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La donna che contemplava i calzini

Vuoi sapere quanti uomini ho amato, apri quel cassetto. Sì, il settimanale di mogano, primo cassetto da destra. Guarda…Li vedi? Se vuoi mettiti a contare, che io ho perso il conto. Ma poi non dirmelo il numero che a me va bene così, aprire il cassetto e toccarli i calzini mi basta. Non li ho mai contati, che non sta bene. Sì, quelli sono calzini, maschili, diversi e tutti belli. Sono i calzini degli uomini che ho amato, tutti singoli, quelli del piede sinistro. No, non me li hanno regalati. Li ho rubati, li ho nascosti sotto il materasso mentre loro dormivano. Loro sono tornati a casa con un piede nudo, io ho riempito il mio cassetto. Vedi, ci sono quelli di lana; quelli di morbida microfibra, così caldi e aderenti; quelli di spugna, che c’è ancora addosso il sudore di una corsa e poi c’è il filo di scozia, roba da signori eleganti che però li portano anche certi operai per bene che per amor del piede spendono un pochino. A me piacciono i calzini, li ruberei tutti e due ma poi penso che sarebbe un moto di egoismo eccessivo e allora mi accontento di uno solo. Li metto nel cassetto e poi, quando tutto finisce e il desiderio diventa solo un ricordo, a me resta un calzino da ammirare, annusare, toccare. Ce ne sono di bianchi, che a me paiono così modesti. Ce ne sono di neri, così virili. Ce ne sono di estrosi, a righine, a quadri, blu e arancioni, a costine o lisci. Uno per ogni uomo, uno per ogni ricordo. Ce ne sono di corti che mi stanno appena come un guanto quando ci infilo la mano e mi ricordano certe dita curiose. Ce ne sono di lunghi, che mi ci avvolgo come con una sciarpetta e mi ricordano certi caldi abbracci. A volte apro solo il cassetto e li ammiro da lontano, lì, gettati alla rinfusa, senza il gemello a far loro compagnia e mi chiedo se i fratelli son stati gettati perché orfani o se sono stati infilati pure loro in un cassetto, sotto le camicie e le canottiere, nella speranza un giorno di non restar più spaiati, come sono io adesso. Contemplativa e spaiata, con una montagna di calzini soli, che se li annodo tutti, ci farei il cappio perfetto. Ne son sicura, sarebbe caldo al punto giusto. Basterebbe un hop di incoraggiamento. Solo che non ho voglia, e chiudo il cassetto.

Ci abbiamo preso gusto. Nuovo esperimento di scambismo con http://dilaudid-dilaudid.blogspot.com.

Il benefattore

“Mi abbracci? Ho voglia di coccole”.
Piero si girò per guardarla bene. Non poteva essere così cretina.Era filato tutto liscio, avevano cenato assieme all’osteria Da Gianni, poi Emma lo aveva seguito a casa sua, senza alcun indugio.I soliti preliminari scontati, un bicchiere di vino davanti all’impianto stereo, il disco che girava, la puntina che grattava il solco. “Ma ascolti ancora i dischi in vinile? Roba da matusa”, aveva detto, ridendo.

Lui aveva sorriso, poi l’aveva presa alle spalle, premendo il ventre addosso al suo sedere e il resto era scivolato via, sereno e semplice, niente che l’avesse sconquassato dentro. Una bella scopata. Poi, l’errore.

“Mi abbracci? Ho voglia di coccole”.

Il sorriso sornione, post coitale, di Piero scomparve lasciando il posto al freddo.

“Certo”, le disse. “Aspetta un secondo, che arrivo”.

Emma era seduta sul letto, teneva le gambe strette al petto e guardava la stampa di Pollock sul muro davanti. Attendeva il premio. “Eccomi”, le disse Piero prendendola di nuovo alle spalle. Con una mano le strinse il mento, con l’altra le passò veloce sul collo senza accenni di rughe un coltellaccio dal manico marrone. Lei non fece neanche in tempo ad urlare, venne colta di sorpresa da quella violenza inattesa.

Emma moriva lentamente, soffocata dal sangue che sgorgava a fiotti dalla giugulare recisa. “Lo senti il freddo anche tu?”, le disse Piero. “Ti credevo diversa”. Lei non rispose, si limitò a sobbalzare sul materasso, la bocca muta che si apriva a cercare l’aria. I movimenti, pensò Piero, erano identici a quelli di un pesce gatto preso all’amo e sbattuto sulla riva del fiume, gli occhi che si spengono un pochino alla volta. Lui sorrise, malizioso, avvicinando la faccia alla sua. Sentì che anche il freddo se ne stava andando, lentamente.

Prese il coltello e se ne andò in bagno. Lavò la lama sotto il getto del rubinetto del lavandino, con gesti precisi. E visto che c’era, si fece una doccia. Caldissima.

Quando tornò in camera, lei era solo un corpo morto su un materasso rosso sangue. “Emma, hai visto quanto bene fanno le coccole?”, le disse Piero, ridendo dentro al suo accappatoio blu. Poi si vestì per portare in garage il corpo e caricarlo sull’apecar della Municipalizzata. Destinazione, la discarica comunale. Al solito, nessuno si sarebbe insospettito di quei movimenti. Tanto lui alla Municipalizzata ci lavorava e faceva piaceri a tutti nel condominio, facendo sparire tra i cumuli di rifiuti, di tutto: dai materassi vecchi ai mobili da buttare. E pure rifiuti speciali.

Una parola cambia tutto. Sempre. Emma che era calda e umida, adesso è fredda. Una scopata normale, di quelle che quando sei vecchio, neanche te le ricordi più, finisce con un corpo morto di coccole. Piero se ne dovrà ricordare ora.  Solo perché deve tenere il conto. Non è la prima volta, non sarà l’ultima.

“Voi donne siete proprio cretine”, disse ad alta voce, mentre con gesti esperti preparava le funi per legare il materasso come un bozzolo funebre per la sua vittima. Non la prima, mai l’ultima. “Coccole, volete le coccole”, continuò il suo discorso, con un tono di scherno. Odiava il suono di quella parola. Tre sillabe, un mare di ribrezzo che diventava un vento gelido dentro le vene. E lui agiva senza chiedere permesso perché aveva bisogno di far smettere il freddo. Era già successo sei volte ed ogni volta, dopo, si sentiva come uno che ha fatto del bene. Ogni volta che loro, le cretine, pronunciavano quella parola, lui vedeva il loro ego ipertrofico, espandersi di colpo, come se solo quel gesto, telecomandato, facesse loro assumere una dignità vera. E allora lui metteva fine alla farsa.

“Sono un benefattore”, si disse. Sono così tante le donne, prima e dopo l’atto estremo e umido del sesso, che reclamano coccole.Le odiava tutte: loro sentivano il bisogno irrefrenabile di pretendere quel che in Natura nessuno chiede. “I bambini le chiedono? – continuò a parlarsi ad alta voce – No. Sono le madri a inculcargli in testa quella schifosa parola. Loro, i bambini, se potessero far da soli, si limiterebbero a venire a metterti il naso contro il petto e starebbero lì a passar calore, come i gatti, strusciandosi. Senza dire. No, le donne pretendono le coccole”. E se non ottengono, se il loro ego resta scheletrico, mostrano quell’occhio, pieno di odio, tipico dei corpi senza dignità.

“Ma a voi, ci penso io “, disse Piero, trascinando il materasso arrotolato verso il garage. E chiuse la porta.

Si ringrazia  per l’ispirazione e l’idea il signor  Dilaudid

http://dilaudid-dilaudid.blogspot.com  

 

Stati di indipendenza

-Psss, pss…sei sveglia? Dai, svegliati, che mi sento sola…

Ho aperto gli occhi di scatto.  Nel letto non c’è nessuno. E allora da dove viene quella vocina. Mi sono stropicciata gli occhi e poi mi sono rigettata sul letto, ridendo dei miei sogni strani. Che io quando sogno lo faccio bene, con i colori e i dialoghi e tutto quello che serve a rendere ogni sonno un viaggio dormiente. Anche se poi ricordo poco. 

– Oh, ci sei. Senti, parliamo un pochino?

La risata mi si è strozzata in gola. Ancora? Quella vocina è arrivata diritta dentro il padiglione auricolare, l’ho sentita perfettamente. 

Ecco, è la follia. Comincia così, dal sentir le voci e, poi, finisce che diventi come l’Amalia Muniega, sola e barbona a parlar con i treni che passano in stazione e a chiamarli per nome. Ostia, se è la follia, è un bel casino da gestire. Ti modifica la faccia e il corpo e ti ritrovi sola, e brutta. Perché solo Remedios muore sola ma verde e bellissima e piena di polline che attira le farfalle…La pazza, qui, lontano chilometri da Gabo, finisce come l’Amalia, sola, barbuta, con le scarpe da alpino e il cappotto militare, a parlar coi treni.

-No, non sei matta…Sono io che non ti ho parlato mai, finora.

– Io chi?

– Io.

– E dove saresti?

– Qui.

– Qui dove, che in questa camera non c’è nessuno.

– Sotto il piumone.

Allora, ho preso la coperta, l’ho gettata in aria con un misto di paura e curiosità e non c’era niente. Ci sono solo io, con le mie gambe stese sul materasso e nient’altro se non il lenzuolo. In fondo al letto, le mutandine, tolte prima di addormentarmi che mi davano fastidio. 

– Le mutande parlano?

– No, sono io…insomma ma non mi senti?

– Ti sento eccome.

– Sopra le tue gambe…

Allora con uno scatto mi sono seduta sul letto, e ho guardato la pancia. Niente. E con le mani mi sono toccata la pelle perché ho avuto paura che a parlare fosse una qualche bestia infettiva. Come la mosca. Oddio, se è la mosca svengo, quella che con le radiazioni nucleari si è fusa con un uomo, diventando una roba orrenda.

– Certo che ne spari di cazzate, eh

– Qualificati, invece; esci allo scoperto, stronzetto!

– Prego stronzetta, semmai.

– In effetti, mosca è femminile. Ma…

– Basta, guardati tra le gambe. Dai, non è difficile…cosa c’è?

– La pancia.

– Quella è sopra, io dico sotto.

– Il pelo.

– Sì, che nero! Ok, quello c’è, ma dico sotto, tra l’incavo delle gambe.

– La vagina?.

– Ecco!

– Ecco, cosa?

– Sono io!

– Io, chi?

– La vagina.

– Ma chi sei? Ma mi fate gli scherzi?

E ho cominciato a far volare tutto: il piumone, i cuscini, il lenzuolo, via le ciabatte. Sono scesa dal letto e mi sono messa a guardare dentro le lampade sui comodini, dentro i cassetti. Alla caccia di un fantomatico microfono nascosto.

– Che cerchi?

– Ohhhhhh, ma basta con questi scherzi cretini!!! Tirate fuori il microfono, vi ho scoperti.

– Ma se siamo solo io e te, qua.

– Non è pos-si-bi-le!!! E’ solo uno scherzaccio di pessimo gusto.

– Io non scherzo e non sono manco di pessimo gusto, scusa. 

– Dammi una prova. 

– Ma che prova vuoi?

– Dimostra che sei tu, davvero.

– Io e te andiamo d’accordo, da sempre.

– Non basta.

– La prima volta che mi hai sentito davvero è stato per colpa dei capelli della Barbie sposa. Te la ricordi?

– Ehm…

– Specifico?

– Lasciamo perdere. Mi hai convinto. Come mai mi parli? E’ la follia, vero?

– No, per carità. Mi sentivo sola.

– Ah!

– Sì! A te non capita?

– Certo che mi capita. Ma mi pare, che nonostante tutto, io mi impegno per non farti sentire sola. Ecco, non vorrei che proprio tu venissi a farmi la paternale sul fatto che sono single ancora, eh. Che oggi, con tutti ‘sti scossoni mentali, una tiritera su sta cosa, no…

– No, non è quello. Non è per il sesso.

– Ecco, niente recriminazioni.

– E chi recrimina…E’ che mi manca qualcosa.

– Sì, lo so.

– Ma mica è quello che pensi te. Cretina.

– Beh se parlo con te, diciamo che sono sulla buonissima strada per sentirmi tale.

– Uffa, a me manca una amica.

– Come, come?

– Una amica, una con cui confidarmi e dirgli tutto. E ridere di quel che penso.

– Te non pensi, dimentichi che il cervello non sta in mezzo alle gambe.

– Che c’entra , scusa? Io con quello fatico ad andar d’accordo e lo sai. Lui dice sempre quel che è giusto o no, quel che si fa o no. Poi grazie a me, ripeto grazie a me, se la spassa e va in estasi. Ecco, io voglio sentirmi importante e allora ho pensato che voglio una amica.

– Sei lesbica?

– Noooooooo.

– Ma io sono piena di amiche, che mi vogliono bene, e a cui racconto anche i sobbalzi più intimi che fai. Non diciamo cazzate, per favore.

– Sì, ma lo dici tu…e io invece a chi lo dico? Rivendico il diritto di farmi capire.

– Te ti fai capire benissimo.

– Non è lo stesso. Io voglio urlare di gioia e dirlo che quando sto bene, non mi sento più relegata in mezzo alle tue gambe, lì in basso. Voglio dirlo che sono gigantesca e morbida  che potrei arrivare all’altezza del cervello e farlo stare zitto di paura, con i suoi si fa e non si fa, si deve e non si deve. Perché avrebbe paura di me, io sono immensa.

– Beh, insomma.

– Non è una questione anatomica ma di sensazioni.

– Sì, ho capito. Ma scusa, il problema è che non urli?

– Il problema è che non so con chi urlare!

– Ma come? Quando succede, urla, con me. Ma scusa, ti ho mai trascurato? Fatto mancare qualcosa? Non capisco.,,

– Che fai? Gridi all’ammutinamento?

– Ahhahahahah, adesso chi è la cretina?

–  Io voglio potermi confidare con qualcuno, senza che il cervello sappia. 

– Beh, lo fai con me.

– Ma te col cervello ci hai a che fare tutti i giorni…

– Se è una questione di gelosia, parliamone.

– E’ una questione di priorità. Chi ti fa stare bene? Io!

– Eh, lo so questo. 

– E allora? Perché non sei mia amica?

– Ma te sei pazza, io amica tua lo sono eccome. Mi preoccupo che tu stia bene, che non ti capiti niente di male, che tu possa esprimerti al meglio. O no? Vedi che sei qua per recriminare e basta? 

– E’ che poi a comandare è sempre è lui, il cervello. 

– Beh, ovvio…

– No, rivendico la mia importanza nella tua vita. Almeno al pari suo. Vedi che sei amica sua di più? Lui ti dice quel che è giusto o no, e tu lo segui. Invece, a volte, il giusto che penso io tu non lo consideri. 

– Lo dici. Ma decido io.

– Pensi sempre siano gli ormoni, e invece sono io!

– Sei una rompiballe, lo sai?

– Sì, come te. 

– Vero, ma io non so mica se tu hai sempre ragione. 

– Lui invece è infallibile, ho visto.

– Beh, a volte ha fatto cilecca. Capita a tutti. 

– Io non ho mai fatto cilecca.

– Boriosa.

– Stronza.

– Ti metto alla prova un mese.

– Sì, ma dopo? Che fai, mi butti via?

– Scherzi?

– No. 

– Ussignur…Visto che ci parliamo te lo devo dire. Io con te sto benissimo. Se rinascessi, rinascerei donna e rivorrei te.

– Non mi vorresti diversa?

– No.

– Non mi vorresti meno indipendente?

– No.

– Anche io non vorrei un altro corpo. Cioè…magari ti vorrei un attimino più figa, ma sostanzialmente mi vai bene. Mi hai sempre trattato bene. Non mi hai mai trascurato.

– E allora vedi che ti sei lamentata per niente.

– No, avevo bisogno di farmi sentire, di prendere posizione. Tu lo fai sempre, per una volta che lo faccio io…ti incazzi. Ma non mi fai paura! Rivendico il mio diritto di pensare al posto di quello lì, il cervellone.

– Ripeto. Ti do un mese.

– Ok, ti faccio vedere io.

– Adesso che si fa?

– Un bidet?

– Bon.

La volta che la Marisa cadde di culo

La Marisa comparve prima che potessi sentire il rumore del suo passo arrivarmi alle spalle. Me la trovai dietro all’improvviso. Due minuti prima ero alla fermata del bus, pacifica e serena. Un attimo dopo mi guardavo i piedi quando sull’asfalto, alle mie spalle, vidi netta l’ombra deforme da barbapapà.

Non feci neanche in tempo a girarmi per capire cosa era, che partì il primo ceffone. Fortissimo, una staffilata netta sulla guancia destra che scottava come quella volta che avevo scoperto che il ferro da stiro se te lo posi sulla faccia, acceso, brucia.

Ecco ricevere uno schiaffo dalla Marisa, era come beccarsi in faccia un ferro da stiro.

Con la guancia ustionata, cacciai un urlo, mi portai la mano alla faccia e poi aprii l’unico occhio che mi era rimasto sano per vedere chi era il responsabile di cotanto male.

La vidi

Enorme. Aveva una pancia che sembrava viver di vita propria, la Marisa. 

Vidi prima la pancia, poi lei. Una enorme massa gelatinosa che sporgeva dai jeans. Portava la cintura, le pance sembravano due.  Io non riuscivo a staccar gli occhi da quelle due pance, gonfie, che ballonzolavano ad ogni passo e che mi venivano lentamente addosso. L’occhio che fissava quel doppio sobbalzo, le fece montar la rabbia. 

Come tutte le ragazze obese, si incazzava perché non riuscivo a spostare l’occhio dall’effetto ipnotico di quel movimento gelatinoso, e quando mi ripresi, era troppo tardi. 

Lei mi respirava addosso. 

Aveva i capelli corti, troppo ricci, che donavano alla sua capigliatura la forma del fungo, aveva la faccia larga, con una bocca che sorrideva sguaiata e gli occhi piccoli e cattivi. 

Il rossetto ciliegia sulle labbra enormi, conferiva al suo viso un aspetto invecchiato, non dimostrava mica 17 anni. Aveva due anni più di me ma sembrava mia zia. 

Ora mi stava addosso. Strofinava le mani come se avesse voglia di tirarmi un altro schiaffo. Alla mano destra portava qualcosa che sembrava un guanto di lattice, e con l’occhio solo che mi era rimasto, mi misi a fissare quell’arto grosso come una paletta per le pizze nella speranza di schivare il prossimo colpo. E mi ritrovai stupita a fissarle la mano. Anulare, medio e indice erano infilati in tre lunghi cappucci, simili a quelli che il Gino mi mostrò quella volta che eravamo rimasti a casa da soli e lui voleva che lo toccassi in mezzo alle gambe.

La Marisa si allontanò da me come se all’improvviso le avessi fatto schifo e cominciò a vantarsi, a voce alta, di esser donna, di saper del sesso più di quel che noi, adolescenti liceali, potevamo intuire dai discorsi di mamma e papà. Lei ogni anno collezionava una raffica di fidanzati, tutti militari di leva alla caserma del paese, dicevano le mie amiche che avevano avuto già a che fare con lei.

La Marisa diceva che sapeva usarli bene quei cappucci, che tutti la volevano e che noi brufolose adolescenti liceali non avevamo neanche un’unghia del suo sex appeal. 

Ogni ragazzina che alla fermata del bus veniva picchiata da lei, raccontava poi che la Marisa prima di farle la faccia gonfia come un melone a suon di schiaffi, per rubar i cinquemila franchi che la ragazzina di turno aveva nel taccuino, e che erano la paghetta settimanale, ti arrivava addosso con le sue dita guantate con i preservativi e si vantava di tutti i maschietti in età da milite che si era fatta. 

Perché diceva, lei era bella, era cattiva e tutti avevano paura di lei. Anche i maschi avevano paura di lei. E tu che la guardavi, non potevi non darle ragione. 

Urlava che non ero niente, io che ero un terzo di lei in termini di densità corporea e non avevo avuto manco un settimo dei fidanzatini che lei diceva di aver avuto e per la paura mi ritrovai ad annuire. 

Aveva fantasia, la Marisa. Ogni volta il suo discorso sul suo esser bella, amata e ricercata da tutti i militari del paese era farcito da un pezzetto di storia in più. 

Stavolta, guardandomi da distante, raccontò di quella volta che prese a schiaffi quattro ragazzine in un colpo solo. Da sola. Poi raccontò del Pippo, il più cattivo del paese, che lei picchiò, disse, a mani nude e lui si innamorò poi perdutamente di lei. 

Poi arrivò l’urlo raccontato dalle amiche passate sotto le sue mani.

 “Tuuuuuuu, non sei niente”. 

E le diedi di nuovo ragione, perché aver davanti un simile molosso con le labbra color ciliegia e i capelli alla Julius Irving mi faceva sentire un microbo. 

Stava nelle cose. 

Tutti al liceo sapevano che lei era la ragazzina cattiva che a scuola non ci andava, perché non aveva voglia di studiare, e si divertiva ad aspettare le ragazzine alla fermata del bus del liceo, quelle che aspettavano il pullman per tornar a casa, per menarle e poi rubar i soldi della paghetta. 

Io, per quello, andavo a scuola il più possibile in bicicletta, che sapevo della Marisa ma mi avevan anche raccontato della fama di sua sorella Giuliana, che come cattiveria era peggio di lei, ma che era finita a lavar mutande e sfornar figli a raffica a vent’anni. Tanto che la chiamavano adesso la Coniglia.

Quindi potete capire bene che quando quel giorno mi son trovata la Marisa di fronte alla fermata del bus ho maledetto il sole, arrivato ad illuminare la fermata dopo una mattinata di pioggia che mi aveva costretto a lasciar la bici in garage. 

E già mi immaginavo il secondo schiaffone, se non aprivo il portafogli. 

Quel giorno avevo in tutto quattromila lire, che mille li avevo spesi per l’aranciata a scuola e così mentre guardavo la Marisa urlare che lei i pompini li faceva così bene che nessuno le diceva di no e che io ero una brufolosa cozza di periferia che mai avrebbe potuto esser donna come lei, e le guardavo i denti storti muoversi dentro la bocca color ciliegia, una tonalità così fastidiosa, mi immaginavo di finire schiacciata a terra, urlante nell’implorare pietà perché non avevo cinquemila lire da farmi rubare, ma solo quattro, e vedevo l’enorme deretano della Marisa schiacciarmi la faccia, mentre ero a terra, dolorante per le botte, e quelle natiche ostruirmi il naso fino a soffocare…

In lontananza vidi arrivare l’autobus, che mi sembrò la diligenza della speranza, e mi dissi che dovevo salirci anche strisciando carponi, sgusciando da sotto le natiche enormi della Marisa che mi stavano schiacciando la faccia e mi misi sul bordo del marciapiede davanti ad una enorme pozzanghera, che quella mattina, come vi ho detto, aveva piovuto forte, e l’autobus arrivava e la Marisa mi urlava nelle orecchie che non ero nessuno, che ero una cozza, che mi dovevo vergognare per i brufoli e intanto il bus avanzava, arancione e con lo sbuffo del diesel dal posteriore, e quando la corriera si fermò alla fermata, la Marisa, arrabbiata come un ossesso, si lanciò in strada per impedirmi il passo verso la salita dalla porta posteriore. 

Ma saltò così tanto che finì con entrambi i piedi dentro la pozzanghera e scoprii cosa era l’acquaplaning: ovvero il galleggiamento di un solido su uno strato liquido. La Marisa nell’impatto perse il passo e la sua enorme scarpa da ginnastica destra scivolò verso l’alto, portandosi dietro il resto. Vidi la bocca color ciliegia modificarsi in una smorfia e l’angolo sinistro del labbro sollevarsi e sentii perfettamente quel ”Orca madonna” uscirle dalla lingua e lanciarsi in aria e poi sentii il tonfo. E in quel momento, preciso, mi dissi che dovevo saltare sul predellino e andare. E saltai. 

E così mentre la Marisa cadeva di culo nella pozzanghera, io, nello stesso momento, saltavo sul bus della mia salvezza.  

 

 

L'uomo che ride

Quando l’ha fatto sono rimasta lì, sotto di lui, stupita. Ho inarcato la schiena per alzar la testa e sentire meglio. Non sbagliavo, avevo sentito bene. Era una risata. 

Mica ho capito subito. Rideva di me? 

Dentro la testa, in quella frazione di secondo che ci mette il cervello a distinguere tra il positivo e il negativo, ammetto che mi è passato davanti, l’ho visto nettamente e quindi posso descriverlo,  un ragazzo abbronzato con gli addominali scolpiti. Indossava solo un paio di  boxer rossi lunghi e teneva alto con le mani un cartello, come i segnapunti delle gare di boxe. Ma lì di solito son donne, è vero…

Sul cartello c’era scritto: “Rivestiti più in fretta che puoi”.

Per una frazione di secondo, avevo pensato ridesse di me.

Poi ho capito. E non mi sono rivestita. 

Sono rimasta a fissarlo mentre rideva,  e mi sembrava di aver trovato l’isola perfetta. Ero come il bambino che passa davanti alla gelateria, si ferma, e appiccica il naso alla vetrina, tenendosi con le mani, per vedere la meraviglia del grande paradiso in terra dei gelati di tutti i colori.

 

No, lui non rideva di me, era solo felice.  

Intimidito dall’aver svelato il suo segreto, subito dopo si è gettato sul cuscino, affondando la testa sulla mia spalla, come a cercar riparo dal mio sguardo e dalla mia faccia sorpresa e divertita. 

Il respiro affannato lentamente rallentava ma  il ritmo in calare era intervallato da piccoli scoppi di risate, sussurrate. Teneva la mano sulla bocca per non farmi sentire.

Non si vergognava, sia chiaro, ma era in preda al giusto imbarazzo che coglie chi svela il suo segreto. Senza manco un termine di preavviso.


Tutti i segreti si portano dietro quel momento di imbarazzo, tanto più se si tratta di corpi e menti che cominciano solo ora a conoscersi. 

E’ giusto così. 

Ci vuole qualcuno con cui condividerlo un segreto, affinché sia tale, e ci vuole quel momento di imbarazzo quando la bocca si apre e parte la voce. 

Se tieni i segreti per te sono solamente dei tuoi ricordi. Sono loro a renderli unici e avvincenti, storie perfette da raccontare.

Se non provi imbarazzo nel raccontarli, rischi di considerare ogni ricordo uguale all’altro, senza valore.

E il segreto più custodito, tra tutti,  è il mostrarsi per quello che si è davvero, quando si smette di parlare e si lascia che siano i corpi a dirsi tutto. 

Non so se lui sia rimasto stupito quanto me, nell’intuire il piccolo mistero, che è anche dentro di me e che io faccio finta non ci sia.

Non lo so, non ho chiesto. Per pudore. 

Io so che mi sono persa in quella risata che esplode e trasforma i suoi occhi grigi in una burrasca di sussulti. 

Un uomo che ride, per dimostrare quanto si sente bene, ora, qui e con me, è uno che ha capito tutto. 

E non gli devo dire niente. Lo devo lasciar vivere come vuole, sperando che la risata torni ad esplodere.

La prossima volta. 

 

Il ladro di pelle

“Ciao, mi manchi, sai? Ah senti, scusa: potresti ridarmi la mia pelle? “

“Tutututututututututututututu”.

 

Ma no, ostia! Non si può iniziare una telefonata così, dai. 

Non sarei compresa, mi prenderebbe per pazza. Direbbe che sono strana, assai. 

Cosa devo dimostrare? Io? Io, niente. 

Che son quella alternativa, quella che non sa dire mi manchi e basta?

Ma dai, siamo seri, Annalisa, perdio!

Rimetto giù il telefono, ecco.

 

Ci provo a variare pensiero, ho una pila di bollette sulla tavola da andar a pagare. Ma è più forte di me. Mi manca lui, e mi manca la mia pelle.

 Da quando è partito, io mi sento sempre vestita, anche quando mi spoglio e vado a dormire. E’ questo che mi da fastidio. 

Non mi disturba il fatto che sia andato via. Mica mi ha tirato un ceffone ed ha sbattuto la porta. Non si possiede nessuno, a volte manco sé stessi, figuriamoci se si riesce a possedere un altro. 

No, non è questo il punto. 

Vivo perennemente vestita, da quando lui se ne è andato. Non riesco più a sentirmi nuda.

E mi manca la sua pelle… e mi manca di più la mia.  

La sua è bianca, morbida, direi setosa. Elastica e profumata, quasi da bambolotto. Annalisa?..Macché bambolotto, per piacere!

E’ un uomo, scandisci con me le lettere: U-O-M-O…


Bella pelle, la sua, che mi ci farei un cappotto. 

Sì mi servirebbe proprio, un cappotto così, per riuscire a spogliarmi e risentirmi nuda. 

Invece, anche adesso che sono qui davanti a questo telefono, in mutande e reggiseno, in questo luglio africano, beh, io è come se fossi con il vestito che mi aveva regalato nonna, quello con la gonna stretta e la camicetta con le balze. Ho pure addosso le calze di nylon e le scarpe strette. Insomma, mi sento in un corpo non mio. 

Strano, perché so che queste gambe, queste braccia, questo ventre sono i miei. Ne conosco ogni centimetro, li studio ogni giorno, combatto per loro la mia quotidiana battaglia contro il tempo. Ma ora, lei, la mia pelle, non c’è. E io mi arrabbio. 

Mica era un banale epitelio inerte. No, lei reagiva prima del mio cervello.

Mi ha sempre detto cosa era bene e cosa fosse il male. Le bastava un tocco per capire come sarebbe andata a finire. Tocco sbagliato, meglio lasciar perdere. Tocco giusto? Parliamone. E’ sempre stata mia amica la pelle, ci siamo volute bene.

E adesso che non reagisce, io sono in preda al nervoso. Non sento la differenza tra me e un coniglio scuoiato da marinare.

 

Lui deve aiutarmi a tornar normale. Perché lui c’entra, ne sono sempre più convinta: siamo andati a passeggiare, mi sfiorava le mani e io, ricordo bene, ho cominciato a sentirmi mezza nuda. Siamo andati al ristorante e io mi specchiavo nei suoi occhi ed ero nuda, coi capelli sciolti, ma tenevo le scarpe, sì. 

Poi ho sentito il suo peso addosso, e son rimasta nell’unico modo in cui potevo stare. E la mia pelle ha cominciato a comandar lei. Macché epiteli, noi due avevamo i pori comunicanti. E abbiamo parlato con quelli, senza manco quella timidezza dell’inizio che c’è tra i corpi non noti.

Poi lui se ne è andato, mi ha lasciato anche un curioso biglietto.

Cosa c’era scritto? Ah, eccolo qui: “E’ mia”.

Io avevo pensato ad una cosa, ma adesso che son rimasta senza pelle, mi sa che avevo proprio capito male. 


Questione di igiene

Eccola, l’alba. Maliziosa la luce filtra dalla porta del terrazzo e Silvia si gira a sinistra e allunga la mano. Poi apre l’occhio. Non c’è nessuno accanto a lei. C’è solo il calore del lenzuolo a ricordare che quella metà di letto non era vuota. Quanto è passato? Un’ora o due? Dal calore, si dice Silvia, non deve esser più di un’ora che se ne è andato. 

Scosta la mano e si alza, sbuffando. 

Va in bagno, si siede sul water e si prende la testa tra le mani. E comincia a sentirlo, l’odore, che sale diritto dal ventre e dalla schiena e le cammina attraverso il naso fin dentro il cervello.

E’ acre, pungente. Odore di uomo. 

Silvia sorride, si porta il braccio al naso, per sentire meglio. La sua pelle si è impregnata di quell’odore. E Silvia se lo sente addosso bene, profuma di uomo. 

Si annusa lentamente, senza esagerare. Queste son sensazioni da centellinare _ si dice _ e rallenta. Poi si alza, diretta verso la cucina per preparare il caffè. Istintivamente apre il rubinetto della vasca da bagno. E mentre la moka è sul fuoco, torna a guardare l’acqua che velocemente riempie la vasca. 

Il bagno mattutino con l’acqua fresca è la sua sveglia. Prima di infilare il piede nella vasca, è tutta arruffata, assonnata, con la bavetta del sonno bimbo che si è seccata all’angolo destro della bocca. 

Solo dopo quel tuffo, tutte le mattine, rimette in moto le meningi indolenzite dal sonno. 

 

Stavolta il passo non lo fa, Silvia,  per entrare nella vasca. 

Resta a guardar l’acqua e pensa:  lavandomi, l’odore andrà via. E dovrò aspettare il suo ritorno per riaverlo addosso. Ma tornerà? Quando? Mica l’ha detto. 

E allora corre in cucina: sulla porta del frigo non c’è alcun biglietto, stessa cosa sulla porta d’ingresso. Messaggi, zero. Non pervenuti. 

Tornerà? Ma quando?

Io, senza il suo odore addosso, non resto, si dice Silvia. Delle due l’una, cancellare o centellinare, trattenendo. Mica posso strizzarmi la pelle come un asciugamano bagnato ed estrarre il nettare per depositarlo in una bottiglietta. Mica posso chiamarlo e chiedergli di tornare per lasciare un campione di sé. Mi prenderebbe per folle e avrebbe pure ragione. 

E allora Silvia decide da sola: niente bagno mattutino, l’odore che porta addosso, va preservato. Si infila l’accappatoio, come a voler proteggersi, si dirige al lavandino. Con gesti veloci, si sciacqua la faccia. Almeno quella. Poi un passaggio veloce con la spugna sotto le ascelle. E basta. 

La schiena, il collo, la pancia, vanno salvati dall’azione detergente. Silvia si guarda allo specchio e si sente come una bimba sorpresa a mangiar la Nutella di nascosto, con il dito ancora sporco di cioccolata. Arrossisce al pensiero che le dice che per oggi  l’igiene può passare in secondo piano.

Lei ha solo voglia che quel profumo le resti addosso il più possibile. Vuole odorare di uomo, di lui. 

E c’è solo un modo: non lavarsi nei punti dove lui ha sostato a lungo, divertendosi e divertendola, impregnandole la pelle. 

Silvia annuisce a se stessa, ride e arrossisce. Se sapessero in ufficio, le colleghe la prenderebbero per matta. E per una poco attenta all’igiene.

Una persona non pulita equivale ad una persona da temere. E’ una persona che non si vuole bene. Ma qui non si tratta di affetto per sé _ pensa Silvia _ qui si tratta di preservare una perfezione. E’ una situazione di emergenza.

Lo avesse addosso tutti i giorni, quell’odore, si abituerebbe al fatto di cancellarlo al mattino, in cambio della certezza di ritrovarlo la sera. Ma così non è. E quell’odore è troppo forte, la inebria, la riporta diritta sotto di lui. Non ha voglia di dimenticare, Silvia. Meglio una giornata senza igiene personale _ si dice _ che veder svanire sotto l’acqua la scia chimica di una notte d’amore.

E non sentirsi più la pelle d’uomo.  

 

Il pigiama

“Tu sei una roccia; se non ci fossi, io sarei persa”. Martina mi sorrise e appoggiò la testa sulle mie gambe. Aveva gli occhi gonfi dopo una notte passata a piangermi sulla spalla. Io ero lì, incurante della camicetta bianca che si stava macchiando

di rimmel. Erano gli occhi della mia migliore amica a mollare quella bava nera.

Mi aveva chiamato alla dieci di sera. E mi aveva chiesto di andar da lei. Subito.

“Ci siamo lasciati, vieni per favore. Sto malissimo”. Io ero a letto ma mi infilai di corsa la camicia e i jeans, e corsi da lei, in macchina.

Lungo il tragitto mandai un sms a Pietro. “Che cazzo avete combinato?”.

Ma Pietro non rispose.


Quando Martina mi aprì la porta, capii subito che se la passava male. Niente vestaglia nera, la roba sessuosa, come la chiamavo io. No, indossava il vecchio pigiama felpato rosa, quello che la faceva sembrare un Teletubbies rosato e gonfio. Quello che indossava prima di conoscere Pietro, quando abitavamo assieme.

Odiavo i Teletubbies, odiavo quel pigiama, ma non glielo avevo mai detto. Anche perché glielo avevo regalato io.

“Eccoti, finalmente. Gli ho urlato che non ne potevo più, capisci? Di lui, dei suoi silenzi, del modo in cui mangia, della sua passione per quei cavolo di Lp. E lui se ne è andato senza dire una parola”. Martina si gettò addosso a me , mi aveva scelto come scoglio.

E io rimasi ferma ad accarezzarle i capelli mentre lei mi annegava la camicetta con un pianto continuo. La camicetta che indossavo quella sera me l’aveva regalata proprio Pietro un anno fa ma la portavo solo da pochi mesi.

L’aveva infilata in un sacchetto arancione da cui spuntava un enorme girasole. Quando la provai, notai subito che era stretta. Glielo dissi e lui rispose che aveva trovato solo quella taglia. Era fatto così Pietro. Non diceva mai le cose direttamente, ma lo faceva coi regali. Voleva invitarmi a prendermi cura di nuovo di me.

Il messaggio era arrivato.


A cosa pensavo quella volta che avevo comperato quell’orrendo pigiama da bambina gonfia a Martina? Mi ritrovai a pensarci, mentre lei mi raccontava dell’ultima ora passata con Pietro, dei silenzi, di quel non-ne-posso-

più e della faccia di lui, che la fissava con odio, usò proprio quella parola, e del passo deciso di lui verso la porta.

“Tornerà _ le dissi _ ha lasciato qui tutto, anche le racchette da tennis”.

Martina riesplose a piangere, prendendo nervosamente la scatola dei fazzoletti che avevo lasciato sul tavolino davanti a lei. Mi spiegò che andava male da tempo, che era infelice. Voleva la vita di tutti, disse: una bella casa e la macchina nuova, grande, per i figli che sarebbero arrivati. Pietro invece spendeva solo per la sua collezione di Lp. 

“Tornerà e gli parlerai e gli dirai che lo ami e che vuoi stare con lui _ continuai _ Risolverete. Adesso lui è troppo arrabbiato e tu sei troppo disperata. E’ meglio se state lontani, almeno per una notte”.

“Tornerà, sì”, ripeté lei, accoccolandosi con la testa sulle mie ginocchia, senza più lacrime. “Tu sei una roccia, senza di te sarei persa”, mi disse e si mise a dormire.


Ci aveva creduto. E io mi sentii una merda.

 

Sì, tornerà. Solo per prendere le racchette da tennis, i vestiti, i suoi libri, la collezione degli Lp dei Pink Floyd. E quando se ne andrà,  di nuovo, capirai, cara, che ti ha lasciato sola con la sua assenza.

Porco cane, non si può far finta di niente e tornare a dormire assieme dopo che hai sentito nettamente quelle parole.

Non-ne-posso-più.

Come si fa a guardarsi in faccia dopo che hai detto: mi dai fastidio.

Non è come il solletico della piuma sulla pelle. Non c’è un cazzo da ridere. Davanti non hai più chi ami ma un estraneo, con un odore della pelle che non riconosci.

Non-ne-posso-più. 

Fa male dirlo, fa peggio sentirselo dire.

Che fai? Replichi? Non puoi. Non è che resti senza parole, ma in bocca ti ritrovi con un bolo amaro che devi correre a sputare altrove , il più possibile lontano da chi ti stringeva forte quando avevi la febbre a quaranta e stavi male; da chi guardavi tutte le mattine dormirti addosso.

Martina mica lo sai cosa vuol dire, tu, sentirselo dire. L’hai detto, ti sei liberata. Lo ha sentito, è condannato.

 

Tu vuoi la favola, Martina. A me basta fermar l’incubo.

 Forse le avevo regalato quell’orribile pigiama per trasformarla da bella principessa perfetta in goffa Teletubbies? Ho l’inconscio davvero stronzo, io.

Che stupidaggine, poi, la storia della roccia.  Solo da qualche mese riesco ad alzarmi dal letto, lavar la faccia, vestirmi e piacermi un pochino davanti allo specchio. Ma in bocca ho sempre un retrogusto amaro, e temo si senta. Quel bolo mica l’ho sputato, io. L’ho inghiottito.  

Non-ne-posso-più: si va oltre il vaffanculo, si esige la sparizione. 

E io non c’ero più. Perché non te l’ho detto, Martina? Per non preoccuparti.

 

Guardai il cellulare, lampeggiava. Era arrivato un messaggio.

“Sto vomitando, ci sentiamo”. Era Pietro.

Il collezionista

Ore 17.28.

Gino, il pasticciere, sa bene che la consegna va effettuata il 15 di ogni mese. Non serve più dirglielo. Cinquanta stecchi per il gelato, confezionati all’interno di una plastica sotto vuoto, che Mario , l’impiegato della banca, sarebbe passato a ritirare nel pomeriggio. Non c’era alcun timore. Mario è puntualissimo, paga, sorride, si beve un caffè e se ne va. Gino  è convinto che Mario sia un patito dello stick alla menta fatto in casa, e mica obietta, anche se gli stick artigianali li fa pure lui,. Ma son due  anni che Mario ogni 15 del mese, arriva alle 17,30, spacca il minuto in quattro, paga i 50 legnetti, sorride, discorre un attimo del tempo o del risultato della Juve e poi  beve il suo caffè rigorosamente senza zucchero e se ne va. Lasciando una mancia di 5 euro  per le cameriere. Ce ne fossero sempre clienti così, puntuali e che lasciano sempre la mancia, dice tra sé e sé il Gino, e poco importa a quel punto che il Mario si faccia i ghiaccioli in casa invece di comperarli da lui. 

E’ un signore uno che chiede 50 legnetti per il ghiacciolo domestico. Ben altro gusto rispetto alla plastica che tanti usano per lo stick fai da te. E allora Gino collabora.

A lui,  i signori piacciono, gli ricordano suo padre che mai usciva di casa senza giacca e cravatta, anche dopo la pensione da bancario. 

 

Ore 22.00.

“Ancora? Mario ma hai la fissa?” 

Marina ride mentre Mario la fissa diritta in mezzo alle gambe e con un bastoncino di legno le solletica dentro. In fondo.

“Dai, vieni qui, ho voglia di te”.

“Aspetta un attimo, che ho quasi finito”.

“Non voglio sentire il bastoncino, ho voglia di sentire te, dai”.

Mario è attentissimo, deve far tutto in fretta. Lo sa e non può lasciarsi distrarre dalle moine di Marina. Estrae il bastoncino, corre in cucina e lo infila nella formina piena di acqua. Con un pennarello traccia un “Ma” sulla base dello stecco che fuoriesce dallo stampo e lo caccia in freezer.

Poi chiude la porta del frigo, sorridendo, e torna in camera.

“Eccomi”.

“Era ora, stavo per addormentarmi. Ma ogni volta la stessa storia…”.

Mario le impedisce di proseguire nelle recriminazioni salendole sopra e bloccandole le braccia con le gambe.

Poi Marina emette solo mugugni e Mario se la ride.

E pure lei se la ride. Ha avuto quello che voleva.

“Che buon sapore che hai”.

 

Ore 11.00.

 Mario in mutande in cucina prepara il caffè. Marina non c’è più , se ne è andata all’alba, il letto è sfatto. Sul cuscino è rimasta ancora una lieve traccia del suo odore. Acre ma saporito, mescolato a quello di Mario, pungente come un limone, ma oramai quasi impercettibile. Due odori mescolati dalla chimica, era stato così fin dalla prima sera che si eran visti in quel bar. Lei mangiava da sola. Ricordava tutto, il Mario.

Lei  aveva davanti una mezza pinta di Guinness e un panino al pollo. Ma aveva lo sguardo perso, in direzione della porta, come se aspettasse qualcuno.  E il panino stava freddando.

“…Il mio pensiero vola e va, ho quasi paura che si perdaaaaaaa”.

Si ritrovarono a cantare insieme “Impressioni di settembre” sparata a manetta dall’impianto hi-fi del locale.  Lei persa a guardare la porta del bar; lui perso a guardare lei.

“…Cosa sono, adesso non lo sooooo…”.

Gli sguardi che si incrociano, lei al tavolo, lui al bancone, un sorriso che lega all’improvviso due facce estranee, un comune sentire, una complicità evidente solo a loro, che travalica l’imbarazzo e diventa voglia di capire. L’odore della sua bocca che vuole mangiarlo da dentro, dalla lingua fino al colon, e non smette e lo inquieta dentro l’auto di lui parcheggiata a pochi metri dal pub. E  poi quell’altro odore, che eccita Mario, fino a non fargli capire niente.

 

Ore 11.10.

Mario scuote la testa per scacciare il ricordo di quella bocca e di quelle grandi labbra carnose e sugose. Apre il frigo, tira fuori lo stick, lo lascia riposare qualche minuto sul tavolo di legno, stacca la formina di silicone e si mette in bocca quel pezzo di acqua ghiacciata. Picchietta con la lingua lentamente, per invitarlo a sciogliersi, che ora non sa di niente. Ma  Mario sa che deve avere pazienza, prima o poi arriva il sapore, incollato allo stecco di legno. Per mesi aveva provato infinite varianti per dargli subito sapore. 

Ma la menta e la fragola in sciroppo eran eccessive, gusti assassini. Niente alcol, che non ghiaccia. Nulla di aromatico, avrebbe alterato il sapore. 

Bastava alla fine la cosa più semplice: l’acqua del rubinetto, lasciata decantare 24 ore nell’ampolla aperta, per togliere fin l’ultima traccia di cloro. Acqua pura, per accogliere un umore puro, il miglior profumo di donna.  La sua.

Congelamento,  per fermare il tutto; una notte in frigo, e 50 stecchi al mese a disposizione per evitare errori, per garantirsi una scorta di sapore per i mesi difficili, come facevano i montanari con il cibo quando dovevano affrontare l’inverno, con il gelo che impedisce di metter il naso fuori di casa anche solo per andar a prendere il pane. 

Lui quando aveva voglia di lei, e Marina non c’era, deviava sullo stick.

Ecco, quando Marina spariva e lo faceva per mesi, Mario aveva la scorta del suo sapore e quando si sentiva perso, gli bastava aprire il frigo.

 

Non era nato per fare l’amante, ma per lei lo era diventato. Era un signore, mai avrebbe parlato di un aut aut. O me o lui. 

Era una richiesta eccessiva, da narcisisti. E Mario non lo era, pensava leccando lentamente il ghiacciolo d’acqua. Poi cominciò a sentire il sapore acre, in fondo. 

 Perché stai con lui, Marina, che ti tocca solo nei giorni comandati e manco ti tocca bene, e ti chiede di lavarti, prima e dopo. Perché stai con quello stronzo, Marina, che manco sa distinguere il tuo sapore da  quello di una cotoletta agli spinaci? Perché stai con uno che non perde ore ad annusare i tuoi slip, cercando la tua traccia?

 

Ore 11.20.

Mario scuote di nuovo la testa, per scacciare quei pensieri, quelle parole che non vuole dire perché sarebbero inutili, rovinerebbero tutto e la chimica dovrebbe lasciar il posto ai pensieri.

Separazione, divorzio. Parole troppo pesanti da affrontare a 50 anni.

 E così Mario butta, infastidito dai suoi pensieri, l’ultimo pezzo di ghiacciolo nella pattumiera. Una reazione infastidita, un gesto automatico, comandato dalla pancia. Perché quel sapore che sentiva dentro grattargli l’anima non era suo?

Ma la ragione prevale e il cervello qualche secondo dopo, ordina a Mario di non sprecare. E lui corre verso la pattumiera, prende lo stecco con l’ultimo pezzetto di ghiaccio e se lo infila in bocca. Poi sorride, inghiottendo l’ultimo pezzetto. 

“Ti amo tutti i giorni, anche se non ci sei”.

 

 

L'anello nero

Se tocco l’anellino di plastica nera, che mi hai regalato, mi ricordo dei nostri minuti lenti.

Che importa se ti è costato meno di un euro. 

L’avevi comperato in una bancarella e sorridendo me l’hai infilato al dito con un gesto da cavaliere gentile. Con la stessa gentilezza che si usa quando si regala un diamante, prezioso. 

Eravamo a passeggio in centro, e mi avevi offerto il braccio per tenermi diritta, e io mi ci sono attaccata, al tuo braccio, certa che il passo non l’avrei perso. Un appiglio sicuro dopo una serata troppo allegra. Ci eravamo conosciuti quel giorno e avevamo troppa voglia di godercela la gioia della conoscenza per non darci all’allegria.

Da perfetto cavaliere gentile mi hai donato quella fedina nera e di plastica e io mi sono sentita bene e quando mi hai sfiorato i capelli, togliendo il ricciolo che mi si era posato impertinente sulle labbra e mi hai sorriso, io mi sono sentita pure bella. 

Nella mia testa all’improvviso io ballavo come Ginger Rogers, e tu eri il mio Fred, mi tenevi per non cadere durante le nostre piroette lungo la strada. E così , con quei passi di danza accennati dentro la testa, siamo andati verso l’albergo.

“Ti accompagno di sopra”, mi hai detto. 

E io ho annuito, perché il tuo braccio non potevo lasciarlo come in barca non si lascia mai il remo. Ne avevo bisogno per non piegare a sinistra, tu te ne eri accorto e mi canzonavi, dicevi che dovevo portar i piedi a rifar la convergenza, e ridevamo e ad ogni passo sui gradini mi spingevi, lievemente, con la mano sinistra che sfiorava la mia schiena, poco sopra la cintura dei jeans. 

Un tocco lieve ma era la certezza che tu eri lì, mio cavaliere gentile, a rendermi leggera. E visto che la chiave non riuscivo ad infilarla nella toppa, tu, che mi canzonavi ancora per l’andatura sbilenca, hai aperto la porta della camera e mi hai spinto dentro, con gentile decisione. 

Poi io mi sono gettata sul letto e tu mi hai detto “ ti spoglio io” e ti ho lasciato fare che non sapevo far da sola. 

Hai cominciato dalle scarpe, poi sei salito fino ai miei pantaloni, poi via anche la maglietta. Poi sei rimasto a guardarmi, avevo il completo color cipria, i seni ribelli che uscivano dal reggiseno e sorridendo ti sei chinato per sistemarlo, e allora io che ancora ridevo, ti ho preso la testa fra le mani, accarezzandoti i riccioli, e fissandoti negli occhi. 

E dentro quegli occhi blu son finita a vedere il mare, quello ventoso delle sei di mattina d’estate, quando in spiaggia non ci trovi nessuno, solo qualche cane randagio a passeggio. Forse hai capito che io ti vedevo dentro il mare e tu, cavaliere gentile, mi hai abbracciato. E mentre lo facevi, io sentivo la mia pelle scaldarsi al tuo abbraccio e non ho reagito, non ti ho spinto indietro, sono rimasta invece a godermi il tuo calore. 

Io pensavo al mare, eri caldo come una coperta da indossare per andar fino a riva a godersi il rumore delle onde e del vento e a te andava bene esser coperta, e ti sei allungato sul letto fino a coprirmi sfiorandomi la schiena con le tue belle dita, slacciando i gancetti del reggiseno, sfiorandomi la pelle libera, senza fretta. 

Poi sei sceso con la mano e mi hai stretto tra le cosce e io ho cominciato a sentire ancor più caldo e non avevi voglia di smettere come io non avevo alcuna intenzione di non sentire questo calore e allora mi è venuto in mente un falò sulla spiaggia di sera, di quelli dove spunta sempre una chitarra e una bottiglia di vino. Davanti al falò si partecipa. E ho cominciato anche io ad accarezzarti, a spogliarti,  a sfiorarti le spalle, poi man mano che ti liberavo dai vestiti, a baciarti e stuzzicarti l’ombelico, a sfiorarti tra le cosce. 

Poi ti sei girato, mio cavaliere, e dopo poco è apparso lui, tra di noi, e ci giocavamo e a te piaceva e pure a me piaceva, eravamo caldi e anche lui è diventato caldo ed era un terzo, ma mica incomodo; no, era partecipe come un complice sa esserlo ed io collaboravo perché era come correre la mattina presto sulla spiaggia, tutti sudati ma felici perché poi arriva il momento del gelato come quando eravamo bambini. E noi bambini, voraci e golosi, lo eravamo per davvero e poco ci interessava che ci fosse quello, tra noi; era parte del gioco come i gelati sulla spiaggia. Non so, secondo me è durato ore, poi ci siamo addormentati, abbracciati e sudati e lui era sempre lì, tra noi, ma noi eravamo abbracciati e lui era solo. 

Al  mattino, è stato la prima cosa che ho visto quando ho aperto gli occhi.

Era nero e di plastica. Proprio come l’anellino che mi avevi regalato, Cecilia.