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2 Maggio

Il 2 maggio parlo di “Ottanta lettere”  e di finzione ad un corso di universitari milanesi.

Gente che si è letta Calvino e poi me… Incrociate le dita.

Se ne esco intera, vi racconto 🙂

 

(Allego comunicato, metti che qualcuno voglia esserci).

 

02-05-2012 Comunicato Chiarin @fondazione milano

 

 

Istantanea 56

Sono marmellata
sono buona
sono senza zuccheri aggiunti
solo frutta.
Frutta di me.
Pensando a te, sono diventata marmellata, dopo tanto bollire.
E ho voglia di uscire dal vasetto e salirti su per le labbra.
Ti lascio anche giocare con i diti, che mi piace se fai l’occhio birbo e giochi.
Ti salgo sulle labbra, mi ci appoggio.
Voglio godermi la faccia che fai, birba, mentre mi assaggi.
Godere è anche vedere
Godere è anche sentire
Sono marmellata
buona
solo frutta.
Frutta di me.
Niente zuccheri aggiunti.
L’artificiale non esiste quando una marmellata, che l’hai fatta tu, inconsapevole, ti guarda.

 

 

(questo arriva da un tumblr dove scrivo di getto e oggi l’ho riletto e ho pensato che sta bene qua)

Samopal

Samopal sistemò il pacchetto sotto al deambulatore celeste e uscì dal centro sociale, tra un’ala di compagni che lo guardavano fieri e gli battevano le mani sulle spalle, per incitarlo.
Pina era l’ultima della fila del comitato di saluto.
“Piero, tesoro, vorrei vederti tornare”.
Pina gli disse quelle parole, a voce bassa, quasi vergognandosi. Sapeva che il suo Piero stava facendo qualcosa di importante, ma insomma, lei lo voleva veder tornare.
“Non mi chiamare Piero, dai. Vedrai che torno”.
Samopal, all’anagrafe Piero Panni, 73 anni, un passato in consiglio di fabbrica a Porto Marghera e poi il lavoro nel sindacato e poi quindici anni passati a lavorare in una cooperativa come impiegato, nell’entroterra veneziano.
Da tre anni era finalmente in pensione, con la minima.
Lui guardò la Pina con la faccia di chi sa che ha una missione da portare a termine e l’amore deve attendere.
Bella cazzata, pensò Samopal.
Ci aveva messo anni per arrivare alla pensione e accorgersi di amare la sua vicina di casa, la Pina. E adesso, in pochi minuti, chissà cosa sarebbe rimasto. Di lui.
Samopal si diresse con questo pensiero verso il cortile del centro sociale, camminando lento, tenendosi stretto alle maniglie del deambulatore. Sapeva perfettamente che gli altri, i compagni, lo stavano fissando.
E lui riusciva solo a pensare che, nonostante tutto, quei tre anni da pensionato, passati a casa, con una come la Pina a fianco, non erano stati affatto male. Perché dove la trovi una che quando la baci ha la bocca che sa di caco. E che se mangi il caco viene là e ti lecca la faccia, le dita, gli angoli della bocca, che lo vuole mangiare anche lei, ma non da sola, assieme a te, proprio. E allora il caco era diventato il frutto della sua ritrovata virilità a 70 anni, con la gioia di andar in doppietta a pochi secondi di distanza, che una come la Pina, cosa vuoi, era incontentabile. E Samopal pensò che tutto, alla fine, lo doveva avere un senso, anche se lui fino a quel momento non l’aveva capito bene e invece mentre camminava, passo passo, lento lento, tirando i manici del deambulatore, aveva chiaro che se stava facendo tutto questo, e aveva il coraggio di farlo, e si era cambiato il nome da Piero in quello di Samopal, era perché lui non si arrendeva.
Non si era arreso negli anni del consiglio di fabbrica, non si era arreso fino all’attività nel sindacato. Poi sì, l’aveva fatto. Si era stufato di quell’andazzo generale che i furbi sono i meglio e gli onesti sono solo coglioni.
Ma poi, con una compagna come la Pina vicino, tutto era cambiato e al centro sociale quando gli amici cominciarono a dire che qualcosa bisognava fare, che era ora e tempo di impegnarsi, lui e la Pina pensarono che era giusto agire e cominciarono a portare le giacche arancio, color del caco, che era il frutto del loro amore e del loro sesso, e se c’è, porcoquaporcolà, del sesso sano a settant’anni vuoi non poter fare quello che sto per fare io?
Samopal non si arrende.
Se l’era detto così tante volte in quei quindici giorni di preparativi, che, ricordarselo di nuovo, gli serviva per darsi la carica e camminare, mentre gli altri lo fissavano dal portone del centro sociale. Lo sapevano tutti che sarebbe andato, passo passo, lento lento.
Ci avrebbe messo il necessario.
Solo Pina non sapeva esattamente a fare cosa. Per carità lei sapeva che c’era un pacco da consegnare e che Samopal era stato scelto per la consegna e che dopo avrebbero tutti parlato di lui ma lei non sapeva esattamente cosa c’era nel pacco.
Sapeva a grandi linee ma Samopal quella mattina, quando lei gli aveva fatto un sacco di domande a letto, dopo avergli garantito un dolce ammainabandiera, non gli aveva spiegato tutto nei particolari.
Samopal lo aveva fatto non perché non si fidasse di lei, anzi, era la sua compagna, che è più di una moglie a pensarci bene.
Solo non voleva vederla piangere, perché anche le lacrime della Pina sapevano di caco e lui con il deambulatore davanti non avrebbe resistito e non si sarebbe messo a camminare.
La lotta richiede impegno, perseveranza e pure qualche bugia. Sì.

Samopal ci mise 45 minuti a percorrere il chilometro e mezzo che divideva il centro sociale dall’ufficio dell’Inps del paese. Quarantacinque minuti che passò a caricarsi come una molla, con la mente a ripensare a quegli ultimi anni, che non erano stati solo di amore ma anche di rabbia.
Con la pensione che doveva arrivare ai 67 anni e che venne posticipata per legge tre anni dopo, perché non c’erano più soldi nelle casse dell’Inps. Con una disoccupazione schizzata in alto e un paese in cui un italiano su due non lavorava e non erano solo giovani ma anche i cinquantenni a stare a casa senza prospettiva.
In quel 2022 gli anziani erano i più delusi, secondo i sondaggi, dal governo di salvezza nazionale che da dieci anni governava la crisi che doveva durare poco e invece era diventata la quotidianità.
Le elezioni non le volle nessuno perché c’era la crisi e le pensioni vennero congelate e c’era chi a 70 anni entrava in ufficio temendo l’infarto alla scrivania e se eri tra quelli che un lavoro non lo avevano più ti davi ai traffici al nero, di qualsiasi tipo, pur di campare.
Al centro sociale Scotti, non quello del riso ma quello del milionario, aperto dal Gianni che con la vincita alla nota trasmissione tv anni prima aveva rilevato la vecchia bocciofila, si erano ritrovati in tanti a cercare qualcuno con cui parlare. Perché erano anni silenziosi, di paura, di manifestazioni vietate e di governi che si rimpastavano di mese in mese ma non c’era uno straccio di consenso e allora la Pina, che era la sorella del Gianni, un giorno aveva portato il Piero, là, per fare una partita a carte e non stare sempre da soli, e lì il Piero aveva trovato alcuni vecchi colleghi di fabbrica e del sindacato, alcuni ancora iscritti al Pd e pure altri, che erano amici una volta e che poi erano diventati leghisti e poi erano rimasti anche loro delusi.
E quei vecchi si erano messi a parlare e lamentela chiama lamentela e fastidio porta rabbia.
E così si erano decisi, un giorno.
Bisognava far capire che così non si poteva andare avanti e allora Piero era diventato Samopal e chi è vecchio lo sa il perché.
E se bisognava lottare, Samopal pensò che doveva essere lui il primo, quello che doveva lanciare il segnale e altri poi sarebbero arrivati.
Ci misero quindici giorni a studiare come fare e cosa doveva fare Samopal e quel giorno, il 25 aprile del 2022, che era il giorno della Liberazione ma oramai da cinque anni non lo si festeggiava più perché c’era la crisi, il governo di salvezza nazionale e tutte le feste erano state bandite tranne il Natale e il 1 novembre, che i morti comunque van rispettati, lui, Piero, prese il pacchetto, lo infilò sotto il deambulatore celeste, passò davanti ai compagni schierati che gli davano pacche di incitamento, parlò alla Pina e uscì in strada. Era una bella mattina di aprile, fresca ma non fredda, assolata e il palazzo dell’Inps con le sue vetrate a specchio rifletteva i raggi del sole e Piero si guardò nella porta finestra dell’ingresso, vide riflessa la sua camicia arancione, pensò al gusto del caco, al sapore della bocca della Pina e tirò fuori il pacchetto da sotto il deambulatore.
Aprì il coperchio e la dentiera lo guardò dalla scatola.
Era composta da una base di plastico su cui erano stati posizionati i denti della vecchia dentiera del Gianni, che lui aveva deciso di donare alla causa. Il detonatore lo avevano posizionato sugli angoli, così quando si doveva muovere la bocca, lui scattava.
Ci avevano provato per giorni nel retrobottega del centro, mentre la Pina e le altre donne, vendevano torte fatte in casa e panini e bottiglie di vino ai clienti per sovvenzionare la causa.
All’idea dei denti e all’esplosivo ci aveva pensato il generale, che era un appassionato di storia della Prima guerra mondiale.
Samopal guardò la dentiera, alzò la testa verso il palazzo dell’Inps, fece cenno alla guardia giurata di aprirgli la porta. Quello stava guardando una puntata di un talk show in televisione e fece scattare la serratura, senza preoccuparsi. Samopal avanzò col deambulatore urlando “Merdeeeeeee, siete delle merdeeeeeee”.
Lo gridò tre volte prima che il vigilantes gli andasse contro urlandogli: “Nonno, basta! Non rompere”.
Samopal gli sorrise e dalla tasca della giacca arancione tirò fuori la dentiera e la infilò in bocca. Strizzò l’occhio alla guardia, chiese scusa alla Pina per la bugia, e chiuse di scatto la bocca, facendo sbattere i denti.

Nessun debito

Io debiti nella mia vita, finora, manco uno. Sarà capitato massimo tre volte di aver lasciato il pane da pagare all’alimentari sotto casa ma io entro sera torno e saldo e comunque se ho lasciato il conto da pagare era perché loro, quelli dell’alimentari, non avevano da darmi il resto. Me le ricordo quelle giornate passate con il fastidio, lieve, addosso, di non aver fatto il giusto.
No, io i debiti non li faccio. Mai.
Non chiedo soldi in prestito e non faccio credito a nessuno. Mi viene da sorridere mentre lo scrivo. Non faccio credito a nessuno, io. Come potrei? Lavoro da vent’anni in un’agenzia di recupero crediti. Sono un esattore, quello che arriva nelle case quando gli avvertimenti telefonici e le raccomandate di intimazione a pagare non hanno sortito effetto. Arrivo io e pignoro, cioè confisco beni che secondo me arrivano ad avere il valore del debito, spese accessorie e more comprese.
Mi presento bene con il doppiopetto grigio antracite e la cravatta blu, la camicia bianca e le scarpe nere, non cedo ad alcun discorso in dialetto, scandisco bene le parole anche per presentarmi quando suono ai campanelli per farmi aprire. A volte dico chi sono e non mi aprono, segno il nome sulla lista con una x e così mi ricordo che ci devo tornare o telefonare per far capire che faccio sul serio.
Se mi aprono la porta e mi fanno entrare, io non accetto caffè e bicchieri d’acqua, dolci e discorsi lacrimevoli. Apro la cartellina con la pratica, quantifico il dovuto e procedo al pignoramento. Se tentano di provocarmi insultandomi, e capita sempre più spesso, mantengo la calma e faccio quel che devo fare. Se mi mettono le mani addosso per aggredirmi, chiamo i carabinieri. E scatta la denuncia.
Non risparmio nessuno, se mi insultano faccio finta di non sentire, se mi aggrediscono li denuncio. Ho già collezionato una risma di querele di parte che il mio capo ogni volta che mi vede, per scherzare, mi chiama “Terminator”. Io sorrido, penso che magari prima o poi faccio carriera meglio di lui, e che di simile a Schwarzenegger non ho neanche una falange del piede. Tra l’altro io ho i piedi piatti. Non me lo vedrei un colosso così camminare come me.

Quando finisce la giornata di lavoro e torno a casa cerco di dimenticarmi in fretta le tante facce incontrate durante il giorno.
Da un anno a questa parte sono sempre di più: ho una ventina di pratiche al giorno e comunque più di dieci appuntamenti non riesco a farli. Perché si perde tempo. Ad aspettare che aprano, se aprono, e poi che la smettano di piangere, bestemmiare, implorare, insultare, prima di capire che resteranno senza macchina, tv o frigorifero quando io avrò finito.
Fanno debiti per tutto, del resto. Macchine non pagate, rate dei computer e dei cellulari non saldate, frigoriferi, cucine. Soprattutto rate delle carte di credito. C’è gente che ne ha dieci, le revolving, e spende e perde il conto dei soldi spesi e poi vorrebbe tanto giocare alla roulette russa con una pistola alla tempia. Sarebbe meno fastidioso che incontrare me.
C’è quello che è in cassa integrazione e non ce la fa a pagare le rate della casa arredata con la moglie. C’è quello che chiede prestiti e poi si gioca 500 euro in un pomeriggio coi “gratta e vinci” perché metti che la fortuna ci veda bene. Rigorosamente quella, la fortuna, sta guardando da un’altra parte.
C’è anche quello, però, che gira con due porsche e ha un appartamento da urlo, che quando ci sono entrato mi è venuto da togliermi le scarpe per non rovinargli il parquet, e lui non aveva pagato le rate della macchina del figlio. Perché tanto, mi ha detto, chi va a controllare?
I cassintegrati si mettono a piangere, quelli ricchi e spesso lo sono non per capacità ma perché non pagano niente, manco i 300 euro del restauro del mobile del nonno, mi ridono in faccia e mi sventolano davanti il biglietto da visita del loro avvocato. Mi chiamano tutti allo stesso modo, comunque: sciacallo, rovinafamiglie, testa di cazzo; esattore di merda. Dovrei fare differenze?
No.
Sono facce che dimentico in fretta dentro la pratica a loro assegnata. Spesso mi toccherà riprenderlo in mano il fascicolo per farli pagare. E allora magari torno a ricordarmi qualcosa.

Mi è capitato di pignorare anche qualche ex fidanzata di un tempo, non ho concesso attenuanti del cuore.
Gli amici del bar mi dicono che sono cinico, che loro non ce la farebbero mai a fare il mio lavoro. Lo vedo che a modo loro mi stimano, incuto anche un pochino di timore.
Io quando mi chiamano così, cinico, ho un lieve fremito alla patta dei pantaloni.
I miei amici del bar li capisco, sono offuscati dai sentimenti che invece io tengo a bada, lontanissimi da me da anni, e vivo bene uguale. Non mi sono sposato, avrei potuto, mi sarebbe piaciuto. Non è andata.
Perché? – So che me lo vuoi chiedere.

Che ti frega, per me sei un anonimo qualunque. Avessimo bevuto almeno due spritz assieme coi ragazzi del bar, allora, forse, dopo aver allentato il nodo della cravatta, e ripeto forse, ti direi qualcosa. Di solito non lascio sospesi manco se sono ubriaco e quello non mi capita affatto di rado.
Sappi, comunque, e ti basti per ora, che le donne sono i più grandi esattori che ci siano in circolazione ma non è un caso se loro questo lavoro preferiscono non farlo. Perché per loro, le donne, i soldi contano molto meno delle sensazioni.
Prova a mettere una bella donna un anno in una casa lussuosa, piena di gioielli e vestiti alla moda. Dopo un anno, quando le sarà passata la voglia di giocare alle bambole, e si sarà ricordata chi è lei davvero, ti manderà a quel paese se non l’avrai vestita e curata a suon di sensazioni.
Quelli che dicono che le donne guardano al primo appuntamento la macchina che hai e se hai il portafoglio pieno di soldi sono degli emeriti imbecilli. E’ tutta una finta, solo i cretini ci cascano.
Le donne sono specialiste dei sentimenti, ci sguazzano; senza quelli sono pesci che boccheggiano e allargano le branchie per non morire. L’occhio gli diventa subito giallo.
Se sei guardingo o hai una paura fottuta, loro ti annusano come i cani e lo sentono l’odore che hai dentro. Se ti tieni lontano loro ti ronzeranno attorno come mosche sulla merda. E la puzza la sentono, ma ci mettono sopra un sacco di nomi diversi.
Non è che amano i bastardi, sono solo abituate ad averci a che fare. E comunque, loro, le donne, riscuotono sempre. Ma non in denaro, in dignità e autostima. Se ti portano via casa e stipendio in alimenti, e adesso bestemmi in aramaico contro la loro avidità, quando ti metterai al tavolino a fare bene i conti della tua insulsa vita capirai che l’ammontare non sarà mai superiore al valore della tua dignità persa.
E allora come con i clienti del recupero crediti, clienti obbligati, che loro proprio non vorrebbero esserlo, io con le donne sono assolutamente un cinico. E me ne vanto. E non ci voglio avere niente a che fare. A meno che non sia io il cliente.
Se ho un prurito, anche adesso c’ho il fremito, solo a scriverla la parola cinico, prendo la macchina e vado a farmi un giro. Una da pagare per 20 minuti la trovo sempre. Una faccia come tante, di quelle che non ricordo. Cinquanta euro e non ho neanche il problema di dovermi ricordare il nome di lei. Poi le cose si chiamano con i nomi che devono avere: culo, pompini, stai zitta.
Con le puttane è tutto semplice. Il cliente sono io, loro non mi vedono come un portatore sano o insano di sentimenti. Io sono semplicemente un lavoro. Pago, ottengo, mi rimetto i pantaloni e ingrano la prima. Loro se non riscuotono o se le picchi, chiamano i carabinieri. Altrimenti è tutto semplice, senza debiti.

Ottanta lettere

Le aveva scritto 80 lettere d’amore, ognuna per ciascun giorno che seguì l’unica notte che lei comparve alla porta di casa sua e chiese di entrare.
Andò diritta verso la camera da letto e si stese sul lenzuolo, vestita, e gli disse che sentiva un dolore, strano, che non sapeva spiegare.
E allora lui si stese accanto a lei ed era così agitato per la sua presenza, lì vicino, che si mise a chiederle, con insistenza, dove era che sentiva male. E lei gli prese la mano e la appoggio alla pancia e gli spiegò che era proprio quello il punto in cui sentiva quel vuoto che voleva portar via tutto. Lui, agitato, pensò di fare l’unica cosa possibile. Tenne la mano bella larga a fermar quel vento che voleva venir fuori dalla pancia di lei. E ci rimase così fino al mattino, anche se la mano gli faceva male, la sentiva pesante e la circolazione rallentava. Anche se sentiva il suo respiro silenzioso e avrebbe preferito con quella mano accarezzarle i capelli biondi, per ore.

All’alba lei riaprì gli occhi e lo ringraziò con un bacio. Poi gli disse che il vuoto era scomparso, e con lui il vortice cattivo. Era fortunata di poter contare su qualcuno come lui, che la ascoltava in silenzio e le metteva la mano per fermare il dolore, quando serviva. Lui le disse che, se lei voleva, lo avrebbe fatto ancora.
Ma lei si alzò dal letto, andò in cucina a preparare il caffè e poi a lavarsi il viso nel bagno di casa mentre lui era ancora a letto a sfiorarsi le labbra calde per quel bacio inatteso e pure così sperato. Quando la moka brontolò sul fuoco, annunciando che il caffè era pronto, lei se ne era già andata senza un saluto, senza una parola.
Lui sentì il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva mentre si alzava dal letto per andare a spegnere il fuoco. Era rimasto da solo, con la mano indolenzita e un mal di stomaco che montava, dentro, come se avesse mangiato della spugna espansa. Lasciò il caffè dentro la moka a freddare e cominciò a scrivere su un tovagliolo di carta.
Le scrisse che quel bacio gli aveva aperto un buco nella pancia e che non sapeva adesso come riempirlo, quel vuoto, senza la sua mano appoggiata al suo addome. Le scrisse che quel bacio, inatteso eppure così sperato, gli aveva messo dentro una fame che nessuna pietanza poteva placare. Poi prese il tovagliolo di carta e lo infilò dentro la fotocopiatrice, per copiarlo sul cartoncino giallo che usava per scrivere ai clienti. Infilò il foglio in una busta e uscì sul pianerottolo di casa. L’appartamento di lei era giusto davanti al suo. Si erano incontrati per giorni e giorni solo al mattino, per uscire e andare al lavoro. E si erano detti per giorni solo Buongiorno, come va? Visto che pioggia che c’è?
Erano andati avanti così fino a quella sera, quando lei scelse di bussare alla sua porta e entrare. Da allora tutte le mattine, al risveglio, dopo averla sognata, lui le scriveva una lettera e la infilava sotto lo zerbino davanti alla sua porta. Poi rientrava e si preparava il caffè. Caldo, solo così aveva ragione d’essere.
Lui aveva costantemente quella fame addosso che nessun cibo riusciva a placare e solo scriverle lettere d’amore, in cui le raccontava le ore notturne passate a sognarla, i giochi, i baci e la sua vita prima di sfiorarla, quella notte, sembravano chetarlo un pochino.
Passarono ottanta giorni, ottanta lettere sotto lo zerbino, senza che lei mai una volta tornasse a bussare alla sua porta. O gli dicesse qualcosa, oltre al buongiorno mattutino, quando si incrociavano per le scale.
Era come se non fosse accaduto nulla, come se quella notte non ci fosse stata e come se non ci fossero state quelle lettere.
Arrabbiato, pensò che l’indifferenza era figlia solo di un impeto di fantasia, che l’amore era solo inventato.
Allora, in preda ai dolori per la fame e con lo spasmo dello stomaco che sembrava urlare come la bora, lui prese tutti gli ottanta tovaglioli di carta che aveva raccolto dentro una scatola da scarpe. Infilò il berretto in testa, indossò il giubbotto e uscì. E andò in quel ramo del canale vicino a casa, dove da piccolo suo padre non lo lasciava mai andare perché la gente del paese diceva che lì, sul fondo del canale, c’erano alghe così lunghe e così fitte, che arrivavano a misurare decine di metri e se ci cadevi dentro era impossibile uscirne vivo. Solo le anguille potevano sopravvivere.
E visto che era tutta una fantasia, lì avrebbe fatto morire la sua.
Prese la scatola da scarpe, tolse il coperchio e lanciò dentro l’acqua gli ottanta tovaglioli di carta e li guardò galleggiare per un pochino e poi, gonfi di acqua li vide scendere giù verso il fondo scuro. La rabbia lasciò il posto alla tristezza.
Lui se ne tornò a casa e se ne andò a letto, sentiva dolori ovunque e dormì fino a sera, nascondendo la testa sotto le coperte, perché quella casa gli sembrava così fredda, senza più parole d’amore.
Fuori fischiava la bora, fredda e vendicativa.
Il giorno dopo un pescatore che era andato a controllare la sua barca, per trainarla sulla riva del canale, lanciò l’allarme. In mezzo al canale era spuntato un albero, enorme e brutto. Le alghe si erano intrecciate una all’altra e le vesciche, dopo aver cercato invano uno spiraglio di luce, sotto la coltre di tovaglioli di carta sciolti dall’acqua, appena sotto la superficie, avevano puntato diritte al cielo per farsi strada per più di cinque metri, portandosi dietro le sorelle più piccole e verdi e quelle più vecchie e marroni e le parole dai tovaglioli avevano finito con il passare su ogni alga, come tatuaggi scuri.
Ora l’albero così strano e brutto a vedersi, si stagliava nel mezzo del canale e bloccava il passaggio a tutte le barche e c’era la processione di gente curiosa che voleva vedere. C’era chi passava tutto il pomeriggio a decifrare le parole, nere, che si mescolavano seguendo gli intrecci delle alghe marroni e verdi. E c’era chi diceva che se le leggende erano tali era perché c’è sempre un fondo di verità e anche se lì le anguille non erano mai arrivate, i Sargassi esistevano, pure in città.
Anche lui andò a vedere e riconobbe ogni sua parola, marchiata sulle alghe, e pensò che erano potenti come le anguille.
Rientrato a casa, gettò uno sguardo allo zerbino davanti alla porta di casa della vicina e notò il rigonfiamento. Sollevò il tappeto e ritrovò tutte le sue lettere. Ottanta, mai aperte, in mezzo alla polvere. Le raccolse da terra e le portò in casa e poi piano piano aprì ogni busta.
Erano tutte vuote.

Senza rancore

Mi dispiace di svegliarti
forse un uomo non sarò
ma d’un tratto so che devo lasciarti
fra un minuto me ne andrò.

Già il fatto che uno si fa chiamare Dodi dovrebbe essere la spia che ti mette in guardia. Sentire le mie amiche che chiamano il loro uomo “ciccino” mi provoca una semiparesi alla mascella destra e resto giorni interi alle prese coi dolori; figurati se devo andarlo a presentare alle mie amiche uno che si fa chiamare così.
“Tesoro, ti presento Dodi, il mio ciccino”.
Oddio, no.
Non fatemi ridere che resto con la paresi un mese. Non posso farlo perché ho un compito. Cancellare questa canzone dalla faccia della terra. E far dimenticare le parole di uno stronzo.

E non dici una parola
sei più piccola che mai
in silenzio morderai le lenzuola
so che non perdonerai.

E ti credo bene che non ti perdona, brutto invertebrato. Non l’ha mai fatto, specie dopo che hai inciso. Ecco.
Dodi, potrebbe esser il nome giusto di uno stercorario da salotto. Uno di quegli scarabei che trasportano le palline di merda per farsi capanna e seguono solo una linea retta.
Cascasse il mondo non deviano, loro. Via diritti e se c’è una salita, arrancano, ma procedono. Passano sopra a tutto.

Mi dispiace devo andare
il mio posto e là
il mio amore si potrebbe svegliare
chi la scalderà.
Strana amica di una sera
io ringrazierò
la tua pelle sconosciuta e sincera
ma nella mente c’è tanta, tanta voglia di lei.

Ho un compito: far dimenticare al mondo che questa canzone esiste. Era il 1971 quando i Pooh dopo tre anni di oblio, che potevano esser sufficienti per farli finire nel dimenticatoio delle cose vecchie, se ne sono usciti con questo singolo.
Io ero nata da due anni, allora. Questo significa che, senza rendermene conto, a due anni mentre giocavo sotto casa coi ragazzini della via, e si imparava la differenza tra maschi e femmine, questa canzone, trasmessa dalla radio, faceva i suoi terribili danni. Loro, i bimbi, la ascoltavano. E pure io. E molti di loro l’hanno cantata poi, da grandi, alle sagre e ai karaoke. E si sentivano romantici nello sforzare l’ugola per azzeccare la giusta intonazione. E metterci pathos. Perché si canta con la gola e la pancia. Il diaframma mica è cosa statica.
E se vuoi sembrare il Dodi che canta, ti devi immedesimare.
E loro, i maschi, cantano. Pensando che raccontar, con l’ugola e la faccia, sta canzone li renda uomini capaci di amare.

Se non l’avete capito, questa canzone non parla di amore. Semmai è il racconto di un pentimento. E’ un inno all’ipocrisia. Se incontro un uomo e mi canta questa canzone, io lo sputo e me ne vado. Non mi fido.
Non perché tradisce, ma perché si pente. E se si pente quando devia dalle sue personali regole e non procede diritto come lo stercorario, significa che lo fa per prurito.
Che è cosa ben diversa dalla voglia. E con uno così, che poi si pente, è meglio farci una partita a tressette che condividere cose importanti come le carezze, i baci, i fluidi e i pensieri.
No. Un uomo che ama la sua donna e se ne accorge solo quando sta nel caldo letto di un’altra, cosa è se non uno stanco e deluso. Uno che non sa che doni tiene tra le mani.
Perché le persone, le donne in questo caso, non sono oggetti che sposti e nascondi e tiri fuori alla bisogna.
E io non parlo mica di quella che è a casa, ignara e amata. Io agisco per vendicare la sincera sconosciuta, quella che canta il re ipocrita che finge un affetto che non c’è mai.
Vendico la cretina che da quarant’anni ascolta quella canzone e si sente una che se non c’era era uguale.

Lei si muove e la sua mano
dolcemente cerca me
e nel sonno sta abbracciando pian piano
il suo uomo che non c’è.
Mi dispiace devo andare
il mio posto e là
il mio amore si potrebbe svegliare
chi la scalderà.
….nella mente c’è tanta, tanta voglia di lei.

Io entro nelle case degli uomini, entro nelle loro macchine, nei loro bar, scruto nei loro mp3, nelle selezioni del Mac.
Vago nelle loro discografie e cerco quel titolo. E quando lo trovo, cancello.
Finora sono arrivata a quota 1.321. So perfettamente che sarà un lavoro lungo, ma io non dimentico. E procedo. Oramai non ci faccio più caso. E’ automatico, come l’odore che percepisce il cane da tartufi.
Cd, file, vecchi lp. Se la trovo, la faccio sparire. Non serve che io con questi uomini abbia qualcosa da spartire. Basta una educata conoscenza. Se mi aprono le porte di casa e io trovo una traccia di “Tanta voglia di lei”, è matematico che il modo lo trovo per far dimenticare Dodi, la sua ipocrisia e quella cretina, che quarant’anni dopo, ha tutto il diritto di sentirsi una che non è passata per caso.
Se la cantano, invece, quegli uomini che incrocio possono scordar la mia faccia. Sono cause perse.

Per fortuna, il 1971 non fu solo una corsa diritta per gli stercorari. Fu l’anno di “Starway to heaven” dei Led Zeppelin e di “Imagine” di John Lennon. E fu l’anno di Battisti che cantava anche Endrigo , nel volume quattro. Quello che diceva

il mio pensiero ti seguira’
saro’ con te dove andrai
senza di me
tu partirai per altri mondi
ti perderai
tra gente e strade sconosciute
non ci saro’
quando qualcuno mi rubera’
gli occhi tuoi.

E dicevano che era triste.

Il colpo della strega

“Ancora cinque minuti”, gli ho detto, mentre stringevo il cuscino sulla sua faccia. Lui mi ha sentito e ha disteso le braccia sul materasso. Un segno di resa, lo aspettavo. Dopo tanto dibattersi e trattenere e sudare, ho campo libero e non posso aspettare oltre.
Ho ripreso a premere il cuscino bianco con tutte e due le mani. Di lui vedo solo solo le braccia distese, le dita delle mani chiuse a pugno. Non la faccia, nascosta dalla fodera. Non le gambe e il petto, su cui mi sono seduto a cavalcioni, per farmi forza e spingere di più.
Che a morire ci vuole forza e calma. E anche per far morire.
Ho continuato a premere il cuscino, finché le dita di Alvaro hanno mollato la posizione a pugno e le mani si sono aperte come artigli. E mi sono venute a cercare. Per fermarmi.
Una mossa inattesa. E io davanti a quelle dita che si sono fermate ad un centimetro dalla mia faccia sono stato colto dalla sorpresa e ho reagito tirando indietro la testa e la schiena. Poi ho finito quel che dovevo finire. E sono andato a farmi la doccia, nella stanza accanto, che ero tutto sudato.
E’ successo tutto lì, in quel movimento improvviso per allontanare la mia faccia dalle sue dita. Il colpo della strega. Sono quattro giorni che cammino con questo maledetto mal di schiena. Solo oggi sono andato dal dottore.
“Ha fatto qualche movimento strano?”, mi ha chiesto senza mai guardarmi, gli occhi fissi sul computer nella sala visite dell’ambulatorio.
“No, dottore. Ho solo evitato un ostacolo improvviso”.
“Ecco, è come le dicevo io. Il colpo della strega è spesso conseguenza di movimenti forzati o mal controllati. Adesso le prescrivo un antinfiammatorio”, ha continuato a spiegarmi il dottore.
“E si riposi”.
Ho preso la ricetta che il dottore mi ha posato davanti, mi sono appoggiato al tavolo, con le mani, per alzarmi senza sforzare troppo la schiena. Ho detto “Grazie, dottore. Vedrò di farlo” e me ne sono andato fuori, alla ricerca di una farmacia. Ho cominciato a camminare e ho ripensato a quel “Si riposi”.
Come se fosse facile chiudersi in casa una settimana, spegnere il cellulare. E non farsi trovare dai clienti e dai capi. Il lavoro arriva quando vuole e va fatto in fretta, con calma e forza.

Camminando lentamente verso la farmacia, un passo per volta, il dolore alla schiena, fortissimo, ha cominciato a pulsare meno. C’è, lo sento, ma non è più un coltello che mi gira dentro. Piuttosto è un peso sui lombi, dalla pressione costante. La stessa che ho impresso sul cuscino, con calma, per bloccare la faccia di Alvaro. Quattro giorni fa, quando l’ho soffocato in una stanza d’albergo alla periferia di Milano.
Sua moglie ha pagato 30 mila euro per farlo fuori. In una camera d’albergo, la 313, dove lui solitamente incontrava Martina, una prostituta che faceva arrivare dal lago di Garda. Le pagava pure il taxi, andata e ritorno una volta al mese. Stavano assieme fino all’alba. Lei doveva arrivare alle 21.30 spaccate. Non un minuto dopo. Facevano sempre le stesse cose. Prima un inizio di pompino, poi lei si faceva leccare. Ma durava poco. Poi lui la penetrava da dietro e durava il giusto.
Un rito. Ho pensato a quello quando Martina mi ha raccontato dei loro incontri al bar di Peschiera dove sono andato a cercarla. Le ho pagato la colazione dopo averla attesa all’uscita di casa, fingendomi un investigatore a caccia di informazioni. Per lei Alvaro era un cliente come tanti. Lo ha riconosciuto solo dalla foto che le ho mostrato. “Alvaro chi? Ahhhh, il noioso!”, mi disse quando gliel’ho mostrata.
Pretendeva sempre le stesse cose _ mi ha raccontato Martina _ mai un dettaglio diverso. Anche il completino intimo doveva essere sempre bianco, in pizzo, di una marca precisa. Alvaro la attendeva sulla porta della stanza 313, la faceva entrare, le toglieva il cappotto. Lei sotto era già in reggiseno e tanga, come voleva lui. Fresca di doccia e senza alcun profumo.
Alvaro le accarezzava il viso, poggiava i soldi sul mobiletto vicino all’ingresso, la spingeva contro il muro, le infilava un dito in bocca e poi con lo stesso dito toccava prima il mento e poi il collo e scendeva fino all’attaccatura del tanga, Là il dito lasciava il posto all’intera mano.
Mai niente di diverso. Martina disse, ridendo _ forse voleva risultare simpatica _ che persino i gemiti alla fine erano sempre identici.
Adesso che ci penso, mentre stavo sopra il petto di Alvaro e gli tenevo premuto il cuscino sulla faccia, per otto, dieci minuti, ( quanto sarà durato? ) Alvaro non ha mai mollato un gemito, una bestemmia, un lamento. L’urlo l’ho cacciato io quando mi sono trovato le sue dita quasi addosso alla faccia. E ho tirato la testa e la schiena indietro. E la strega si è attaccata.
Io premevo e intanto pensavo ad altro. Lo faccio sempre quando lavoro. Non penso mai a chi sto ammazzando. Penso alla vita mia, quando non lavoro e posso far quello che voglio. Alzarmi tardi, non guardare il cellulare, mettermi la camicia colorata e andare a mangiare una pasta dalla Rina che è la mia donna, anche se non viviamo assieme. Non bisogna viverci con una donna se si fa il mio lavoro. Perché lei la sente la puzza, che ti porti dietro. Mica è scema, la donna che si ama. Lei sa. E allora io con la Rina, che ogni volta che la voglio ha un completino di un colore diverso, io non parlo mai del lavoro. E manco ci dormo assieme. Se resto da lei mi sveglio all’alba e me ne vado. Con una scusa. Se devo lavorare non la vedo per giorni, perché devo togliermi la puzza di dosso, prima.
E’ solo lavoro, niente di personale, neanche godimento. Serve calma e forza, per far morire. Quelle cose lì le uso anche per amare Rina. Lei pensa alla fantasia. E ogni volta non c’è mai un gemito uguale. Se mi dicesse che sono noioso, tirerei fuori la pistola. E la girerei verso di me.

In farmacia mi danno gli antinfiammatori. Prendo una pastiglia direttamente al bancone, davanti alla commessa che mi guarda con la faccia indifferente di chi ha visto troppi tossici.
Esco fuori e suona il cellulare. So chi è, so cosa vuole. Ma non rispondo. Che c’ho la strega aggrappata ai lombi e mi sto incazzando.

1985

Io lo so che lei se lo chiede. Lo so, che ogni volta che le metto i 50 euro dentro la fessura, tra le tette, e sistemo la banconota tra le stecche del reggiseno, con cura, lei, se lo chiede.
Spendo cento euro la settimana per vederla ballare davanti a me, sul palo della lap dance. Lei ha imparato a salutarmi con gli occhi, li abbassa per un attimo ogni volta che mi vede seduto al tavolino accanto alla pedana. Mi sorride.
All’inizio aveva provato a parlarmi, lo faceva sicuramente perché il padrone del locale le aveva detto di far così.
“Vai là, gli sorridi, gli dici ciao bello e ci parli. Gli chiedi cosa vuole. E te fai e lui paga”.

Solo che io le ho risposto che bevevo da solo e che mi bastava vederla ballare, anche due volte di seguito davanti a me. Sempre la stessa canzone. Andava benissimo.
Dalla pensione tolgo quattrocento euro al mese, che io ho diritto anche di pensar un pochino al mio bene. Il resto va via per le bollette, la spesa mensile, i fiori da portare in cimitero e i desideri dei miei nipotini. Quattrocento euro ce la faccio a metterli via ogni mese e poi il sabato vado in quel bar. Cinquanta euro finiscono tra le stecche del reggiseno della Olga e son due balli assicurati, il resto va via in gin tonic. Quel che avanza, lo metto da parte. Metti che mi decido a offrirle una cena di pesce in quel localino, fronte porto. Metti.

Ma non mi decido. Per ora mi basta guardarla Olga. Mi sta davanti in reggiseno e tanga bianchi, i capelli biondi lucidi, le labbra rosse, la pelle così chiara. Secondo me, mangia poco. Se fosse a casa mia, qualche bistecca la obbligherei a mangiarla.
La vedo muoversi al ritmo di “Slave to love”. E io mi ripeto in testa le parole della canzone.

“Posso sentire la tua risata
Posso vedere il tuo sorriso
No, non posso scappare
Sono uno schiavo d’amore”.

Brian Ferry la cantava e a Marta, mia moglie, piaceva. Lei aveva la passione della musica e quando la sentiva per radio, era il 1985, lei ballava sempre e io seduto al tavolo della cucina la vedevo ancheggiare con la vestaglia addosso e allora sorridevo, allargavo le gambe, mi mettevo a fissarla e lei ballava e rideva. E io non potevo mica star fermo sulla seggiola con le gambe larghe. Dovevo alzarmi e andare a sfiorarle i fianchi, mentre lei si muoveva e quando si girava verso di me e mi abbracciava, sentivo quella pressione addosso. Ogni abbraccio di Marta era come se un improvviso vuoto pneumatico mi tirasse fuori nervi, sangue, linfa. Tutti, allo scoperto.
Dovevo prenderla e portarla in camera. Erano anni belli, i figli erano al liceo, io cominciavo a lavorare verso le dieci e la mattina a colazione, complice la radio e i Roxy Music, noi ci abbracciavamo e partiva quel risucchio. Facevamo l’amore e se scappava che urlavamo come ragazzini, quello restava un segreto nostro.
E la sera a cena davanti ai ragazzi, non ci abbracciavamo mai, che era pericoloso sempre per la storia del risucchio. Ci guardavamo e ci lanciavamo un’occhiata che voleva dire “Grazie, che mi fai godere”.

Adesso io sto fermo. Sto in questo bar con lap dance nel retrobottega, aperta ogni fine settimana. Ci sono capitato per caso sei mesi fa. C’era quell’insegna, “Roxy”, che mi ha ricordato la canzone che piaceva a Marta. E sono entrato.
Non cercavo niente ma è arrivata Olga, bionda, in reggiseno e tanga bianchi, le labbra rosse, la pelle chiara e mi ha detto “Ciao, se vuoi ballo per te”. E io le ho risposto: “Ok balla, ma non mi serve altro”.
E lei ha ballato, illuminata dal faretto, avvinghiata a quell’insulso palo e intanto si toglieva il reggiseno e le chiappe si muovevano, lente, mentre Brian Ferry cantava che era schiavo d’amore e io mi sono messo a fissare con attenzione quel culo.
Latteo, pareva una burrata gigante, con i piccoli solchi della cellulite che spuntavano ad ogni ancheggio.
Mi son commosso. E ho allargato le gambe.
Il culo di Olga è il gemello di quello di Marta.
E ogni volta che lo guardo io torno al 1985. Prima dei giramenti di testa. Prima della stanchezza che ha tolto a Marta la voglia di ballare. Prima della voce del dottore che diceva che c’era una speranza, piccola, ma c’era.
E invece no.

E così io adesso sono qua al “Roxy” a guardar la Olga sorridermi, abbassare gli occhi, girarsi e ancheggiare, cosciente di portarmi fino alla commozione. Lei pensa che a me escono le lacrime mentre le fisso il culo perché è bella. Io, mentre allargo le gambe, penso che manco sa di averlo un inno alla vita, dietro.

Lo so che Olga ha voglia di chiedere. Perché non pago per andare mezz’ora nel camerino, dopo lo spettacolo? Lei ci verrebbe a casa mia a mangiare una bistecca. Lo so.
Ma a lei manca la coscienza di esser tutto, di aver un inno alla vita incorporato, ad ogni passo. Marta, invece, lo sapeva perfettamente.
E io me vado, con la voce di Brian Ferry in testa.

“Dille che aspetterò
Al solito posto
Con gli stanchi ed estenuati
Non c’è scampo
Al bisogno di una donna
Devi sapere
Come chi è forte diventa debole
E il ricco diventa povero
Stai correndo con me
Non toccare la terra
Siamo quelli dai cuori senza riposo”