Un nuovo ebook per quelli di Barabba Edizioni, che sono quelli delle Schegge.
Stavolta si racconta di cicatrici.
E io ho scritto del “Drago”.
Lo leggi qui:
http://www.miomarito.it/barabba/cicatrici/Cicatrici.pdf
Archivio Mensile: Luglio 2011
Il drago
Amarsi
Otello ha quasi sessant’anni, fa l’impiegato all’ufficio del Catasto. E’ vedovo da cinque anni e da quando sua moglie Algisa è morta, per un tumore all’utero, non è mai andato a comperarsi da vestire da solo. Prende l’autobus per andare in ufficio tutte le mattine alle 7.30, così ha tutto il tempo di bere un caffè con i colleghi prima di salire.
Alle 13 fa la pausa pranzo con un panino e una coca cola al bar a fianco del palazzo del Catasto. Alle 16.30 esce per tornare a casa, va a prendere l’autobus a due fermate di distanza dall’ufficio, così si impone di camminare.
Ogni giorno Otello passa davanti alla vetrina di un negozio di intimo, uno di quelli delle grandi catene che si trovano anche nei centri commerciali. Sta a pochi passi dalla fermata del bus. Non si ferma mai a guardare, perché a lui l’intimo non serve. Algisa, prima di morire, aveva imparato ad usare il computer, stava sempre a casa da sola, attaccata alla flebo e si annoiava, e così aveva scoperto internet e il commercio elettronico e un giorno, approfittando degli sconti di un negozio online, gli aveva comperato delle mutande e delle canotte grigie, bianche e blu. Solo che nel digitare l’ordine aveva sbagliato qualcosa perché erano arrivate a casa sessanta mutande e sessanta canotte.
Poi le sue condizioni si sono aggravate e nessuno ha pensato più a contestare l’invio di quel carico. E a cinque anni dalla sua morte, Otello aveva ancora l’armadio pieno di slip e magliette di cotone grigio, bianco e blu. A lui non serve molto.
Le camicie che gli aveva comperato la Algisa sono ancora perfette, i vestiti gli vanno benissimo tanto non è ingrassato di un etto. Compera solo le scarpe, due paia l’anno e gli va bene così. Ogni pomeriggio prima di rincasare va all’alimentari vicino a casa e prende o un etto di cotto o un etto di prosciutto crudo, un pochino di verdure cotte già pronte oppure quelle grigliate nella vaschetta dall’alluminio, poi due panini, la bottiglia di minerale. E sta a posto per la cena. Il vino lo prende al bar da Ettore. Un bicchiere di cabernet o due se la giornata è stata particolarmente pesante. Li beve al banco prima di salire in casa.
Sua moglie gli alcolici in casa non li aveva mai voluti, facevano tanto povertà, gli diceva, e allora lui si è abituato e anche adesso che sta solo da cinque anni continua a rispettare quell’imperativo del passato e il vino, che gli piace, lo beve solo al bar, tra un discorso e l’altro con l’amico Ettore.
Poi la sera quando sta sul divano a vedere la televisione, ogni tanto pensa che sarebbe stato bello uscire.
Annalisa a 50 anni si sente ancora una bella donna. Certo ha qualche capello bianco che nasconde, astuta, con la tinta castano miele ogni tre settimane; ha anche qualche chilo di troppo, specie sulla pancia, ma gli uomini di solito si fermano ad osservarle il decolletè ancora rigoglioso, strizzato dentro i reggiseni pieni di pizzi che le piacciono tanto. Che poi a lei non costano praticamente niente, visto che li vende. E’ la padrona di un negozio di intimo sulla strada che dal palazzo del Catasto porta al centro. Ogni giorno si sveglia e tiene il conto delle rughe sotto gli occhi, va a preparare la colazione alla figlia che dorme ancora e poi si beve il suo caffé sul terrazzino, guardando fuori. E si fuma la prima delle sue venti sigarette giornaliere. Ha cominciato a guardare fuori al mattino presto quando Enzo le ha detto che non si potevano più vedere, perché la moglie gli ha dato l’ultimatum.
O a casa o fuori di casa, da solo.
Da dieci anni Annalisa era l’amante di Enzo e lei si era abituata al fatto che non avrebbe mai dormito con lui, perché Enzo la sera dormiva con la moglie. Ma anche in quella situazione precaria
Annalisa era convinta di aver trovato una serenità. L’abitudine di un affetto feriale, possibile dal lunedì al venerdì, weekend e feste comandate escluse. Enzo con lei non aveva mai fatto lo stronzo, non le aveva mai promesso di sposarla. Ma lei un pochino aveva sperato, specie quando arrivava Natale e il 23 dicembre organizzavano sempre una cenetta in casa e lei apparecchiava tutto come se fosse il cenone della vigilia. E quando lui stappava lo spumante, lei per un attimo, ogni volta per dieci anni, ci sperava che lui le dicesse che non tornava a casa e dormiva da lei.
Invece una sera di sei mesi fa lui si è presentato alla porta, con la faccia preoccupata, e senza manco entrare le ha detto, lì, sul pianerottolo, che non si dovevano più vedere perché la moglie non voleva. E Annalisa si è abituata al mattino ad uscire in terrazzo a fumare e a guardare verso il fondo della strada. All’inizio lo faceva per piangere di nascosto, poi per vedere se lui arrivava. Poi non ha più guardato lontano. Adesso fatica anche a vedere chi passa davanti alla vetrina del suo negozio.
Otello e Annalisa si sono guardati negli occhi, attraverso il vetro della vetrina del negozio, una mattina qualunque, di quelle che non ricordi bene che odore c’era nell’aria.
Lui è passato davanti al negozio mentre andava alla fermata e si è fermato lì davanti per tirar fuori dalla borsa i fazzoletti. Lei stava sistemando uno dei manichini, era senza scarpe sopra la pedana e teneva la faccia verso il pavimento per sistemare la base.
Lui si è girato verso la vetrina, senza alcun motivo.
Lei, in quel momento, ha alzato gli occhi.
Si sono guardati.
Sono rimasti lì a fissarsi cinque minuti buoni, anche se non c’è la prova di un cronometro a testimoniarlo.
Lui ha visto Annalisa e ha pensato che occhi così belli ne aveva visti raramente, forse da ragazzino al mare con i suoi sulla spiaggia di Jesolo quando con gli amici giocava a costruire i castelli di sabbia e guardava le ragazzine tedesche, le prime turiste del litorale, con le trecce bionde e il pallone a spicchi gialli, rossi e verdi, sotto il braccio. E c’era una ragazzina che aveva quegli occhi lì. Come si chiamava? Chi si ricorda. Otello ha pensato, poi, che dopo Algisa non ha più toccato una donna.
Lei ha guardato la faccia di Otello e ha pensato che quel signore aveva dei capelli bianchi bellissimi, di un colore che le ricordava la neve, quella che erano anni che non vedeva più, perché
per stare con Enzo aveva anche smesso di andare a sciare. Aveva dimenticato la passione per la neve.
Adesso tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, di pomeriggio, tra le 16.30 e le 17, Otello e Annalisa si guardano e si sorridono attraverso la vetrina del negozio di intimo. Lei non guarda più lontano, la mattina in terrazzo, ma in compenso in negozio alle 16.30 dalla postazione della cassa tiene il viso puntato verso la vetrina per vedere se passa il bel signore con i capelli bianchi.
Lui ogni giorno si inventa una scusa per fermarsi là davanti a cercare lo sguardo di Annalisa in mezzo ai manichini e alle clienti indaffarate. L’unica scusa sarebbe entrare per comperare qualcosa, ma ha sessanta paia di mutande in armadio e non se la sente.
Lei potrebbe uscire a fumare una sigaretta ma ha deciso che deve smettere.
E allora stanno lì a guardarsi. E lui si sente in spiaggia e lei sta sdraiata in mezzo alla neve.
La veglia
E’ qua accanto a me che dorme e russa. Il sibilo che precede le sue apnee sembra il fischio della teiera quando l’acqua comincia a bollire. E io mi sveglio perché se il suo russare ritmico è una sorta di sottofondo al mio sonno, quando iniziano le apnee e io non sento più il suo respiro per 20, 30 secondi, ogni volta credo che muore e mi sveglio. Il fatto è che se muore, io voglio vedere. Esserne certa.
Assieme a Aldo o Mario (non importa) ci sto da dieci anni e anche se è un uomo noioso e insopportabile, tutto avvitato nelle sue fissazioni, senza un accenno di gioiosa voglia di novità, io mi sono abituata al fatto che c’è.
Ma se vuole andare, che vada.
Io venti anni fa mi sono innamorata di Ugo e con lui ho vissuto benissimo fino a dieci anni fa. Ugo si metteva sempre in gioco; trovava sempre un motivo per un sorriso al mattino, appena svegli, e alla sera prima di dormire. Adesso a questo uomo qui, che mi ritrovo nel letto, io sono solo abituata.
Me lo sono ritrovata in casa all’improvviso, non l’ho scelto io.
Certo, lui c’è. Se lo chiamo arriva, con i suoi silenzi rende la casa un pochino meno vuota. Di conseguenza se muore in una delle sue apnee notturne, un pochino mi dispiace. E’ la sensazione che fa il vedere una epigrafe con la foto del morto che è un tizio che hai visto un sacco di volte e ti coglie quell’umano dispiacere per chi ci lascia.
Non escludo che in caso di necessità, sua di Aldo o Mario, se si ritrova una notte a rantolare cercando l’aria, con gli occhi sbarrati per la paura, alla fine, una mano per farla finita in fretta, gliela do volentieri.
Non si lascia nessuno a rantolare o a morire da solo.
Ma non credo che si possano preventivare queste cose; capisci cosa devi fare solo se ti ci trovi. Insomma, è un’ipotesi come tante.
Io sto di notte a vegliarlo Aldo o Mario per vedere se muore trattenendo il fiato ( e lui lo fa ogni due, tre minuti, per 30, 40 secondi) o se la smette e russa e basta. E mi lascia dormire, senza pensieri.
Di sicuro se lui muore non piango tanto quanto ho lacrimato per la morte del mio amore, Ugo, l’uomo che amo e che amerò sempre. Si può amare una persona che non c’è più e non amare una persona che c’è.
Questo è certo. Questo lo so perché è una di quelle cose che si sanno, vivendo.
E’ successo una sera, dieci anni fa, e Ugo lo piango ancora, da sola in bagno, quando carico la lavatrice. L’altro non si accorge di nulla. E’ morto anche Ugo, senza accorgersene, ma io sì, ho visto perfettamente tutto. Eravamo in cucina e stavo sparecchiando, faceva caldo, era estate piena, mi pare luglio, che è un mese appiccicoso, con l’umidità dell’aria che entra in casa, e io stavo sparecchiando la tavola e con la gamba nuda, involontariamente, ho sfiorato il piede di Ugo.
A lui piaceva a tavola, quando eravamo da soli, togliere le ciabatte, accavallare la gamba e tenere il piede sospeso davanti al ventilatore. E quando si giocava, perché io e lui giocavamo sempre, era la lieve carezza del suo piede sulla mia coscia a dirmi che era il momento.
Era sempre stato così, fin dalla prima volta che ci eravamo conosciuti, alla cena aziendale e c’eravamo ritrovati, per caso, seduti in pizzeria uno davanti all’altra e a suon di parlare e raccontare, eravamo arrivati al punto che ci eravamo dimenticati di stare in mezzo ad altre trenta persone e sotto il tavolo, lui sfilò il mocassino e venne con il piede calzato di blu a cercarmi la caviglia.
Era diventato come un segnale tra noi due, quello.
Invece quella sera che io, lo ripeto, involontariamente, lo sfiorai sul piede con la gamba, lui non sentì niente.
Era tutto preso dal raccontarmi che si sentiva senza forze, senza voglia di fare. Come sospeso in una lunga apnea, diceva. Senza emozioni, senza stimoli, senza prospettive e speranze.
Io non ci ho fatto caso subito, che quando uno si sente il disagio dentro non puoi pensare che lo lasci da parte per mettersi a giocare con te. Ma dopo ho capito.
Da quella sera non ha più avuto voglia di giocare con me. Non ha più pensato a ridere e progettare con me.
Sono passati dieci anni e ho perso anche il conto delle volte, che intenzionalmente, che cavoli, ho provato a sfiorarlo sul piede, sul collo, sulla mano, a baciarlo e ad abbracciarlo stretto, per fargli sentire che mi mancava. Niente, Ugo è morto e non ha più occhi.
E questo qua che mi dorme accanto, e che trattiene il fiato ogni notte, ripetutamente come un gioco sadico del vado oppure no, è un estraneo. Lo chiamo Aldo o Mario, perché uno così mica si può chiamare come il mio Ugo.
Ma lui si ostina a dire che si chiama Ugo, invece, e allora io lo assecondo a voce alta, che a vivere con uno in casa e battagliare tutti i giorni perché millanta un nome che non è suo, non è vita. Ma quando lo penso, e capita poco, non lo chiamo proprio o uso un nome diverso, Aldo o Mario, appunto, va bene uguale.
E ho cominciato ad uscire da sola, a camminare la sera per il viale, un passo ogni sera più lontano da casa.
E camminando mi dico che io mica sono morta, che avrei diritto non dico ad uno straordinario di felicità ma almeno al minimo sindacale; sì, dovrei vivere con qualcuno che amo e non con un estraneo che non mi vede. E poi c’è questo fastidio, che monta, rancoroso, che io mica sono solo fatta di cose da fare e da sistemare, ho un corpo io, e un cervello, che hanno bisogno di carezze e baci e strofinamenti e calore.
Ho una pelle che la devi curare e pori da lasciar secernere e saliva da mescolare e giochi da fare. E sogni e risate.
Che sono femmina, anche se in menopausa, ho caldo più dentro che fuori e desideri che sono più di prima, più di quando Ugo c’era.
Lui mi manca.
Mentre questo, Aldo o Mario, non importa, dorme e ogni notte muore un secondo in più.
E io lo veglio, li conto i secondi. Metti che va.