Cara Ludovica,
quando leggerai queste righe io sarò già bella che andata. Ho lasciato sul letto il vestito marrone, quello con le spalline strette. Usa quello per vestirmi, tanto nella cassa mi dovete mettere e allora che si faccia, almeno, una porca figura.
Per favore, evita di mettermi le calze che anche se è inverno, la mia pelle sente solo l’estate. Evita di guardarmi, tra dieci anni, quando mi tireranno fuori dalla terra, se avrai l’orribile idea di farmi seppellire, dimenticando quello che io volevo. Ci saranno solo le mie ossa dentro quella cassa e non sarà un bel vedere.
Ti ricordi nonna Pina? Io c’ero quando l’hanno riesumata per spostarla nell’ossario. Era tutta raggrinzita con quelle calze di seta pesanti, che a lei piacevano tanto, color fumo di Londra, e il reggicalze nero. Nonna diceva che una donna era femmina, solo se lo indossava ogni tanto.
Io, di nonna, ricordo ancora i denti, tutti perfetti; non si sono consumati manco dopo 25 anni, tanti ne sono passati, quella volta, prima che mi apparisse davanti ossa e calze.
E visto che mi sono sempre sentita femmina senza, prima, non vedo l’utilità, dopo.
Mia anima, per favore, scuoti il capo, se diranno cose che non voglio sentire dire, e ricorda a tutti che io ho già deciso. Evita ai tuoi occhi sia la visione del mio corpo, quando mi avranno trovato senza fiato, sia la scellerata idea di mettermi a marcire nella terra, che mi è certo congeniale, e te lo sai , che mi sei sorella. Evita l’imbarazzo di un funerale vistoso con incensi e croci, che non ci sono tunnel a chetarmi, credimi.
Fammi ardere, che almeno resto al caldo. Che ho passato la vita a scaldarmi e perdere pezzi, lasciati dentro a comodini di case spesso estranee, alla ricerca di qualcuno che avesse la voglia di ricomporre il puzzle e appenderlo in salotto, per rimirarlo intero.
Ne sono certa, mancherebbe sempre un pezzo.
Io dell’amore ho avuto così tanto rispetto che mai ho puntato i piedi e mi sono sentita niente al suo cospetto e non ho chiesto e ho lasciato che chi voleva entrare, entrasse, e chi voleva uscire, uscisse.
Stamattina, alla radio, uno psicologo, manco ricordo il nome, diceva che l’autostima si alimenta fin da piccini, con le parole dei nostri genitori. E allora mi sono messa a cercarla, dentro di me, la stima, tra il pancreas e il colon, e quella non rispondeva ai miei richiami.
O era sorda o se n’era andata.
Poi mi sono detta, che se era fuggita via, sbattendo la porta, la sorda ero io. E se si era persa nei tanti pezzi di me che ho regalato in giro, non sapeva più darsi manco un nome.
Io, bimba cresciuta, guerriera stanca, mi sono persa nel cercar l’amor proprio, tra i pezzi masticati e leccati. E la camminata è diventata corsa frenetica e ho sentito, assieme al rintocco della vena della tempia, la voce di colei che dice che sono tutta sbagliata e la carezza, carica di pena, di Piero, che non ha mai saputo tenermi.
E, sudata e fredda di mio, ho messo un piede dentro la vasca e ho aperto l’acqua calda.
Mi sono stesa e ho preso la boccetta dei sonniferi. Per deglutire le trenta pastiglie, ho scelto un Traminer aromatico. Non si dica che mi manca lo stile.
Per sicurezza, ho tirato anche un colpo di lametta sul braccio.
Mi sono rimessa a cercare e nella corsa mi sono addormentata, guardando il rosso del mio sangue fuoriuscire da me. E’ l’ultimo pezzo che va via.
Te lo scrivo prima, che ho tutto in testa, come un filmato visto e rivisto, e fermato in ogni frame in sala di montaggio dal regista, per capire dove migliorare.
Solo che stavolta si va via lisci, con la telecamera fissa sul rosso.
Te lo racconto, prima di lasciarmi andare, perché voglio evitarti di vedere. Se te lo racconto io, sembrerà solo una delle storie che mi piace raccontarti per farti addormentare. Te ti risvegli, io no.