deve, avvocato. Lo deve a me e a Santi”. Andreasi abbassò gli occhi, fissò la busta e annuì.
Click clack.
“Gino, c’è posta per te”. La guardia carceraria Achille Penati buttò la lettera sul tavolino all’ingresso della cella. “Faccio la Maria de Filippi, ciò! Ma sono più bello io”, sghignazzò l’Achille mentre richiudeva la porta della cella di massima sicurezza.
Frescobaldi si alzò dal letto e si diresse al tavolino. La lettera arrivava dallo studio di Andreasi.
Gino sorrise, aprendola. Si aspettava la classica lettera di scuse. Li conosceva quelli come Andreasi. “Per pararsi il culo spifferano tutto anche se sono quindici anni che il loro stipendio lo paga gente come me _ si disse _ Merde con il maglione di cachemire”.
Dentro la busta c’era una foto. Quella di Onda blu. Gli amanti del porno la conoscevano bene la reginetta veneta degli amatoriali hard core. Quante seghe si era sparato Frescobaldi la sera davanti alla tv. Lei era sempre nuda e pronta.
Sorrise sfiorando la foto. Onda blu, all’anagrafe Marina P. gli si mostrava proprio di culo, con le chiappe larghe, tutto in vista e la figa depilata. Lo fissava, ammiccante e lasciva. Un dito in bocca.
Sotto c’era una dedica con il pennarello. “A Gino, avrai tanti anni per pensarmi ancora. Tua Onda blu”.
Frescobaldi scoppiò a ridere. Adesso sono così famoso che anche le pornostar mi desiderano! pensò. E cominciò a passare il dito lungo il corpo della Onda blu. Indugiò sulla figa. Poi portò il dito in bocca, immaginando di sentirne il sapore e l’odore. “Oh, cara mia, te non sai che regalo che mi fai. Tutte le sere starai con me”.
Solo girando la foto si accorse che sul retro c’era una piccola scritta a penna, in basso a destra.
“Frescobaldi da oggi siamo pari. Non godo più io, non godi più te. La giustizia prende sempre i provvedimenti del caso”. Firmato F.
Il boss rilesse tre volte quella scritta, la seconda volta dovette anche inforcare gli occhiali perché gli pareva di vedere sempre meno. Ma continuò a leggere. E capì chi era F.
Pensò che una donna così, in condizioni normali, cioè da liberi, l’avrebbe portata volentieri a cena in un ristorante di lusso, le avrebbe messo il ferro davanti la faccia, le avrebbe spiegato come andava la vita e poi l’avrebbe scopata a sfinimento. Altro che morta, una simile sfrontata andava umiliata. “Ma vaffanculo stronza”, urlò con mezza voce. E tornò a sfiorare e leccare la foto di Onda blu.
Lo ritrovarono la mattina a letto. Sembrava dormire della grossa; arrivarono tre guardie a svegliarlo.
Era morto. Per terra c’era la foto di Onda blu che guardava tutti, ammiccante e sfrontata.
(FINE)