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Vagheggio astigmatico da 47 a 132

Posso mettermi i tappi nelle orecchie, chiudere le finestre, staccare tutte le spine degli elettrodomestici e pure togliere la suoneria del telefono. Ma non ci sarà mai silenzio in me.
Camminando, con le orecchie tappate, mi pare di sentire il colpo della ciabatta sul pavimento e allora mi stendo sul letto. Cerco di restare ferma, immobile, per non farle frusciare le lenzuola appena cambiate. Il tatto immediatamente mette voglia di sentirlo muovere questo cotone pulito.
Il gusto frega, di solito. Il tatto e l’udito condannano alla dipendenza.
Ma scaccio il pensiero.
Niente, non devo volere niente. Non è più tempo.
Mi stendo su questo lenzuolo con la flemma di un fachiro allenato, deciso a non provare niente. E’ facile, mi dico, è come entrare ogni giorno in un centro commerciale. Lì la gente, semplicemente, non vede.
E allora ci provo. Non mi muovo e già che ci sono, trattengo pure il fiato. Idiota, mi beo dell’attimo della conquista. Ma dura poco.
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Arriva lui, con il passo silenzioso di un gatto che punta la preda. Il battito del mio cuore si fa strada nel finto silenzio delle orecchie tappate in cui il mio cervello si è accomodato, passa dentro al condotto uditivo, solletica il timpano, e si mette comodo lì, a sussurrare al cervello.
E’ il battito, adesso, ad imporre il ritmo, il respiro si accoda e vanno a tempo. Ci sono solo loro e sembrano alzar la voce, insieme.
Il suono è un movimento nello spazio, prodotto da una sorgente e anche se provi a fermare tutto, ci sarà sempre questo cuore scheggiato, che ti batte dentro il petto, anche se non lo vuoi, a produrre quella maledetta vibrazione. E il mio corpo adesso è una grancassa.
Guardo verso la finestra. Le gocce della pioggia rimbalzano sul vetro. Piove. Immagino il rumore del temporale che si fonde con quello del cuore e del respiro e assieme mi camminano sulla pelle. E lei, stronza, prende il passo del gatto, e ha voglia.
Del rumore delle lenzuola su cui strofinarsi per odorare di pulito. Dell’odore della pioggia di là del vetro sotto cui andarsi a bagnare.
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Il silenzio è solo una fantasia, che ci imponiamo per non sentire.
Siamo fatti di ritmo e anche se ci mettiamo un casco di cartoni per le uova sulla testa, e lo teniamo fermo con mezzo metro di cellophane e un paio di cuffie vecchia maniera, finiamo col sentirlo quel rumore, continuo, perché noi, di ritmo ci facciamo per sentirci vivi.
E desideriamo, vogliamo toccare e sentire, usiamo le mani per dare piacere e chiediamo mani che ce lo diano. E cerchiamo parole che ci proteggano da quello che non sappiamo. E comodità che annullino il bisogno di rischiare. E ci obblighiamo a non dire mai di no per non lasciare agli altri il compito di dircelo. E scordiamo il grazie e preferiamo all’amore una gabbietta per canarini.
Ma quando il cuore scheggiato cambia passo, ci accorgiamo di tutto questo e gli occhi astigmatici con cui si guarda al mondo, offuscandolo in continuazione, scambiando bisogni per amori e calessi, mugugni per amplessi, sogni per incubi…vedono meglio. E’ come quando ti trovi per giorni a vivere tra prati e alberi e il verde del semaforo, quando torni a casa, quando torni al grigio del cemento della città, non ti è mai sembrato così verde. E i capannoni li senti corpi estranei e pure le abitudini non le senti più tue.
Ci vedi e lasci che la mano vada, dove deve andare.

Post scriptum: grazie a Rino e Lorenzo per lo spaccio di bpm sonori