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Il nome della Fedora

La Fedora non si chiamava così, la chiamavano e lei si era abituata. Sua mamma le aveva messo un nome diverso, meno ridondante, ma oramai lei  non se lo ricordava più.

I documenti, dove c’era scritto il nome vero, non li tirava mai fuori, erano persi dentro un cassetto nella sua camera alla locanda dalla Gilda, una ex collega che aveva usato i soldi guadagnati per mettersi in proprio, e dava le camere quasi a gratis alle amiche per lavorare e vivere.

Tanto si rifaceva sugli extra degli operai che lavoravano coi contratti semestrali nelle ditte d’appalto dei cantieri navali di Porto Marghera.

Un sovrapprezzo qua, una aggiunta là, un piacere, un sorriso, una ombra di bianco e una palpata di culo in sala ristorante la sera, dopo la partita a madrasso, e loro mica si ricordavano più quanto avevano speso.

La Gilda faceva il conto il 30 di ogni mese e da una squadra di operai usciva anche il mese di stanza pagata per la Fedora.

Che girava senza documenti perché tutti la conoscevano.

La sua capigliatura, di un nero nero, che avvolgeva la testa come un turbante, le aveva dato quel nome che faceva tanto anni Cinquanta. L’idea era venuta a un cliente, poi era arrivato fino ai poliziotti. Su una Fedora ci aveva fatto un film anche Billy Wilder ma lei non l’aveva mai visto.

Gliene aveva parlato il professore,  che le aveva detto che lei aveva un nome, e capelli, degni di una diva.

All’inizio le pareva di esserlo davvero una di quelle star del cinema,  poi tutto era diventato normale.

I capelli lunghi fino ai piedi, che non aveva tagliato se non due volte, le uniche in cui si era innamorata nei suoi 55 anni di vita,  le battute dei clienti su quel nome da star passata di moda, i loro sguardi soddisfatti quando slegava la cofana e mostrava fin a dove arrivava la capigliatura e la faceva annusare e pure i suoi occhi chiusi mentre loro pompavano noiosi dentro di lei.

Tutto era normale.

Normale quanto può esserlo una vita noiosa, senza mai un cambio di programma, senza una faccia diversa sopra, senza una parola che non sia già prevedibile al primo sguardo.

La Fedora si annoiava, cambiava uomo ogni sera ma non godeva mai. Quelli ansimavano e pompavano e urlavano e lei se ne stava buona e ferma ad occhi chiusi sul letto, le gambe aperte, la sottoveste calata sui fianchi, il seno scoperto, le natiche nude sul lenzuolo, i capelli lasciati liberi a vagare sul materasso.

L’odore lo sentiva solo lei.

Con il professore almeno stava serena, lui aveva studiato, forse era per quello che alla fine era l’unico che sapeva.

Era arrivato una sera, di tanti anni fa, aveva ancora i capelli castani. Aveva lasciato le 50 mila lire sul comodino, si era tolto con calma la giacca e i pantaloni, in silenzio.

Si era girato, era andato verso di lei, nuda in piedi, in mezzo alla stanza, coi capelli sciolti e le aveva annusato le punte dei capelli.

“Sanno di sesso”.

Poi aveva calato la testa davanti a lei fino all’altezza del pelo tra le gambe e aveva annusato di nuovo.

“Lo stesso odore”.

E lei glielo aveva raccontato, non lo sapeva il perché ma lo aveva fatto, che a una persona istruita ci si porta rispetto e non gli si nega conoscenza, e glielo aveva raccontato che quando aspettava un cliente, prima si regalava il suo momento di gioia, e si toccava sul letto, faceva tutto da sola la Fedora e strusciava i capelli lunghi sulla vagina e ogni volta veniva urlando e gridando, e poi ridendo.

Da sola.

E il professore si era commosso a quella ammissione e  le aveva detto: “Non lavarti mai prima che arrivo. Fallo sempre, ma non lavarti”.

E quando lui le era sopra, anche adesso che aveva i capelli bigi, voleva i suoi di capelli, sempre neri, attorno al collo, come un collare annodato, e lei lo lasciava fare che vedeva che era contento, che annusava e godeva prima con il naso che con l’uccello.

 

Il professore le aveva detto che assomigliava ad una lady, la Godiva, ma era senza cavallo e lei, la Fedora, aveva riso tanto per quel nome che era giusto, secondo lei, perché lei con i clienti non godeva, ma da sola godiva.

E per cavallo non aveva manco un bardotto, figuriamoci un barzotto.

E si era sentita così scema a dire quelle cose, che erano anni che non provava una gioia fuori, figuriamoci dentro, in tutta quella normalità di azioni ripetute, di parolacce e pacche sul culo, di ammiccamenti idioti che tanto si sapeva già prima dove si andava a parare.

E lui le aveva detto che lo chiamavano professore, perché insegnava, ma non lo faceva più, aveva perso il lavoro che si era incazzato col preside che aveva detto ad alcuni allievi, figli di meridionali, che puzzavano e dovevano tornare a casa loro. E dopo quella sfuriata, lui che era supplente non aveva più lavorato come insegnante e andava a pulire scale a ore, ma coi soldi ce la faceva. Gli serviva poco.

 

Fedora gli voleva bene al professore, lui le parlava sempre di cose che non sapeva e gliele spiegava senza mai farla sentire una stupida. Ovviamente mica glielo aveva detto che aveva affetto. Ai clienti non sono cose da dirsi, quelle.

I mesi passavano e la noia montava ed era diventata fastidio e la Fedora era arrivata al punto che non aveva neanche più voglia di alzarsi la mattina e a 56 anni si sentiva vecchia.

Senza sostanza.

E allora una mattina si diede malata, la seconda fece lo stesso, la terza si chiuse in bagno a piangere, la quarta bestemmiò il bestemmiabile, mentre la Gilda le faceva la pedicure, la quinta tornò a letto e dormì 20 ore su ventiquattro, la sesta si alzò dal letto e prese la forbice.

Tagliò i capelli all’altezza del culo, aiutandosi ad occhiate, con le misure, guardandosi nello specchio del bagno.

E i capelli caduti a terra li raccolse, li legò con un nastro, da un lato, ci venne fuori una specie di scopetto, si spogliò nuda e si mise a gambe aperte sul letto e cominciò a passarsi i capelli avanti e indietro tra le gambe, finché non sentì caldo e si mise ad urlare.

Il professore era giù, alla reception della locanda, ci era passato tutti i giorni da quando gli era saltato l’appuntamento perché la Fedora stava male.

Parlava con la Gilda, voleva sapere come stava la Fedora, perché non si faceva vedere.

Sentì l’urlo e corse sù per le scale, facendo i gradini due a due, con una forza che non si sentiva dentro da tempo.

Spalancò la porta della camera, la 12, e la vide sul letto a dimenarsi nuda, con lo scopetto di capelli neri bagnato.

Lei lo guardò e gli sorrise, lui non si accorse nemmeno di essersi tolto i pantaloni.

Saltò sul letto, prese lo scopetto, si mise a fare lui quello che la Fedora stava facendo da sola, e nel vederla godere e ridere e urlare anche lui cominciò a toccarsi e venne da solo e lo sperma di lui colò sullo scopetto bagnato da lei.

E risero fino al mattino nudi, sul letto.

Lui le chiese quale era il suo vero nome.Lei glielo sussurrò all’orecchio.

Lui annuì, andava benissimo.

Bella

 

Se mi dicono che sono una puttana, un attimo me la prendo ma dura qualche minuto, il fastidio, e poi non ci penso più.

No, dai, mi manda in bestia quando intuisco che pensano quello ma che ci posso fare?

Le lettere che ho spedito ai parlamentari del centrosinistra, quelli che io voto da sempre, inviate con ricevuta di ritorno, per esser sicura che siano arrivate, nel tentativo di spiegare che servirebbe una legge per far in modo che il mio lavoro non venga sporcato dall’appellativo di prostituta, le ho tutte fotocopiate e archiviate dentro un quaderno arancione.

Ma ogni risposta alle mie missive mi ha fatto intuire che loro, gli onorevoli, pensano quello. Che sono una prostituta, anche se non lavoro sulla strada.

Tanti mi hanno risposto “Le faremo sapere”.

Uno mi ha anche telefonato, sornione e ridanciano.

“La aiuto io, posso venire in città il mese prossimo, che ne dice se ne parliamo nel mio hotel?”.

Insomma, ho capito subito che pensava che gli facevo il servizio pure a lui.  Magari gratis.

Ho messo giù senza neanche ringraziare.

 

Andare a spiegare che lavoro fai e che servirebbe una regolamentazione del lavoro che all’estero chiamano di assistente sessuale domiciliare, fa passare la voglia di chiedere qualcosa.

Pare che sei lì a dire che bisogna dare un nome a un pagamento che altrimenti risulta la solita cosa sporca,  ma che tutti cercano da secoli, e si affrettano a dire che è sporco pure quelli che ci vanno di solito ma in pubblico non lo direbbero mai perché non sta bene.

E invece i miei utenti,  tutti, se lo dicono, tra di loro, che questo mestiere esiste e serve come l’infermiera che viene una volta la settimana a vedere come stai, se serve la medicazione e a portarti gli ausili a casa.

Lo sanno anche i loro genitori e pure a loro va bene, perché quando passo io poi in casa c’è la pace e non ci sono baruffe e discussioni.

 

C’è la pace,  scompare la mortificazione del non poter esaudire tutti i bisogni fondamentali.

Sono andata a farmelo spiegare da una psicologa cosa sono questi bisogni fisiologici: mangiare, dormire, fare sesso, respirare.

Andate a vedervi la piramide di Maslow: il fondo è fatto anche di sesso, poi più su c’è il resto: la  sicurezza, l’affetto, l’intimità, l’autostima, la realizzazione, la creatività che è all’apice.

Il sesso è alla base della piramide e allora se una persona non può muovere le mani per farsi una sega o toccare una donna solo perché una donna in quella stanza con lui non ci starebbe mai perché lui sta su una sedia a rotelle e il mondo che gli sta attorno lo descrive impotente e lui invece dentro se lo dice tutti i giorni che la potenza ce l’ha ma resta ferma tra le gambe, inespressa, e se si esprime poi si deprime che non ha modi di esprimersi, che gli dici? Che deve abituarsi a stare senza bisogni fondamentali? Eppure mangia, dorme  e respira. Ma il sesso, no. Perché  stare vicino ad un handicappato richiede tanto amore, pazienza e pace interiore e ci vorrebbe una santa per sopportarli. E il sesso le sante di solito lo mettono da parte perché hanno altro a cui pensare. E allora, cosa fai?

Se sei disabile e non hai qualcuno che ti desidera anche così, che ci fai con quella potenza?

Alla prima occasione ti viene voglia di ucciderti.

Ma se sei uno di quelli che manco a far quello ce la fanno, ti resta la depressione.

 

Il sesso è una necessità per i miei pazienti.

Anche per non morire di vergogna.

Perché quando sbatti la testa contro il muro e l’unica cosa che vorresti è sentire caldo addosso e arrivi ad umiliarti per supplicare tuo padre di sfiorarti in mezzo alle gambe che non ce la fai più e a suon di urlare diventi bestia e tuo padre, che ti ama, pur di farti smettere di essere bestia lo fa, poi, quando tutto si calma, ti viene da avere la forza di muoverle quelle mani, quelle gambe, per sollevarti e andare a toglierti tutto lo sporco di dosso con la paglietta, quella che si usa  per lavare le stoviglie e vorresti esser capace di strofinarti all’infinito, finché lo sporco lascia posto al sangue.

Gli altri, quelli che camminano, che si possono mettere a proporsi ad una donna dalla posizione eretta,  che non hanno niente che non gli funziona in giro per il corpo, che si possono masturbare dove vogliono, storceranno il naso. Queste cose non si  fanno e se si fanno non si dicono.

Non è corretto. E’ immorale.

Se fossimo giusti dovremmo lasciarci liberi di decidere se restare o andarsene, per prima cosa, no? E invece stiamo in un posto dove suicidarsi è un peccato e pensare all’eutanasia, quando sei in un corpo privo di tutti i comandi, è un reato.

Viviamo in una società dove se sei fallato, non ti gasano più, per fortuna, ma ti riempiono la testa del  “questo non si fa”.

Figuriamoci parlare di sesso dei disabili, con i disabili, tra disabili.

E’ una mostruosità.

Potrebbero esserci persone che si approfittano di loro.

 

Io a chi mi fa certe domande, che si capisce che c’è quel sottofondo moralista da puzza sotto il naso, lo chiedo.

Ma te che faresti se non potessi mai più fare sesso, mai più toccare o essere toccato?

Impazzirei, è la risposta più frequente che ricevo.

Ecco, io, i miei clienti non li lascio impazzire.

Libero i loro genitori da squallide catene fatte di paura e vergogna, ci penso io a sporcarmi le mani. Sto ridendo mentre lo dico.

Che poi il sesso è bello proprio se è sporco. Lo spiego ai miei clienti che i loro umori, che all’inizio sono loro che lo dicono che quella cosa unta è lo sporco che hanno dentro, segno che si vergognano di star bene, in realtà è un pezzo di loro che ha bisogno di uscire e vagare, come l’acqua fresca che se la lasci scorrere  è buonissima da bere e se invece la tieni dentro la bottiglia al sole prima  o poi sa di stantio, di morto.

E allora io glielo spiego che se vogliono vivere, possono anche far uscire.

Sia chiaro, io un lavoro ce l’ho, faccio la commessa in un negozio, ho una divisa, giacca nera su gonna nera, calze nere, scarpe nere tacco quattro, estate e inverno.

Tengo i capelli raccolti, porto gli occhiali scuri che sembro una professoressa del mio vecchio liceo classico. Ho 50 anni. Lavoro dalle 9 alle 17. Poi chiudo e accendo il secondo cellulare, apro l’agendina e salgo in macchina e vado da Pietro o da Aldo, da Marisa o dal Gianni. Uso solo le mani e a loro va benissimo.

A volte, quando ho finito, non vado subito via. Ci sono genitori, fratelli, cugini che mi chiedono di restare, mi offrono il caffè o mi preparano la cena. Non si parla mai di quello che faccio, si parla della vita, della mia e della loro. Si parla delle cose di tutti i giorni, dei pannoloni e dei cateteri, dei soldi che non bastano e delle medicine che sono sempre troppe, dei film da vedere, della musica da ascoltare.

A volte torno a casa con i pacchettini pieni di dolci fatti in casa.

E me li mangio in silenzio, da sola, a casa.

Loro, a me, non darebbero mai della puttana.

 

La discarica

Nella terra del pessimismo i desideri  finirono tutti nella discarica, ai margini della città. Non c’era più tempo di desiderare, di creare, di pensare a soluzioni possibili  e diverse. Il comitato nazionale di difesa della patria, prima aveva chiuso i confini, poi per tutelarsi dalla recessione, il comitato aveva deciso di mettere al bando i desideri e di concentrare tutte le attenzioni della nazione su un sano concetto di pessimismo.

Poteva solo peggiorare, erano i mercati e le borse a dirlo e la politica lanciava messaggi precisi.

“Pensa a lavorare, che altro non hai”.

“La patria, prima della famiglia ”.

“Il lavoro nobilita se ce l’hai”.

 

E così in ogni comune le aziende municipalizzate avevano aperto speciali sportelli per la raccolta dei desideri della gente, che si mise in fila, senza manco un dubbio, perché tanto il pessimismo toglieva anche la capacità di chiedersi se quello che stavano facendo era giusto oppure no.

Arrivavano tutti con il loro sacchetto dell’immondizia nero, pieno di desideri da buttare. Fogli di carta con appunti, lettere, libri, quadri, piccole invenzioni in attesa di un realizzatore, cuoricini di stoffa, fotografie di uomini e donne o di paesaggi irraggiungibili.

Dove volevi andare se non c’erano soldi neanche per uscire di casa?

Tutti in fila con il sacchetto nero, sotto il braccio, per consegnarlo all’addetto della municipalizzata incaricato della raccolta. In cambio ricevettero tutti un foglio con numero di matricola ,  con sù scritto nome  e cognome, indirizzo, professione e tipologia del rifiuto buttato.

Una prova, in caso di controllo da parte dei vigili, che erano  cittadini per bene, che avevano partecipato alle iniziative del comitato nazionale di difesa della patria, in nome del pessimismo.

Avevano anche creato una trasmissione televisiva, per dare slancio al fervore del conferimento,  per mostrare la brava gente che si liberava dei desideri, e ogni ricevuta poteva essere estratta per vincere un anno di spesa in una grande lotteria finale.

 

Tutti  i sacchi  raccolti finivano nel camion e venivano portati alla discarica, una per ogni città. A Venezia  la discarica l’avevano posizionata a Marghera nei terreni  di una vecchia fabbrica, troppo inquinati per essere bonificati e consentire nuove costruzioni.

Ai bordi della laguna, la grande discarica di sacchi neri in poche settimane prese forma. Un grande cumulo di plastiche nere che al sole cominciavano a perdere  colore e pure a rompersi, facendo uscire il contenuto.

 

Per primi arrivarono i gabbiani, abituati come erano a cercare cibo in mezzo alle immondizie.

Ma in quei sacchetti non c’era cibo; solo carte, stoffe, fogli, foto che al sole si schiarivano, dentro i sacchetti rotti dai becchi avidi.

Poi arrivarono i topi che la carta l’hanno sempre amata ma solo come assaggio senza mai distruggerla completamente. E si misero a mangiucchiare i bordi per assaggiarne la consistenza, e attraverso l’assaggio qualcuno pensò che il desiderio passava  passava ma non gli credette nessuno visto che i topi erano notoriamente produttivi sul piano della fertilità e allora non si fece caso alla anomala proliferazione di sorci in tutta la grande nazione depressa.

E dopo i topi, arrivarono i rom che avevano sentito parlare della discarica dei desideri buttati via,  per volere nazionale, e visto che loro con il ferro oramai non ci facevano più soldi, che le fabbriche erano state chiuse e il rame lo portavano via gli slavi, ben organizzati, con i camion e le armi,  e partivano in carovane per rivenderlo all’estero, e arrivavano sempre per primi, loro, gli zingari, pensarono che potevano far soldi coi desideri recuperati, spolverati, sistemati, e rivenduti.

E dopo i rom arrivarono gli africani che di desideri non  avevano mai smesso di vivere, anche se erano oramai le terze generazioni, nate tutte in questo paese malandato. Loro, la cittadinanza non l’avevano ancora avuta perché nessun partito li aveva sostenuti non sapendo con certezza per chi avrebbero votato.

Per ogni figlio di stranieri nato nella nazione ci volevano minimo venti anni di attesa, anche se eri nato dentro i confini  e bisognava sostenere un esame così difficile che se andavi alla Bocconi a chiedere di diventare professore senza laurea sicuramente facevi prima.

Loro gli africani all’andazzo si erano abituati, pativano il freddo tanto quanto i tristi, così chiamavano gli italiani di pelle bianca.

Ma loro, i neri,  come li chiamavano i tristi, avevano dentro sempre la fame.

Il governo con un decreto, anni prima, decise  che gli africani dovevano vivere tutti in periferia, a metà strada tra la campagna in cui avevano confinato i palazzi dei rom, costretti  dentro case di mattoni, tutte anonime che li avevano depressi perché a loro serviva il cielo come tetto e nessuno lo poteva sopportare quel grigio e le città dei tristi, tutte illuminate e coi negozi vuoti.

La discarica  a Venezia stava proprio tra le case depresse degli zingari e quelle affamate degli africani.

Da qualche tempo, senza che nessuno se ne accorgesse, rom e africani avevano cominciato a parlarsi, e si dicevano che era difficile per loro stare in città così silenziose come quelle che erano diventate in quel paese della paura. E siccome c’era solo un canale televisivo, quello del comitato nazionale, e solo da lì si avevano le informazioni e non facevano che parlare della crisi mondiale e dei delinquenti rom o africani che commettevano reati, in città nessuno più parlava o dava lavoro o si sedeva tranquillo vicino ad un africano o ad una donna con la gonnellona colorata, anche se questi  erano indaffarati a studiare sui libri per sostenere l’esame che non passava nessuno.

Anche a Venezia non si parlava, ci si guardava di sottecchi, si passava  oltre facendo finta di niente se loro, gli stranieri, avevano bisogno di aiuto. Per reazione al silenzio, rom e africani, invece, avevano superato la diffidenza, avevano cominciato ad aiutarsi e visto che il lavoro per loro mancava si erano messi a darsi una mano. E da lì, dai dialoghi, era venuto fuori che la discarica era una opportunità. Sì.

Recuperare, pulire e rivendere desideri al mercato nero.

Recuperavano e rivendevano sogni, desideri, progetti, speranze.

Organizzavano anche aste clandestine dove giravano ogni giorno  le poche migliaia di euro in contanti rimasti ai tristi.

 

Non si usarono cellulari e computer, facilmente rintracciabili dai servizi di controllo che vietavano il recupero di quello che era stato buttato.

Rom e africani tornarono al passato, al passaparola, sussurrato di bocca in bocca nei bar della città.

E si trovarono presto, col passare dei mesi, una fila di clienti vogliosi di riavere se non il loro desiderio almeno quello di un altro, purché sia un sogno, un qualcosa  a cui pensare nei momenti duri come una opportunità, una soluzione, una via di fuga.

Quelli che avevano fatto la fila per volere del governo si ritrovarono tutti a  farne un’altra, stavolta nella periferia scura,  per ricomprarsi sogni buttati e da nascondere sotto il materasso al posto dei soldi che erano finiti. Rom e africani divennero così i veri padroni della città e la discarica cominciò a svuotarsi, lentamente. Da loro tutti i tristi finirono con il passare.

Quando il governo scoprì l’inganno e organizzò la repressione, decidendo che sarebbero state bruciate tutte le immondizie delle discariche in giro per il paese, i rom e gli africani chiusero le aste, fecero sparire dai retrobottega dei bar i loro punti vendita e si chiusero nelle case tra campagna e periferia.

Una mattina mentre gli elicotteri lanciavano le bombe sopra le discariche, a Venezia si formò una  lunga fila di persone che lasciarono la città e marciarono verso la periferia e poi verso la campagna e poi andarono diritti verso la colonna di fumo della discarica.

Erano i tristi che camminavano, con trolley e valigie e zaini, con le macchine piene di materassi verso la discarica. Erano migliaia, erano silenziosi. Uomini e donne e bambini in marcia, chi in bicicletta, chi in moto.  Quando passarono davanti alle case degli africani e poi davanti ai condomini dei rom, loro, gli stranieri,  urlarono dalle finestre verso quella gente, li invitarono a fermarsi e tornare indietro, che là in fondo era tutto fumo e tiravano le bombe e c’era un sacco di fuoco.

Ma loro, i tristi, andarono avanti fino ai cancelli roventi della discarica, riuscirono ad aprirli, e si misero a camminare tra topi e gabbiani, in mezzo alla terra incandescente.

Avevano tutti  fame.

Di loro non parlò nessuno.

 

Polveri sottili

 

Si guardarono attraverso i vetri dei finestrini delle loro macchine, ferme, affiancate, in mezzo alla lunga coda.

Lei teneva le mani ben salde sul volante mentre il marito le ricordava che sarebbero arrivati tardi all’appuntamento in Croazia con la proprietaria dell’appartamento che li aspettava per consegnare le chiavi dell’appartamento preso in affitto per le vacanze. Era la sesta volta che lo ripeteva e lei cominciava a spazientirsi. Anche perché se non erano usciti dalla tangenziale per evitare la coda, la colpa era tutta di suo marito.

Lui aveva girato la faccia, stanco e infastidito, verso il finestrino, per non sentire l’alito del collega che era andato a prenderlo e aveva pensato bene di sbagliare strada e adesso malediceva silenziosamente le code in quella tangenziale che era un carnaio e si stava fermi, sempre, che se almeno si correva poteva aprire un attimo il finestrino e far entrare aria di ricambio in quell’abitacolo ammuffito di Punto. Nera.

Lui alzò gli occhi dopo aver fissato lo pneumatico della macchina a fianco. Era liscio.

Lei sbuffò contro il marito e girò la faccia verso il finestrino, per cercare conforto nell’orizzonte. Se lo vedeva.

Si guardarono, attraverso i vetri, e rimasero a fissarsi per cinque minuti buoni.

Tanto non si muoveva nessuno.

Poi lui sorrise, lei sorrise.

Quattro occhi, due bocche, due nasi, quattro mani, quattro piedi si unirono quel giorno sull’asfalto rovente  della tangenziale di Mestre.

Adesso mica è statisticamente facile pensare che l’amore possa sbocciare lungo l’asfalto grigio della tangenziale di Mestre, quella che in ogni messaggio radio sulle condizioni di traffico veniva indicata, fino a qualche anno fa,  come il valico degli ingorghi, con un minimo di dieci ed un massimo indefinito di chilometri di auto e camion e camper, incolonnati verso le località del mare e della montagna. Ogni estate. Dal 1972 a qualche anno fa.

Un posto che tutti temevano, il valico di Mestre, una montagna di auto a passo d’uomo che per percorrerla, dal casello di Villabona fino al cubo, l’orribile edificio di tubi innocenti, messo da qualche mano improvvida sopra la struttura del bar della stazione di servizio, prima dell’uscita per l’aeroporto e l’autostrada per Treviso e Belluno, ci volevano 17 chilometri e 700 metri e se andavi a piedi facevi prima.

E tutti stavano dentro gli abitacoli surriscaldati. 150 mila pezzi di lamiera di ferro ogni giorno, fermi, a far bollire la frizione andando di prima e seconda e stop, col caldo e il tempo che non passa mai e chi vuoi che abbia voglia di guardare fuori, quel che facevano gli altri quando sei incastrato in due corsie, in colonna, col caldo, con l’odore del tubo di scappamento del camion davanti e poi la immobilità diventa spavento che avanti di questo passo quando si arriva?

Ecco come fai a pensare che in una situazione simile nasca un amore? Non lo pensi.

Lei, anni dopo, diceva che era stata una questione di Karma.

Lui, anni dopo, agli amici ripeteva che il destino esiste.

La bionda turista tedesca e l’operaio della campagna padovana, lei stanca del marito insofferente e lui del collega con l’alito cattivo, quel giorno si guardarono e si amarono tanto.

E la cosa mica si esaurì lì, in quella strada inquinata, rumorosa, calda.

Perché a volte l’amore te lo porti dietro anche se dura un niente e diventa, in assenza del quotidiano, un pensiero salvavita.

L’amore, quel giorno, nell’asfalto, aveva gli occhi dolci di una signora tedesca, col ciuffo biondo che le cade sul viso e sembra disegnarle un punto di domanda sopra il naso e lei di punti di domanda nella sua vita ne aveva, oramai, ben pochi perché aveva un lavoro, una famiglia, un marito, una casa presa in affitto in Croazia e il corso da subacqueo da fare per prendere il brevetto.

E aveva le labbra rosee di un operaio padovano che in Germania non c’era mai stato e mai andò ma amava tanto uscire con la barca per andare a pescare in laguna e conosceva tutte le secche, quelle che se non stai attento ti ci impantani con la barca, ma se ci vai con una bella donna torna utile, la secca, in laguna, col sole che cala e i gabbiani che passano a vedere che succede.

 

Le due auto procedettero, passo passo, distanziandosi e riprendendosi, lungo le due corsie e si vedeva  in fondo la sagoma del cubo. E l’operaio e la bionda, si scambiavano sorrisi e sguardi e ad ogni avanzata, prima e seconda e stop, si cercavano.

E lei pensava che per un uomo con una bocca così avrebbe rinunciato a qualsiasi brevetto.

E lui pensava che quel punto di domanda di capelli biondi andava sciolto, con un soffio.

Poi la macchina della bionda mise la freccia per spostarsi sulla sinistra e procedere verso il confine e la Croazia, che c’era quella signora che li attendeva con le chiavi dell’appartamento.

La macchina degli operai lasciò loro il passo tanto dovevano buttarsi sulla destra per prendere la bretella, sperando di non arrivare troppo tardi in fabbrica che mancavano oramai pochi minuti all’inizio del turno e loro erano ancora lì, nell’ingorgo e non a timbrare il cartellino.

Lei guardò dallo specchietto retrovisore, lo spostò per vedere gli occhi di lui che  nella macchina dietro e poi a fianco per l’ultimo metro, girò la testa per seguire la sagoma della macchina di lei finché poteva.

Lei sistemò il ciuffo biondo e pensò che anche se tutto è fermo, qualcosa si stava muovendo.

Lei si toccò le labbra,  con un dito e si disse che aveva bisogno di laguna.

 

Si persero, come le polveri sottili.

Si pensarono tutti i giorni.

Si amarono finché ebbero ricordi.