La cameriera della tavola calda avanza con passo spedito, si vede che è abituata al caos. Tutti che hanno fretta, tutti che vogliono mangiare veloce, che han un sacco di cose da fare. E mi guarda, da lontano, con il taccuino delle ordinazioni in mano, e la camicetta bianca aperta mostra, sotto, una canotta damascata. Lei si accorge subito che le sto osservando la canotta, chissà che pensa. Magari che son il solito che si accende per una canotta su una donna formosa. Non è lei ad attirarmi, è quel girigoro damascato che mi costringe a guardarla; mi ricorda un divano che aveva in casa mia nonna.
Finisco con il sentirla familiare, lei che mi ricorda il vecchio divano di mia nonna su cui mi divertivo a giocare con le mie caccole, lanciandole il più lontano possibile. Giochi da bambino. E mollo là un mezzo sorriso, da sopra il libro che ho aperto svogliato, per interrompere l’attesa con un gesto utile, che fermi la tensione.
La cameriera mi si avvicina con passo svelto, il taccuino in mano, lo sguardo serio che risponde appena al sorriso.
“C’è da aspettare, glielo dico subito”, mi dice veloce, dopo avermi osservato.
“Torni anche dopo, tanto mica ho fretta”, le rispondo.
Lei mi guarda come se fossi un folle. “Qui tutti hanno fretta, signore. Questa è New York”. E io le sorrido. “Infatti, io non sono americano”.
E ricaccio la testa tra le pagine del libro, come se all’improvviso fosse l’unica cosa che mi interessasse. Faccio finta che mi piaccia assai, la guida alla New York by night, che ho comperato alla libreria all’angolo.
Lei mi fissa ancora un attimo, solleva le spalle e se ne va, indicandomi con un cenno all’uomo del bancone, che è al telefono a prender le ordinazioni. Mi immagino che sia la segretaria di un dirigente d’azienda all’altra parte della cornetta, che ordina al messicano, sì, dai c’ha la faccia da messicano, il solito ( ovvero un panino al tacchino e lattuga) per il suo capo in riunione con lo staff.
Annoiata lei, annoiato lui, che al cenno della cameriera comincia a fissarmi perché così ha qualcosa di diverso, per un attimo, da fare.
Dall’altra parte, seduta al tavolo davanti a me, una ragazzina mangia il suo hamburger
discutendo con una signora. Sicuramente è sua madre, lo capisci dall’occhio sottomesso e annoiato della ragazzina. Dietro di lei una signora con gli occhiali alla John Lennon osserva un bel ragazzo moro, alto e muscoloso, con un giubbotto da addetto alla sicurezza che sta in piedi e racconta una barzelletta sconcia al collega, mentre aspettano il pollo fritto che hanno ordinato.
Il bancario in camicia azzurra, dietro di loro, aspetta impaziente il suo turno. Mamma mia, mette il nervoso da quanto è infastidito dal perdere secondi preziosi.
Ognuno tradisce l’attesa a modo suo. La ragazzina si butta sul cibo per dimenticare l’ennesima critica di sua madre che le contesta i brutti voti a scuola. L’addetto alla security la butta in ridere perché, evidentemente, al collega poco altro ha da dire. La signora al tavolo a fianco lo fissa divertita, per dimenticare la noiosa conversazione con il collega dell’ufficio che le parla solo di lavoro e non si accorge di come lei si tocca i capelli quando lo guarda.
Il ragazzo del bancone mi fissa, ostinato; mi sa che la voce della segretaria all’altro capo della cornetta lo annoia davvero. Tutti i giorni a sentire gli stessi discorsi, lo stesso tono. Tutti hanno fretta di andarsene, anche la cameriera che finisce il turno alle 3. Suo figlio la aspetta a scuola. Hanno appuntamento dal dentista alle quattro e mezza.
Ecco perché non ha voglia di sorridere a uno straniero con un libro in mano che fretta assolutamente non ne ha.
Il brusio del locale quasi non lo sento più, fisso le persone, da sopra il mio libro aperto su una pagina a caso, e i rumori sono tutti ovattati.
Qui dentro, mi dico, sono entrato per caso. Per ingannar l’attesa di lei. Natale è tra 3 giorni. Sono entrato qui dentro perché non avevano agghindato il locale come un enorme albero di Natale. Un grappolo di palline rosse beneauguranti, un paio di campane dorate, son state evidentemente sufficienti per ricordare che nonostante la fretta, è periodo di festa. Bravi, han fatto bene.
Per me è pure troppo, ma è il minimo in una città tutta luci come New York. Io che la aspetto, non ho bisogno del clima di festa per ricordarmi che la amo, amo da una vita, e da una vita la aspetto. Mi sento in sintonia solo con la pala, immobile, del ventilatore sul soffitto. Fermo mentre il mondo gira attorno. Lui aspetta che lo accendano. Io aspetto che lei si renda conto che io sono qua, in una tavola calda di New York, e la penso sempre.
Mi chiedo adesso cosa sta facendo. Se porta la mano ai capelli per scostare il ricciolo che le cade sugli occhi o se sta bevendo l’ennesimo caffè davanti al computer. Se apre la mail, sperando di trovare un mio messaggio o se non si ricorda più neanche come era il mio sorriso accennato quando tornavo a casa stanco dal lavoro. Se ha già fatto tutti i regali di Natale. Se ha voglia di farsene uno così bello da paralizzarmi il cuore.
La cameriera è tornata, mi fissa, con il taccuino aperto. “Allora, vuole ordinare?”.
“Dopo”, le dico.
Non ho fretta. io.
A me piacciono gli esperimenti e i giochi. Ho chiesto a Palmasco di mandarmi una foto, che mi ispirasse un racconto. Questo è il risultato. E lo ringrazio, spero si diverta pure lui.