Archivio Mensile: Gennaio 2010

Non ho fretta

foto di Palmasco

La cameriera della tavola calda avanza con passo spedito, si vede che è abituata al caos. Tutti che hanno fretta, tutti che vogliono mangiare veloce, che han un sacco di cose da fare. E mi guarda, da lontano, con il taccuino delle ordinazioni in mano, e la camicetta bianca aperta mostra, sotto, una canotta damascata. Lei si accorge subito che le sto osservando la canotta, chissà che pensa. Magari che son il solito che si accende per una canotta su una donna formosa. Non è lei ad attirarmi, è quel girigoro damascato che mi costringe a guardarla; mi ricorda un divano che aveva in casa mia nonna.
Finisco con il sentirla familiare, lei che mi ricorda il vecchio divano di mia nonna su cui mi divertivo a giocare con le mie caccole, lanciandole il più lontano possibile. Giochi da bambino. E mollo là un mezzo sorriso, da sopra il libro che ho aperto svogliato, per interrompere l’attesa con un gesto utile, che fermi la tensione.
La cameriera mi si avvicina con passo svelto, il taccuino in mano, lo sguardo serio che risponde appena al sorriso.
“C’è da aspettare, glielo dico subito”, mi dice veloce, dopo avermi osservato.
“Torni anche dopo, tanto mica ho fretta”, le rispondo.
Lei mi guarda come se fossi un folle. “Qui tutti hanno fretta, signore. Questa è New York”. E io le sorrido. “Infatti, io non sono americano”.
E ricaccio la testa tra le pagine del libro, come se all’improvviso fosse l’unica cosa che mi interessasse. Faccio finta che mi piaccia assai, la guida alla New York by night, che ho comperato alla libreria all’angolo.
Lei mi fissa ancora un attimo, solleva le spalle e se ne va, indicandomi con un cenno all’uomo del bancone, che è al telefono a prender le ordinazioni. Mi immagino che sia la segretaria di un dirigente d’azienda all’altra parte della cornetta, che ordina al messicano, sì, dai c’ha la faccia da messicano, il solito ( ovvero un panino al tacchino e lattuga) per il suo capo in riunione con lo staff.
Annoiata lei, annoiato lui, che al cenno della cameriera comincia a fissarmi perché così ha qualcosa di diverso, per un attimo, da fare.
Dall’altra parte, seduta al tavolo davanti a me, una ragazzina mangia il suo hamburger
discutendo con una signora. Sicuramente è sua madre, lo capisci dall’occhio sottomesso e annoiato della ragazzina. Dietro di lei una signora con gli occhiali alla John Lennon osserva un bel ragazzo moro, alto e muscoloso, con un giubbotto da addetto alla sicurezza che sta in piedi e racconta una barzelletta sconcia al collega, mentre aspettano il pollo fritto che hanno ordinato.
Il bancario in camicia azzurra, dietro di loro, aspetta impaziente il suo turno. Mamma mia, mette il nervoso da quanto è infastidito dal perdere secondi preziosi.
Ognuno tradisce l’attesa a modo suo. La ragazzina si butta sul cibo per dimenticare l’ennesima critica di sua madre che le contesta i brutti voti a scuola. L’addetto alla security la butta in ridere perché, evidentemente, al collega poco altro ha da dire. La signora al tavolo a fianco lo fissa divertita, per dimenticare la noiosa conversazione con il collega dell’ufficio che le parla solo di lavoro e non si accorge di come lei si tocca i capelli quando lo guarda.
Il ragazzo del bancone mi fissa, ostinato; mi sa che la voce della segretaria all’altro capo della cornetta lo annoia davvero. Tutti i giorni a sentire gli stessi discorsi, lo stesso tono. Tutti hanno fretta di andarsene, anche la cameriera che finisce il turno alle 3. Suo figlio la aspetta a scuola. Hanno appuntamento dal dentista alle quattro e mezza.
Ecco perché non ha voglia di sorridere a uno straniero con un libro in mano che fretta assolutamente non ne ha.
Il brusio del locale quasi non lo sento più, fisso le persone, da sopra il mio libro aperto su una pagina a caso, e i rumori sono tutti ovattati.
Qui dentro, mi dico, sono entrato per caso. Per ingannar l’attesa di lei. Natale è tra 3 giorni. Sono entrato qui dentro perché non avevano agghindato il locale come un enorme albero di Natale. Un grappolo di palline rosse beneauguranti, un paio di campane dorate, son state evidentemente sufficienti per ricordare che nonostante la fretta, è periodo di festa. Bravi, han fatto bene.
Per me è pure troppo, ma è il minimo in una città tutta luci come New York. Io che la aspetto, non ho bisogno del clima di festa per ricordarmi che la amo, amo da una vita, e da una vita la aspetto. Mi sento in sintonia solo con la pala, immobile, del ventilatore sul soffitto. Fermo mentre il mondo gira attorno. Lui aspetta che lo accendano. Io aspetto che lei si renda conto che io sono qua, in una tavola calda di New York, e la penso sempre.
Mi chiedo adesso cosa sta facendo. Se porta la mano ai capelli per scostare il ricciolo che le cade sugli occhi o se sta bevendo l’ennesimo caffè davanti al computer. Se apre la mail, sperando di trovare un mio messaggio o se non si ricorda più neanche come era il mio sorriso accennato quando tornavo a casa stanco dal lavoro. Se ha già fatto tutti i regali di Natale. Se ha voglia di farsene uno così bello da paralizzarmi il cuore.
La cameriera è tornata, mi fissa, con il taccuino aperto. “Allora, vuole ordinare?”.
“Dopo”, le dico.
Non ho fretta. io.

A me piacciono gli esperimenti e i giochi. Ho chiesto a Palmasco di mandarmi una foto, che mi ispirasse un racconto. Questo è il risultato. E lo ringrazio, spero si diverta pure lui.

Ha ragione la dottoressa

Se guardo dalla finestra, mi par di esser dentro la nebbia e invece è solo lo scarico abusivo del vicino che si è fatto la sauna in garage. E il fatto che sia abusivo rende più bello il tutto, mi pare. Questo scorcio di buio, là in strada, che vedo dalla finestra del terrazzo e questi grandi sbuffi di vapore che escono dall’angolo del garage, da quel tubo che i vicini dicono sia abusivo, mi piacciono.
A me, che quel tubo sia sprovvisto di autorizzazione, poco importa. Lo so che non dovrei far finta di niente. Io, non dovrei.
Ma mi mette allegria veder quel fumo bianco salir dall’angolo della casa di fronte, verso il cielo nero, perché è notte e fuori fa freddo e pure qua in casa, nonostante la caldaia lavori, oggi fa freddo. O sono io che son fredda?

Mi presento: sono Sabato Martina, anni 34, ispettore alla Polizia Municipale, in attesa di trasferimento al reparto Motorizzato. Single, come si dice oggi, ma sulla carta d’identità c’è scritto nubile. Ma se dico che sono nubile, mi guardano come fossi una strana. Nubile non si dice; si dice single, all’inglese.
Bah.
Dovrei dire invece zitella, me l’ha detto la psicologa la settimana scorsa.
“Guardi, il single è quello che sta bene da solo, nella sua condizione monofamiliare. Lei, scusi, ma alla condizione monofamiliare, mica ambisce, anzi le fa male, le sta stretta. Si dovrebbe dire che lei è una zitella, ma capisco che suona brutto”.
Ha ragione la dottoressa.
Ci riprovo.
Mi chiamo Sabato Martina, anni 34; agente alla Polizia Municipale, in attesa di trasferimento al reparto Motorizzato. Zitella.
Eh.
Secco, deciso, sincero. Cavoli, che presentazione…ma rischio di passar per una fallita e io non credo di esserlo. Almeno per otto delle 24 ore che compongono la mia giornata, io fallita, proprio no.
Io lavoro all’ufficio ambientale: compilo i rapporti e i verbali finali al termine dei controlli eseguiti dai colleghi che escono per le ispezioni.
Discariche abusive, abbandono di rifiuti pericolosi o sanitari. Violazioni al regolamento di igiene ambientale e a quello per la tutela degli animali. Io rileggo tutto, compilo tutto, preparo i fascicoli, poi li porto all’ufficio del pubblico ministero di turno, se serve, se c’è fretta. Oppure li spedisco via fax.
Adesso mi han accettato la domanda di trasferimento al Motorizzato, il reparto dove escono con le macchine e le moto per rilevare gli incidenti. Anche là, mi han già detto, dovrò occuparmi dell’inserimento dei dati. Nomi, cognomi, numeri di documenti, targhe, patenti. Rilievi, misurazioni, disegni da passar allo scanner. Codice della Strada alla mano, per controllare che i comma e gli articoli indicati sian giusti.
Son brava. Dimenticavo, sono laureata in Scienze politiche, voto 105.
Ho finito l’università sei anni fa e mi sono trovata a casa da mia madre che mi annoiavo. Lei ricamava, io mi son letta tutto il giornale e c’era l’articolo sul concorso per 20 posti da vigile urbano e ci ho provato. E ho vinto, sono arrivata prima. Chi dice che son una fallita, si sbaglia proprio. Per carità non sono una operativa, ho mansioni d’ufficio io. Ma mi va benissimo così: non porto la divisa ed è una fortuna perché il cappello mi sta davvero male in testa. E quando finisco il mio lavoro posso dimenticarmi di esser un agente della Polizia Municipale. Nel mio palazzo non lo sa nessuno che lavoro faccio e di conseguenza se c’è un tubo abusivo nel palazzo di fronte, da cui esce del vapore, io posso fregarmene.
Ah, dicevo del cappello. A me non stanno. Lo devo mettere solo per la festa del corpo, a San Sebastiano a maggio, quando partecipo alla cerimonia in basilica e alla festa col sindaco e mi tocca il picchetto d’onore, perché le donne son più carine e se stan davanti è meglio, dice il comandante.

Me l’ha detto anche il dottor Farfarti, che è meglio se stiamo davanti noi ragazze, che siam carine e abbiamo volti dolci e la gente non può far il gesto dell’ombrello a delle vigilesse dai volti dolci. Che si sa che noi vigili, mica siam simpatici…
Ha ragione il dottor Farfarti, che quando vado a bussar alla sua porta in Procura, in Cancelleria, è sempre gentile con me e mi chiede se voglio un caffè mentre controlla le carte che gli ho portato, e lo prepara lui, mica chiede alla segretaria. Chiude la porta, prende la cialda e la mette in una fessura della macchinetta grigia e rossa della Illy. Fa un rumore, una specie di clock, la cialda quando cade nella fessura, e poi esce il caffé, buono. E Farfarti si ricorda sempre che prendo il dietor e non lo zucchero normale, e me lo passa assieme al bicchierino e al cucchiaino di plastica. Che brava persona che è.
Si vede che è uno che conta in Procura. Che a volte se arrivo e lui in stanza non c’è, io lo aspetto fuori, in corridoio, e tutti al suo passare gli stringono la mano.
E se mi vede che lo aspetto, mi fa un sorriso grande, e mi lascia il passo per entrare e mi fa sedere e aspetta per sistemarmi la sedia.

Me l’ha chiesto, l’altro giorno, Farfarti se sono single. E mentre gli dicevo che sì, ero nubile e poi ho corretto subito dopo in single, e pure in attesa di trasferimento al Reparto Motorizzato, gli ho guardato la mano e non aveva mica la fede, quella da matrimonio, ma la pelle del dito era come scolorita, come se si fosse abbronzato con l’anello e poi l’avesse tolto.
E allora quando il dottor Farfarti mi ha chiesto se il caffè lo prendevamo fuori, che aveva voglia di quattro passi in strada, invece di berlo in ufficio, io gli ho detto di sì.

E quando al bar dalla Marisa, vicino alla Procura, ha insistito per pagare e mi ha detto che una bella ragazza, dal viso dolce, mai dovrebbe metter mano al portafoglio, io ho sorriso e lui mi ha detto che se mi faceva piacere, una sera, si poteva andar a mangiare una pizza assieme. E io ho detto di sì.
E intanto gli guardavo le labbra, che componevano, muovendosi , quella frase. “Se le va, una di queste sere, potremmo mangiare qualcosa assieme”.
La pizza l’ho aggiunta io, sottintesa. Che son abituata ad andar in pizzeria coi colleghi e al ristorante ci vado solo per il compleanno di mamma, a giugno, qualche giorno prima di San Sebastiano, che è la festa del corpo, e dopo il picchetto d’onore si va tutti in pizzeria.

Dicevo, gli guardavo le labbra, che si muovevano per parlarmi, e io pensavo che dovevano essere morbide quelle labbra, che non c’era segno di vecchiaia, che i denti erano bianchi. E all’improvviso mi sono chiesta, parlando tra me e me, in silenzio, come sarebbe stato baciarlo il dottor Farfarti.
“Chissà che sapore ha questa bocca?”, mi son chiesta. E, involontariamente, mentre lui parlava, ancora con il braccio appoggiato al bancone del bar della Marisa, ho allungato un dito e glielo ho poggiato sul labbro inferiore come si fa quando si toglie qualcosa che è rimasto sulle labbra di una persona che conosciamo. Solo che io devo averlo lasciato un pochino di più. E quando mi sono accorta che l’avevo sfiorato, involontariamente, il labbro inferiore, sono diventata tutta rossa, e ho nascosto subito il dito in tasca, con tutta la mano, ovvio, mentre il dottor Farfanti prendeva di corsa un fazzolettino di carta dalla tasca della giacca, convinto di aver la bocca sporca di caffè.
E poi con una scusa me ne sono andata via di corsa, gli ho detto che mi ero accorta che ero in ritardo e mi aspettavano in ufficio che c’era un verbale da registrare e l’ho lasciato lì, Farfanti, a guardarmi mentre scappavo fuori dal bar, urlando “comunque, grazie per il caffè, dottore”.
E in strada mi sono messa a correre e solo a quattro isolati dal bar, ho rallentato, ho respirato, ho tirato fuori la mano dalla tasca e ho guardato l’anulare e me lo sono portato al naso, prima, e alla bocca, poi. E ho leccato il mio dito. E ho sentito il gusto del caffè della Marisa, che era davvero rimasto sulle labbra del dottore, e l’odore del dopobarba Opium, quello che avevo sentito in profumeria dalla Marta, e mi sono fermata.
E sarà stato il profumo, credo di sì, ne sono convinta, se mi è venuta voglia di girarmi e tornare indietro, correndo, rientrare nel bar e baciarlo il dottor Farfarti.
Così, baciarlo, senza una parola.
Tirarlo per il bavero della giacca verso il mio petto, sfiorar con le mie labbra le sue, muovere lentamente la lingua, guardinga, per evitar una sua brusca reazione, annusarne l’odore lentamente. In silenzio. Lentamente, senza mai mollare la presa. Decisa, come solo può essere una donna che non si sente una fallita, mai.
E il bello è che mi son girata sul serio e mi son messa a camminare, a passo svelto, verso il bar. Sorridendo.

E poi l’ho visto, il dottor Farfanti, uscire dalla porta sottobraccio ad una ragazza, coi capelli rossi, il tacco alto, il tailleur grigio con la gonna così stretta che mi son chiesta pure se respirava o camminava solo. E ridevano, e lei scuoteva, ancheggiando sui tacchi, i capelli lunghi e lui la guardava. E gli ho visto lo sguardo al dottor Farfanti. Quello di chi si chiede che sapore hanno quelle labbra rosee, se sanno di menta delle Tictac o di tabacco, se quella fessura si schiuderà o rimarrà serrata.
L’ho visto il suo pensiero.
E poi ho visto il mio, che mi diceva di far dietrofront e camminare, di fretta, fino a quattro isolati più in là. Facendo finta di non averlo più un anulare.

Boh, c’ha ragione la dottoressa.
Mi chiamo Sabato Martina, anni 34; agente alla Polizia Municipale, in attesa di trasferimento al reparto Motorizzato. Zitella.

Carta straccia

Che divertente che sei, come mi fai girare, su questa pista piena di luci, e io vedo solo noi che giriamo. Che bello che è giocare, io e te. Mi tieni la mano, la accarezzi, gentile; sono libera, nessuno può dirmi nulla. Ballo e gioco con te, che mi tieni la mano e non la molli. E mi tiri, e mi inviti a ballare e a me piace. Giochiamo a far i sexy? Guardami, non sono bella, così libera? Guardami che mi muovo addosso a te. Domani ti ricorderai solo di un foglio di carta che volteggia nell’aria. Ma ora sono qui, giochiamo. Tu sorridi, lo capisci che io stasera ho voglia di sentirmi solo una ragazza che balla, sensuale come un aeroplanino di carta che rimbalza il vento.

Oh, cosa fai? Mi prendi e mi fermi. No, non si fa così, lasciami ondeggiare, lasciami esser leggera. Cosa fai? Perché adesso mi stringi così forte che mi fai male al braccio, perché mi dici quelle cose? Perché mi guardi così?
No, questo gioco non mi piace.
Non ti avevo chiesto di afferrarmi, ma di farmi esser leggera. E’ tutt’altra cosa, questa. Cosa fai con quella mano? La camicetta lasciala lì.
No. Lo capisci un NO, N-O, te lo urlo.
Ma mi sento muta, pesante, non sono più carta che svolazza, sono sasso che sfonda.

Cosa vuoi da me? Perché mi tiri in quel modo? Perché non mi ascolti?
Non è divertente, non ho alcuna voglia delle tue mani addosso, sono fredde. Il freddo mi sta entrando dentro, basta.
Mi fanno male, le tue mani. Lasciami andare, lasciami esser aeroplanino di carta che vola.
Sono mani che mi buttano giù, le tue, che mi costringono a tirar le gambe al petto per proteggermi. Non mi toccare.

Il tuo viso ha cambiato espressione, mi guardi come se non fossi più carta che ti svolazza davanti, ma cartone pesante, da tagliare. E mi tiri, mi tocchi e io ho paura adesso. Te la senti, la mia paura, e ti piace, ti fortifica.
Io urlo ma esce solo un brusio che te non senti e io mi sbraccio e te non la smetti, l’odore della mia paura ti eccita e mi urli di dare senza fiatare.
E mi schiaffeggi la pelle, forte, e poi quel dolore e all’improvviso io sono solo carta straccia.

Haiti-Parigi

di Roberto Lamantea*

Vedo i volti delle vittime del terremoto ad Haiti, le fotografie sul sito di Repubblica, volti lacerati, come le pietre. Ma come sempre, sono i loro occhi a trafiggermi, come mi tagliano gli occhi di un cane abbandonato o quelli di un anziano solo in una casa di riposo. Gli abitanti di Haiti, quelli sopravvissuti, hanno il viso lacerato come le pietre dei palazzi. E’ il dolore. E’ il dolore la mia ossessione. E sento ugualmente lacerante, ancora, l’assenza di Dio, il silenzio di Dio _ forse – di cui scriveva il poeta austriaco Georg Trakl. O il Dio invocato, negato, cercato, di Simone Weil. Sento anche un dolore lontano come un dolore mio. Sento il dolore di un filo d’erba, di un gatto o un cane randagio, di chi è solo sulla terra. Essere un poeta è diverso da scrivere poesie. E’ essere un sismografo, è avere nelle vene e nei nervi tutto questo incomprensibile dolore.

Così provo dolore quando muore un grande, ma è diverso. Non è la tragedia della storia e della natura. E’ una privazione violenta, una cancellazione. Quando all’improvviso è mancata Pina Bausch – l’ho conosciuta e incontrata più volte _ per me e per moltissimi sulla terra è stato un dolore devastante. Quando muore un grande una parte di noi se ne va, dal mondo vola via un po’ di bellezza. Perché un grande regala bellezza, rende il mondo migliore. Io che sono ossessionato dal dolore delle cose e delle creature e mi ritengo ateo – ma sul mio ateismo continuo ad avere dubbi – mi riconosco nella visione desolata che offre il cinema di Robert Bresson o Krysztof Kieszlowski, o Ingmar Bergman.

Nei giorni scorsi se ne è andato un altro grande, Eric Rohmer. Rohmer non cantava il dolore né l’assenza. Rohmer cantava la leggerezza della vita, narrava i batticuori, gli slittamenti del pensiero e del desiderio con la tecnica del thriller. Nei suoi film non succede niente, tranne in pochi, come “Il segno del leone”, dove c’è un percorso narrativo. Gli altri film del cineasta francese parlano di incontri tra giovani, in vacanza in provincia o in città (Rohmer è uno dei grandi poeti di Parigi), di amori nel trascolorare delle stagioni, dell’ironia dei proverbi sulla commedia della vita. Alcuni suoi film sono amari, come “Reinette et Mirabelle”; altri intensamente lirici, come lo stupendo “Il raggio verde”. E’ un regista intellettuale, raffinato, letterato, usa un pennino sottilissimo per disegnare caratteri, psicologie, attese, disincanti, buffi equivoci (come nel delizioso “L’amico della mia amica”), un erotismo delicato e forte nello stesso tempo (“Il ginocchio di Claire”, “L’amore il pomeriggio”), fughe, solitudini. L’amore come nei proverbi arriva quando non lo attendiamo e da chi non aspettiamo. E’ il regista di una civiltà superiore: in tutto il cinema francese (Renoir, Clair, Truffaut…) si respira il rispetto dei sentimenti, mai derisi, dileggiati, a meno che la violenza non sia metafora del male “ontologico” di Bresson (“Au hazard Balthazar”, “Il diavolo probabilmente”, “L’argent”), allora anche l’amore diviene cupo crudele gioco e perfino stupro.

Scoprire il cinema di Rohmer è innamorarsi di nuovo della vita, nonostante il dolore, la coscienza, la conoscenza, la perdita, una solitudine di marmo levigato, l’assurda violenza tessuta nel genere umano e costruita dalla sua storia. Il cinema di Rohmer ha l’impalpabilità del respiro, perché come un respiro ci cambia. Rohmer non c’è più, nessuno ci darà più i suoi film.

Provo amarezza nel vedere che i maestri non sono sostituiti da nessuno. Bresson, Truffaut, Rohmer, Bergman, Antonioni, Pasolini avevano una visione della vita, della società, del destino; chiamiamola filosofia, se vogliamo; spessore intellettuale, infinita sete di ricerca. E la sapevano tramutare in linguaggio, stile, scrittura, ritmo, figura. Oggi vengono pubblicati anche buoni libri, a volte eccellenti; film molto belli, ben costruiti, recitati in modo magnifico. Ma quasi nessuno offre una visione della vita, della morte, di Dio o della sua assenza, della natura e della sua bellezza e crudeltà (il “giardino fiorito” dello “Zibaldone” di Leopardi), del perché siamo venuti al mondo, che senso ha tutto. E nessuno sa più raccontare attraverso storie, volti, corpi, batticuori, colori e luci, tutto questo. Ogni volta che un grande ci lascia (grande nel cuore) siamo più poveri.
(scritto il 13 gennaio 2010)

* Roberto Lamantea è un giornalista, critico di danza e di teatro. Ha pubblicato brevi saggi e libri di poesia. L’ultimo è “Verde Notte”.
E’ soprattutto mio amico, di quelli veri. E devo anche a lui se questo spazio, dedicato ai miei racconti, è nato. Lo ospito con vero piacere, perché le sue parole, così
competenti , arrivino a tutti. Senza grandi che sappiano indicarci una chiave di lettura della vita, della nostra contemporaneità, la cultura è inesorabilmente in via di estinzione. Spero di poterlo ospitare qui, ancora, quando vorrà. Mi casa es tu casa, Robi

La voglia

La voglia è come una scimmietta, han ragione i tossici.
Loro sanno cosa è quel desiderio
che diventa bisogno
che fa addirittura male se stai senza
e a volte capita
certo che è così,
perché se non ti è capitato mai,
ascoltami,
se non ti è capitato mai
vuol dire che non sai mica quello che ti piace davvero
e se non l’hai trovato
e non ci sei manco una volta inciampato
contro quel che ti piace
te non lo sai per davvero cosa sei.
I tossici lo sanno cosa è la voglia.
Loro se la portano addosso la scimmietta
e a loro pesa, perché la voglia ti stravolge,
ti passa dentro come se il tuo corpo
fosse un mattone forato
e lei da te tira fuori la musica che gli pare e piace
e magari a te quel suono ti fa invece paura,
che lo senti cupo e profondo
come un sì che ti parte dall’intestino
e scivola su per l’esofago
e ti arriva in bocca e ti tocca sputarlo
e quando sputi ti esce quel rumore
che a te ti pare di non esser umano
ma di aver la bestia dentro.
E la scimmia ride
che lei un pochino bestia si sente sempre
ride di te che non ce la fai ad ammetterlo.

La linfa

Carla si svegliò e sentì le mani prudere, come se migliaia di piccolissime formiche le stessero mordicchiando il palmo delle mani e le dita. Non sentiva dolore, era un fastidio leggero come un solletico lieve con la piuma.
Carla provò ad alzare la mano sinistra ma era pesante, come il marmo. Quando ci riuscì, aiutandosi con la destra, nonostante il formicolio colpisse anche quella, si accorse che la mano era germogliata.
Dalle dita spuntavano delle piantine, giovanissime, di un verde carico. Lei rimase stupita e impaurita a guardar la mano, una pianta per ciascun dito, diversa. Riconobbe l’Ulivo spuntar dal pollice, il Bosso dal mignolo e la Quercia dall’anulare. Lo stupore tolse aria alla paura. Non si disperò Carla. Lei sentiva che quei germogli erano un tutt’uno con la sua mano bianca. La destra si preparava anche lei alla trasformazione; le unghie erano verdi. Mancava poco.
Sentiva, Carla, il suo sangue pompato dalle piante come se fosse un latte di vita.
Che fare, si disse. Spezzare i rami e bruciarli?
No, Carla scacciò subito quel pensiero. Andò in cucina, trascinando le braccia pesanti, girò con fatica il rubinetto e riempì il lavello di acqua. Poi ci ficcò dentro le mani. I germogli si gonfiarono, prosciugando in fretta l’acqua nel lavello e cominciarono a crescere, a crescere. Divennero così grandi che sfondarono il soffitto e poi il tetto della casa. E Carla andò con i suoi alberi, senza graffi e senza dolore. A guardar le nuvole da vicino.
E per la prima volta non si sentì solo carne e sangue ma anche linfa.

Un giorno una amica, Chiara, parlando su Friendfeed, disse che le sue mani stavano germogliando. A me è venuto questo, e glielo dedico

Il grillo

Ricordo perfettamente il colore delle foglie, un verde mare, ma son sicura che c’era anche del blu. Altre, attraversate dal raggio di sole, eran quasi arancioni con striature marroni. Ricordo perfettamente il tronco dell’albero, che mi stava sopra come un enorme ombrello e che ondeggiava dando voce al vento primaverile.
Ricordo che l’erba attorno a me era soffice e profumata e umida. Sentivo la mia pelle bagnarsi, come se stessi filtrando attraverso i miei pori l’acqua direttamente dalla terra. Ho pensato, ricordo, che se fossi stata lì per sempre sarei diventata muschio.
E non mi interessava minimamente spostarmi.
Ricordo che su un filo d’erba, lontano massimo due passi dalla mia faccia, c’era un grillo. Verde chiaro, con le antennine che tastavano l’aria come se volessero assaggiarla. Faceva finta di non vedermi, io ho fatto finta di non vedere lui.
Ho pensato che se mi saltava in faccia mi sarebbe venuto da ridere. Ho pensato anche che da dove era lui, a massimo due passi dalla mia faccia, io dovevo sembrargli grande come una montagna e il salto forse gli doveva esser risultato cosa audace e non un gioco.
Ricordo che l’erba mi solleticava la pelle della schiena e io avevo prurito ma non mi muovevo e pensavo che stavo davvero diventando muschio, lentamente, senza fretta.
E ho pensato che se diventavo muschio, il grillo non mi avrebbe più visto come una montagna troppo grande e allora mi sarebbe, sì, saltato in faccia. E sai, che ridere.
Ricordo che non ho mai guardato l’orologio, ma son sempre rimasta ferma, sotto il grande albero con il suo ombrello di foglie, sull’erba mossa dal vento, con l’unica compagnia di un grillo, indeciso se saltare o no.
Ricordo che ti ho aspettato così tanto che alla fine, muschio, sono diventata, ma il grillo non ha saltato.