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Il bar della piazza

Il cappotto l’aveva buttato sullo stendino in terrazzo, a prendere aria dopo quella notte pregna di tabacco.
A Marghera era un sabato di ottobre, bello, di sole, lievemente ventoso. C’era il mercato e la gente parcheggiava un pochino ovunque, vicino a casa di Martino, per andare a fare le spese.
Con le fabbriche chimiche oramai quasi tutte chiuse, Marghera non si svegliava più la mattina con quel puzzo di uova marce che Martino aveva imparato a riconoscere come l’odore di casa. Per tanti anni quando tornava dai suoi viaggi, in treno o in macchina, era l’odore di uova marce che si cominciava a sentire da Malcontenta e che entrava nella macchina o nel vagone dai condotti dell’aria a dire che si stava per tornare a casa.
Marghera in quell’ottobre con le fabbriche del Polo agonizzanti, mostrava al di là del muro di capannoni di via Fratelli Bandiera, il grande viale dei camion che di notte lasciava spazio ad ogni semaforo alle prostitute nigeriane, il suo volto vero di città giardino. Gli alberi profumavano.
Era la rivalsa dopo una delle tante bizzarrie dei primi del Novecento, sperimentate lì a due passi da Venezia.
Piazzare le fabbriche davanti alla città dal passo lento e dal vociare costante e costruire, come per chiedere scusa, quel quartiere operaio nel verde più verde. Martino viveva lì e non avrebbe voluto stare in nessuna altra parte.
Il cappotto l’aveva steso sullo stendino in terrazzo, in quella giornata limpida e senza polveri, per togliere l’odore del fumo.
Aveva trascorso la notte in un locale di piazza Barche, nel centro di Mestre. Piazza Barche per i mestrini, piazza XXVII Ottobre per la toponomastica. Mestre che in una notte aveva perso centinaia di piante per lasciar posto alla smania di costruire, ha ancora strade e piazze con nomi doppi, quelli della tradizione e quelli della toponomastica ufficiale.
Un’altra bizzarria del Novecento.

Era un locale nuovo, quello in cui Martino aveva passato la notte. Non l’aveva mai visto prima e manco mai l’aveva sentito nominare. Passeggiava in piazza, quando aveva visto un gruppo di persone intente a parlare davanti ad una porta che dava su un locale stretto e tutto scuro, con le luci basse. E si era stupito perché sotto al porticato davanti all’ingresso c’erano due grandi casse che sparavano fuori decibel a tutto volume e una strobo, una di quelle palle fatte di vetrini che giravano nelle discoteche degli anni Ottanta (sempre Novecento era), e lui, Martino, si era fermato a fissarla a bocca aperta che erano anni e anni che non ne vedeva una così. Erano anni in verità che non entrava in una discoteca.
Il locale era di quelli modernissimi, pareti grigio scuro, belle bariste in pantaloni a sigaretta e magliette aderentissime e tacco con plateau. Altissime, magrissime, con la coda di cavallo liscia, lunga che ricadeva sui colli esili come quelli di certe africane che aveva visto e segretamente amato nei suoi viaggi.
I clienti erano tutti vestiti bene, le donne con le gonne strette e il tacco dodici; i ragazzi con la giacca elegante, qualcuno anche con la cravatta. Tutti in mano avevano qualcosa da bere. Tutti bevevano.
Manco una birra degna del nome, pensò Martino, guardando il gruppo delle spine.
Pareva la festa di inaugurazione, una di quelle situazioni in cui tutti sfoggiano un sorriso di circostanza e sperano di far passare le ore senza problemi, dopo una giornata di lavoro.
E allora Martino si era deciso a passeggiare in mezzo alla gente tra il porticato con la musica e i tavolini, tutti occupati, e l’ingresso del locale, una stanza piccola, con la porta impegnata dall’andirivieni delle bariste e delle cameriere, che portavano fuori vassoi di tramezzini e di bicchieri di birra e vino bianco.
L’unica persona, che non chiacchierava o beveva, era una ragazza, vestita di nero. Aveva i capelli neri ricci e stava seduta davanti ad una delle grandi casse, come se il rumore non le desse per niente fastidio. La osservò meglio. Aveva un cappotto grigio scuro, di quelle stoffe che si usavano una volta, fustagno.
Ai piedi portava delle scarpette basse di vernice rossa; stringeva al petto una borsa di panno con sopra una grande faccia di gatto. Portava gli occhiali, con le stanghette rosse. Guardava verso un punto non preciso della piazza, come se fosse attirata da qualcosa, lì in fondo, lontano.
Osservandola meglio Martino capì che in mezzo a quei ricci scomposti che toglievano la visuale dal suo collo, la ragazza indossava delle cuffie. Il supporto le faceva da un cerchietto ma su di lei il cerchio di gomma e pure le due cuffie sparivano in mezzo al tripudio di ricci neri, intricati come le mangrovie. Fossero stati verdi i capelli, sarebbe stato un bel vedere davvero, pensò Martino.
La ragazza guardava lontano e muoveva la testa, piano, al ritmo della musica che sentiva nelle orecchie e Martino si chiedeva se il ritmo era simile a quello della musica delle casse perché a lui sembrava di sì, ma non poteva esserne sicuro e allora si fece coraggio e andò a sfiorarle la spalla. E lei inarcò la schiena con un gesto veloce, presa di soprassalto da quel tocco e lo guardò attenta.
Martino dovette urlare per farle la domanda.
“Scusa coooosaaaaaa staiiii ascoltandooooooo?”, le urlò contro, tentando di superare il rumore delle casse, per far sentire la sua voce.
“Niente”, risposte lei.
“Comeeeeee nieeeeente?”, ribattè lui.
La ragazza gli sorrise e lo tirò per il cappotto togliendolo da davanti le casse della musica.
“Le cuffie non sono collegate a niente. Vedi il cavo con lo spinotto? Lo tengo in tasca, mi serve per far finta che sto ascoltando musica, così non mi vengono a disturbare. E invece ascolto la musica delle casse, mi metto qua perché mi piace sentire il rumore dei bassi prodotti dalle casse, mi concentro su quelli e mi passano i momenti fastidiosi”.
“Fastidio di che?”. Martino era curioso.
“Fastidio per tutte queste parole inutili. Sono venuta qui con una amica a cui piace quel tipo, quello biondo là in fondo. Lei gli cicaleccia dietro, io mi annoiavo e mi sono messa qui”.
“Ma questo locale è nuovo?”, continuò a chiedere Martino.
“Boh – rispose la ragazza – mai sentito o visto prima. Senti, ti va se ce ne andiamo a passeggiare?”.
Martino annuì e la seguì. Percorsero a piedi 45 volte la piazza, dal porticato del bar fino ai parcheggi vicino al canal Salso. Si dissero un sacco di cose. Ma Martino il giorno dopo mentre sistemava il cappotto sullo stendino ricordava solo le cose essenziali.
Elena, 20 anni, studentessa a Ca’ Foscari, padovana, bella, capelli neri, ricci come le mangrovie che se erano verdi era stupendo.
Dita piccole; tre anelli d’argento; vestito nero; scarpe rosse; occhiali con stanghette rosse; bocca rosa dal gusto dolcissimo.
Martino ricordava perfettamente che lasciandola davanti al porticato di quel locale, a notte fonda, l’aveva baciata e lei, Elena, aveva ricambiato. E poi si era rimessa sulle orecchie le cuffie mollandogli il più bel sorriso che lui avesse mai visto, Africa compresa.
E lei gli aveva detto qualcosa ma senza voce, solo muovendo le labbra e l’aveva ripetuto tre volte. E lui non aveva capito e per paura di fare la figura del fesso aveva sorriso ed era andato via.
Martino il giorno dopo nello stendere il cappotto in terrazzo, aveva sentito che c’era qualcosa nella tasca e ci aveva trovato dentro un cuoricino di plastica rosso, piccolo. E così aveva indossato la tuta e il giubbotto e senza neanche bere il caffè, aveva preso la macchina ed era tornato in piazza Barche. Era convinto che al locale avrebbe trovato qualcuno che c’era la sera prima e che magari Elena l’aveva vista e gli poteva dire dove trovarla. Lui era convinto che quel pezzo di plastica glielo aveva messo lei in tasca, senza farsi notare.
E così era arrivato in piazza e si era messo a camminare su e giù per i portici cercando l’ingresso del bar. E invece c’erano un negozio di scarpe, uno di saponi artigianali, una banca, una edicola, un negozio di tappeti chiuso da decenni. Ma di bar manco l’ombra.
Era andato così a chiedere informazioni all’edicolante e quello, che aveva aperto alle cinque, l’aveva guardato stranito e gli aveva detto che no, non c’era alcun bar nuovo nella piazza e mai c’era stato e che no la sera prima non c’era stata alcuna festa, ché lui aveva chiuso tardi e avrebbe visto e che insomma, Martino, forse aveva sbagliato piazza o città perché non era successo niente di quello che lui raccontava.
E Martino non gli aveva creduto e aveva fermato una pattuglia di vigili e aveva chiesto a loro se avevano visto la festa al bar e anche loro gli avevano ribadito che no, non era successo niente. E nessuno aveva chiamato alla centrale per il troppo rumore.
Martino se ne era così tornato a casa mortificato, convinto di essere ad un passo dalla follia se vedeva cose che nessuno vedeva.
Aveva lasciato il cuoricino di plastica rossa sul comodino e alla sera era andato a dormire, sentendosi un pochino matto, un pochino scemo.
Quella notte sognò il bar, sognò Elena, la vide sorridere e infilare le cuffie e poi dire le parole mute.
E capì ogni sillaba.

Fermata Gioia

Quando la vede pensa a Milano, il posto dove l’aveva notata per la prima volta. E dove si era innamorato di lei. C’era stato tre settimane fa quando aveva percorso un tratto della M2 per arrivare a Garibaldi
dove lo aspettava Pino, l’amico del circolo di subbuteo che era andato a lavorare a Milano da qualche mese e che, sistemata casa, l’aveva invitato per un weekend milanese. Che poi, a dirla bene, era stato non un weekend ma solo una serata di sabato passata a guardare la Madunina, come la chiamano i milanesi, a infilare il tacco tra le palle del toro, dentro una galleria, e a passeggiare tra la gente indaffarata a divertirsi. Milano era troppo per Alfio, troppo città, troppa gente. Ma aveva visto lei e aveva capito che ci si può ancora innamorare a 50 anni.
E come tutti gli innamorati, si ricordava tutto, ogni singolo gesto e situazione. E amava Milano, pur non sopportandola.
Appena sceso dal treno da Venezia in stazione centrale, Alfio aveva finito con il perdersi tra i tapis roulant alla ricerca di un gabinetto prima di entrare in metropolitana, e con il foglietto con le indicazioni date dal Pino al telefono, in una mano, e con il trolley a strisciare sul pavimento nell’altra, si era messo a seguire i cartelli verso la fermata della M2, la linea verde, quella che doveva prendere per raggiungere la stazione Garibaldi.
Era sceso dal treno agitato Alfio e nel correre, cercando con l’occhio l’indicazione per la metropolitana e contemporaneamente guardandosi attorno alla ricerca dell’insegna dei gabinetti della stazione, che aveva bisogno di pisciare, perché il bagno del treno era fuoriuso e in quello delle donne non ci aveva voluto andare, metti che poi arriva una signora e si infastidisce, e pure a ragione, di trovare un uomo che occupa la tazza delle donne, e sai che figura da provinciale, Alfio aveva finito con il dimenticare di trattenere il bisogno e la vescica nel camminare convulso, mentre l’occhio andava alla ricerca dell’insegna
giusta e invece c’erano solo negozi attorno, in quella stazione, e troppa gente, la vescica, dicevo, aveva mollato la presa e uno schizzo caldo gli era finito sulle mutande e lui camminava sentendo il caldo dell’urina che si faceva strada tra i tessuti, il cotone della mutanda e quello dei jeans. Poi per fortuna l’insegna del gabinetto era comparsa lì in fondo, dopo la salita delle scale mobili, e Alfio
aveva accelerato il passo.
Si era trovato davanti un signore, in tuta verdina.

“Costa un euro, le serve che le cambio monete?”.
“Cos’è che costa?”, gli aveva risposto Alfio passando oltre e trovandosi davanti una serie di sportellini di vetro, che bloccavano l’accesso ai bagni e accanto delle lastre d’acciao con la scritta: “Insert coin”.
“L’uso del bagno, signore”, aveva replicato l’uomo.
“Si paga per pisciare a Milano?”. Alfio si era girato a guardarlo stupito.
“Sì, si paga. Ha un euro? O cambio?”, gli aveva risposto l’addetto dei bagni, sbattendo la mano sulla tasca e producendo un rumore metallico. Aveva la tasca piena di monete.
Si erano fissati un attimo e Alfio è sicuro di averlo visto abbassare lo sguardo fino alla patta dei pantaloni e temendo che quello notasse la macchia di urina, aveva abbassato il foglietto per coprirsi le parti basse.
“No, ce l’ho grazie”.
E aveva tirato fuori dalla tasca la moneta.
Inserito l’euro nella fessura dell’ “Insert coin”, le porte di vetro avevano ondeggiato come tende e si erano aperte di lato. Alfio si era infilato poi nella prima porta aperta dei gabinetti degli uomini.
Puzza di merda.
Dentro al cesso Alfio si era seduto sul water guardando il cavallo dei jeans. La macchia di urina si notava, eccome, sotto la cerniera dei jeans scoloriti, quasi bianchi. Meglio cambiarli, visto che aveva la valigia dentro il gabinetto e dopo aver finito di pisciare, liberandosi di quella cosa calda che oramai lo opprimeva, aveva aperto il trolley e tirato fuori un altro paio di pantaloni, neri, per sicurezza, e pure un paio di mutande pulite, sempre nere. E si era cambiato in quel metro quadrato scarso attorno al water, dopo essersi pulito con la carta igienica.
Sua madre gli aveva preparato la valigia come piaceva a lui, tutto piegato e stirato, pantaloni in un sacchetto, le maglie e la camicia in un altro, il pullover sotto, che tanto se si sgualcisce non importa. Poi Alfio era uscito dal gabinetto, era andato a lavarsi due volte di seguito le mani al lavandino fuori dai bagni e poi aveva atteso che la porta di vetro si riaprisse per uscire.
“Deve premere il bottone con la freccia alla sua destra”, gli aveva urlato contro l’addetto dei bagni.
E quello aveva abbassato lo sguardo ai pantaloni di Alfio, che pensò che queullo sicuramente aveva notato che lui si era cambiato e lo stava prendendo o per un pisciatore incapace di trattenere o peggio per uno che guarda la gente nella stazioni e viene nelle mutande. Meglio andare via, subito. E allora gli era passato accanto salutandolo con la mano e chiedendo: “Per la metropolitana?”.

“Vada di là”, gli aveva risposto l’uomo distratto da altri viaggiatori, alle prese con gli sportelli di vetro da aprire.
Alfio aveva poi ripreso il cammino finché non aveva visto l’insegna della M2 e si era deciso a seguire il flusso di gente ritrovandosi poi all’improvviso a pochi passi dai binari proprio mentre arrivava il convoglio, e sempre trasportato dalla gente, tramortito dallo spostamento d’aria calda, si era ritrovato dentro la cabina. Aveva afferrato con una mano un sostegno di plastica mentre con l’altra aveva stretto il manico dell’asta del trolley e si era messo a contare, mentalmente, le fermate.
Due. Prima, Gioia, poi Garibaldi e arrivo. Pino lo aspettava là.
Pochi minuti e una voce metallica aveva annunciato l’arrivo alla fermata Gioia.

E Alfio aveva guardato fuori e l’aveva vista.
Bellissima, lei gli sorrideva dal binario davanti a lui. Lo fissava. I capelli castani e lunghi le scendevano a boccoli leggeri sul viso, due occhi verdi lo guardavano rapito. Lei gli sorrideva, a lui è cascato il trolley per terra. E l’ha seguita con lo sguardo finché non l’ha persa di vista quando il vagone ha ripreso la sua corsa verso Garibaldi. Di sicuro era vestita poco, per andare in giro in metropolitana, da sola, aveva pensato Alfio.
Lui da quel momento non ha capito più niente.
E’ convinto di averla vista altre due volte, quel sabato sera a Milano, mentre passeggiava con Pino, dopo la pizza. Non ricorda bene, perché lui si è bloccato a guardarla mentre lei lo ha osservato, ha raccontato agli amici a casa, stavolta con una mano tra i capelli e una posa a metà tra il “prendimi qui in mezzo a tutti” e il “mi sono appena svegliata”.

Una meravigliosa creatura, una dea ha sicuramente il suo volto, dice Alfio quando parla di lei. E da quando è tornato da Milano ne parla spesso e la vede, dice, tutti i giorni alla fermata dell’autobus, quella prima del capolinea a cui scende per andare e tornare dal lavoro.
Di quel sabato sera a Milano Alfio non ricorda altro da tre settimane se non lo sguardo di lei che lo fissa. E’ sicuro di amarla. E quando sente parlare di Milano pensa che quella città l’ha fatto innamorare e allora la fermata in cui la vede tutti i giorni, al mattino alle 7.30 mentre va in fabbrica e alla sera alle 20 quando torna dopo la palestra, lui la chiama la fermata “Gioia”, anche se sa benissimo che non c’è alcuna metropolitana, che non vive a Milano ma alla periferia di Venezia in un paesetto che è un dormitorio e dove una donna così bella si annoierebbe.
Ieri sera Alfio però si è deciso, è passato con il bus che lo porta a casa, è passato davanti alla fermata Gioia, l’ha vista quella dea, bellissima, stesa su un materasso a carponi e si è detto che una femmina così bella non se la poteva mica far scappare.
Che da come lei lo guarda tutti i giorni, era doveroso scendere e parlarci. E allora si è alzato dal seggiolino del bus e ha urlato contro all’autista del bus, chiedendogli di fermarsi e farlo scendere. E l’autista che lo conosce bene Alfio, che lo vede ad ogni turno di guida, si è fermato, pensando che quello stesse male ed ha aperto le porte.
Alfio è corso giù e si è messo a correre verso la fermata del bus, illuminata, e mentre correva pensava che doveva dirlo a quella donna che era innamorato e che se lei voleva si poteva provare, che era giusto, che l’amore arriva anche a 50 anni e bisogna provarci, anche se ci si spella le mani nel tentativo e si soffre, ma poi c’è la gioia dello stare assieme…
La corsa è finita davanti a quegli occhi che lo fissano, la pelle rosa, la curva del seno che prepotente esce dal reggiseno.
Alfio non ha saputo più che dire e ha pensato che doveva solo appoggiare le labbra e sfiorare quelle di lei. Lo hanno trovato lì, attaccato alla gigantografia della modella di una nota marca di intimo femminile, i vigili urbani e lui non voleva staccarsi dal manifesto, tra urli e pianti.
Così riferisce il verbale.

La bustina del tè

“Hai visto? Anche oggi le Borse sono in fortissima perdita”.
Dario attende una risposta e, non sentendola arrivare, solleva lo sguardo dal giornale per vedere se Mara lo sta ascoltando. Lei guarda fuori dalla finestra della cucina, la tazzina del caffè vicino alle labbra. Soffia lentamente per raffreddarlo. Risponde solo dopo cinque minuti.
“Con i soldi che abbiamo noi in banca, manco giochiamo a Monopoli. Che te ne frega della Borsa…”, dice lei, senza voltarsi verso il marito.
Lui riabbassa gli occhi sul giornale. Ma le notizie hanno perso di colpo di interesse.

E’ la prima volta che Mara parla a Dario dopo una serata e una notte difficile, trascorsa una a fianco dell’altro, stando attenti ad evitare qualsiasi contatto, quasi per evitare che la voglia di calore dei rispettivi corpi li costringesse ad avvicinarsi.
Quando si vive assieme c’è questa abitudine al riconoscere nel calore dell’altro una parte di noi. Il sonno, di solito, riavvicina i corpi. Anche quelli arrabbiati.
La sera prima, a cena, era bastata una parola di troppo di Mara, che contestava a Dario di non aver chiuso la porta del frigorifero, per far scatenare la rabbia di lui.
“Sei una belva in agguato, a caccia di ogni mio errore per rinfacciarmelo. Non ti sopporto più”, le aveva urlato contro lui.
Mara aveva sgranato gli occhi, gli aveva lanciato una occhiata furente e poi si era chiusa in camera da letto a guardare la televisione.
E quando Dario l’aveva raggiunta all’una di notte, per dormire, lei era già persa chissà dove nel suo sonno.
Vicino al suo fianco destro aveva posizionato uno sbarramento. Al centro del letto, Dario guardò il tubo di cuscino, quello che lei usava spesso per sollevare i piedi stanchi la sera. Era la barriera che lei solitamente alzava per allontanarlo. Ogni volta che litigavano lei non replicava alle sue sfuriate
ma creava barriere contro la sua vicinanza. O andava a dormire in salotto pur di stargli lontano. Poi il giorno dopo, quando aveva voglia, ricominciava a parlare. Dario, la mattina, si svegliava sempre con il bisogno di lei; il suo corpo reagiva subito, pronto e allegro.

Ma stavolta quando si è girato sul fianco per sfiorarla ha finito con il premere la sua allegria contro il cuscino ed è rimasto interdetto. Per l’ennesima volta, quella barriera tra loro sanciva un risveglio triste.
Mara, dopo ogni discussione, si chiude in camera e alza la barriera in mezzo al loro letto. Dario va a sfinirsi di seghe in salotto, guardando i film porno sul pc. I gemiti di quegli estranei soffocano dentro le sue orecchie protette dalle cuffie e lei manco se ne accorge.
Dario appoggia sulla tavola il giornale e mescola lo zucchero dentro la tazzina del caffè.
Guarda Mara che gli da le spalle.
Avrebbe preferito, si dice, una evoluzione alle loro baruffe, un bel ring coi guantoni per darsele di santa ragione e poi, una volta stremati, ridere e fare di nuovo all’amore.
E’ stanco di litigare per delle stupidaggini. “Lavoro, porto a casa uno stipendio decente – pensa – Certo non possiamo permetterci regali extralusso e viaggi ai Caraibi o weekend alle Terme. Ma non abbiamo una vita di stenti e segreti. C’è amore tra noi”.
Dario sente la stanchezza di litigare se dimentica la porta del frigo aperta, il calzino finisce sotto il letto a riempirsi di polvere e la tavoletta del cesso resta, troppo spesso, sollevata. Ha provato a segnarsi le cose per ricordarsele ma spesso torna a casa stanco e se ne dimentica.
Mara, per ogni sua azione sbagliata, parte con la ramanzina. Gli pare di sentire sua madre ogni volta che lei mette la quinta sulle sue recriminazioni. E a lui tocca arrabbiarsi, per togliersi dall’impaccio.
Nei primi anni del loro matrimonio non era così _ si dice ancora Dario _ non guardavano con pignoleria ad ogni difetto dell’altro.
Poi l’astio ha bussato alla loro porta e si e’ piazzato sul divano ad osservarli. Presto avrebbe finito per il percorrere ogni angolo di quella casa, si dice Dario. Il matrimonio è la tomba dell’amore. E loro due, pensa Dario, stanno scavando una lunghissima trincea.

Mara guarda fuori dalla finestra e pensa che un’altra giornata noiosa sta cominciando in quella casa dove tutto è abitudine. Si annoia, Mara, di tutto. Da mesi non vede la sua vita se non come una noiosa ripetizione di gesti e azioni. Un dejà-vu continuato, di cui può anticipare parole e pure gesti e situazioni. Un giorno sempre uguale senza neanche l’emozione di veder se la marmotta, uscendo dalla tana, vede la sua ombra o meno. Non le era successo niente di particolare per diventare così apatica. Una mattina ha acceso la radio e un medico parlava di menopausa e spiegava che di solito arriva ai 50 anni. Mara li avrebbe compiuti tra un anno e pensò, quel giorno, ascoltando il medico, che sparita la fertilità, non si sarebbe più sentita donna. E il malumore, di fronte a quella improvvisa consapevolezza, divenne il suo confidente. Si alza la mattina ed è arrabbiata. Ogni gesto di Dario la infastidisce, le sembra di aver a che fare con un bambino. Ma lui di anni ne aveva 52 e a quell’età si è adulti.
Ma gli uomini non hanno scadenze se non quando entrano in una bara. Le donne, invece, pensa Mara, scadono prima e lei si sente addosso le lancette delle ore che passano. E così passa le giornate ad annoiarsi e al ritorno a casa del marito sfoga il malumore rimproverandolo e ogni volta che lui le si fa più vicino per giocare lei si scansa, timorosa che lui avverta la prossima trasformazione. Teme che lui senta l’odore della scadenza in arrivo. E si arrabbia. Le piacerebbe _ si dice _ un giorno fare qualcosa di diverso: tirare uno schiaffo a Dario, magari, e non battere la ritirata nella sua fortezza tra i cuscini.
Certo, la mattina ha voglia di Dario, del suo odore e del suo corpo. Ma cerca di non pensarci, ha paura di provare e non sentire più niente.

“Ma tu mi desideri ancora?”. Le parole di Dario le rimbombano in testa come una martellata, all’improvviso mentre vaga nei suoi pensieri.
“Ma che stai dicendo, certo che ti desidero”, risponde lei girandosi verso il marito.
“Oh, finalmente mi guardi. E’ un’ora che fissi la finestra e mi dai le spalle”.
Mara legge sulla faccia di Dario tutta la sua incapacità di capirla.
E’ domenica, un’altra noiosa domenica a casa.
A lei torna la voglia di tirargli quello schiaffo e andare in strada a passeggiare. A Dario viene voglia di tirarle un manrovescio e andare al bar.

Lei scaccia il pensiero e va in salotto. Il computer di lui è in stand by sul tavolino davanti alla televisione. Lei sfiora la tastiera e lo schermo si accende inquadrando una foto porno. Un uomo si masturba su un divano mentre una ragazza gli sta seduta sopra la faccia. Sembrano spassarsela.
Mara pensa che anche lei e Dario se l’erano spassata, molto. Poi pensa che Dario è un porco.
Lui l’ha raggiunta, vede la foto, le sorride.
“Sai, Mara, mi manchi”. Lo dice quasi per scusarsi della foto dimenticata sul computer.

“Dario io il prossimo anno faccio 51 anni _ risponde lei, seria _ significa che arriva la menopausa. Lo sai cosa vuol dire? Che non sarò più donna. Non ti farò più godere e io non sentirò niente”.
“Ma che dici Mara, non è vero. Chi dice che il sesso è bello solo da giovani, non sa niente. Prova a chiederlo a mia madre e vedrai cosa ti dirà lei”.
Mara si scansa.
“Tua madre ha settant’anni Dario”.
“Con mio padre fa sesso più di noi due”, risponde lui.

A quel punto Mara si stufa, prende il portamonete.
“Esco, vado a prendere le sigarette”.
Dario, rimasto solo, sprofonda nel divano e resta a fissare la foto di quei due che se la stanno spassando mentre lui no.
Ripensa alle parole della moglie, a quel “non potrò più godere” e la rabbia gli monta dentro. Non aveva mai pensato fino a quel momento di aver sposato una cretina. Roba da non crederci.
Eh, ma si dice, le avrebbe fatto vedere lui come sarebbero andate le cose tra loro. E più si arrabbia, più gli arrivano segnali di vita remota sotto la cintola dei pantaloni.

Quando Mara rientra, lui la aspetta davanti alla porta della cucina.
“Seguimi”, le dice.
Mara obbedisce, tanto si immagina già una riedizione della discussione lasciata interrotta poco prima.
“Io preparo il tè, tu va in camera e spogliati”, le dice lui.
Mara resta interdetta ma lo fa. Va in camera, toglie pantaloni e maglia e infila la sottoveste che usa di solito per dormire.
Quando Dario arriva in camera con il vassoio con sopra la tazza piena d’acqua e dentro la bustina del tè, le rivolge uno sguardo sornione.
“Ti ho detto di spogliarti, non di metterti la sottoveste. Ti voglio nuda”.
Mara muove la testa da sinistra verso destra. Ripete due volte.
Dario le risponde alzando e abbassando la testa. Ripete tre volte.
Lei, di malavoglia, toglie la sottoveste e gli slip e resta nuda.
“Coricati sul letto, cara”.
Mara obbedisce e sente che qualcosa non quadra: il dejà-vu nella tua testa non risponde bene, insomma suo marito fa quello che gli pare.
Lui le sistema il cuscino dietro la testa.
“Adesso, se non ti dispiace, ti bendo gli occhi”.
E Dario non aspetta neanche che Marta accenni un sommesso no, lega sopra il naso una benda di raso nero, quella che lei usa tutte le sere per sollevare i capelli prima di struccarsi.
Mara vede solo nero, adesso, la luce è solo un lieve velo grigio.
E’ nervosa ma la voce di Dario le permette di capire dove lui si trova. Ora si allontana, poi sente la voce vicinissima all’orecchio.
“Rilassati”, le dice lui, accarezzandole il viso.
Poi silenzio.
Un tocco come di cucchiaio che viene appoggiato ad un piatto.
Mara cerca di capire.
All’improvviso, inarca la schiena verso l’alto come se una corrente elettrica la stia percorrendo tutta, dalla punta dei piedi all’ultimo capello.
Sente un calore, fortissimo, in mezzo alle gambe. Liquido che scende sul clitoride, calore che si espande fin sotto le cosce.
Sente la mano di Dario cingerle i fianchi e poi un sollievo farsi strada.
E’ la lingua di Dario adesso, prima lenta e poi veloce.
Poi torna ad inarcare la schiena, adesso la vagina le pulsa dentro la testa.
Lui sta in silenzio, Mara può sentire il suo respiro che si fa sempre più pesante. Lei riesce a dire solo “ancora”.
E lui ricomincia: prima il caldo che si espande e dilata e poi il fresco della sua lingua.
Ripete l’azione in un tempo infinito e Mara non riesce più ad elaborare un pensiero più lungo di un fremito.
Lei cerca la sua testa con la mano, si aggrappa ai suoi capelli, ansima ad ogni cambio di temperatura.
Sorride nel sentire il suo corpo farsi fluido, urla la sua gioia.
Allora Dario ferma la mano e la lingua, le accarezza la pelle che si calma.
E poi torna a muoversi, stavolta è dentro Mara e solo allora le toglie la fascia dagli occhi.
Lei vorrebbe chiedergli dove comincia lui e finisce lei.
Sta zitta.
Si guardano. Si riconoscono. Ricominciano.

Amarsi

Otello ha quasi sessant’anni, fa l’impiegato all’ufficio del Catasto. E’ vedovo da cinque anni e da quando sua moglie Algisa è morta, per un tumore all’utero, non è mai andato a comperarsi da vestire da solo. Prende l’autobus per andare in ufficio tutte le mattine alle 7.30, così ha tutto il tempo di bere un caffè con i colleghi prima di salire.
Alle 13 fa la pausa pranzo con un panino e una coca cola al bar a fianco del palazzo del Catasto. Alle 16.30 esce per tornare a casa, va a prendere l’autobus a due fermate di distanza dall’ufficio, così si impone di camminare.
Ogni giorno Otello passa davanti alla vetrina di un negozio di intimo, uno di quelli delle grandi catene che si trovano anche nei centri commerciali. Sta a pochi passi dalla fermata del bus. Non si ferma mai a guardare, perché a lui l’intimo non serve. Algisa, prima di morire, aveva imparato ad usare il computer, stava sempre a casa da sola, attaccata alla flebo e si annoiava, e così aveva scoperto internet e il commercio elettronico e un giorno, approfittando degli sconti di un negozio online, gli aveva comperato delle mutande e delle canotte grigie, bianche e blu. Solo che nel digitare l’ordine aveva sbagliato qualcosa perché erano arrivate a casa sessanta mutande e sessanta canotte.
Poi le sue condizioni si sono aggravate e nessuno ha pensato più a contestare l’invio di quel carico. E a cinque anni dalla sua morte, Otello aveva ancora l’armadio pieno di slip e magliette di cotone grigio, bianco e blu. A lui non serve molto.
Le camicie che gli aveva comperato la Algisa sono ancora perfette, i vestiti gli vanno benissimo tanto non è ingrassato di un etto. Compera solo le scarpe, due paia l’anno e gli va bene così. Ogni pomeriggio prima di rincasare va all’alimentari vicino a casa e prende o un etto di cotto o un etto di prosciutto crudo, un pochino di verdure cotte già pronte oppure quelle grigliate nella vaschetta dall’alluminio, poi due panini, la bottiglia di minerale. E sta a posto per la cena. Il vino lo prende al bar da Ettore. Un bicchiere di cabernet o due se la giornata è stata particolarmente pesante. Li beve al banco prima di salire in casa.
Sua moglie gli alcolici in casa non li aveva mai voluti, facevano tanto povertà, gli diceva, e allora lui si è abituato e anche adesso che sta solo da cinque anni continua a rispettare quell’imperativo del passato e il vino, che gli piace, lo beve solo al bar, tra un discorso e l’altro con l’amico Ettore.
Poi la sera quando sta sul divano a vedere la televisione, ogni tanto pensa che sarebbe stato bello uscire.

Annalisa a 50 anni si sente ancora una bella donna. Certo ha qualche capello bianco che nasconde, astuta, con la tinta castano miele ogni tre settimane; ha anche qualche chilo di troppo, specie sulla pancia, ma gli uomini di solito si fermano ad osservarle il decolletè ancora rigoglioso, strizzato dentro i reggiseni pieni di pizzi che le piacciono tanto. Che poi a lei non costano praticamente niente, visto che li vende. E’ la padrona di un negozio di intimo sulla strada che dal palazzo del Catasto porta al centro. Ogni giorno si sveglia e tiene il conto delle rughe sotto gli occhi, va a preparare la colazione alla figlia che dorme ancora e poi si beve il suo caffé sul terrazzino, guardando fuori. E si fuma la prima delle sue venti sigarette giornaliere. Ha cominciato a guardare fuori al mattino presto quando Enzo le ha detto che non si potevano più vedere, perché la moglie gli ha dato l’ultimatum.
O a casa o fuori di casa, da solo.
Da dieci anni Annalisa era l’amante di Enzo e lei si era abituata al fatto che non avrebbe mai dormito con lui, perché Enzo la sera dormiva con la moglie. Ma anche in quella situazione precaria
Annalisa era convinta di aver trovato una serenità. L’abitudine di un affetto feriale, possibile dal lunedì al venerdì, weekend e feste comandate escluse. Enzo con lei non aveva mai fatto lo stronzo, non le aveva mai promesso di sposarla. Ma lei un pochino aveva sperato, specie quando arrivava Natale e il 23 dicembre organizzavano sempre una cenetta in casa e lei apparecchiava tutto come se fosse il cenone della vigilia. E quando lui stappava lo spumante, lei per un attimo, ogni volta per dieci anni, ci sperava che lui le dicesse che non tornava a casa e dormiva da lei.
Invece una sera di sei mesi fa lui si è presentato alla porta, con la faccia preoccupata, e senza manco entrare le ha detto, lì, sul pianerottolo, che non si dovevano più vedere perché la moglie non voleva. E Annalisa si è abituata al mattino ad uscire in terrazzo a fumare e a guardare verso il fondo della strada. All’inizio lo faceva per piangere di nascosto, poi per vedere se lui arrivava. Poi non ha più guardato lontano. Adesso fatica anche a vedere chi passa davanti alla vetrina del suo negozio.

Otello e Annalisa si sono guardati negli occhi, attraverso il vetro della vetrina del negozio, una mattina qualunque, di quelle che non ricordi bene che odore c’era nell’aria.
Lui è passato davanti al negozio mentre andava alla fermata e si è fermato lì davanti per tirar fuori dalla borsa i fazzoletti. Lei stava sistemando uno dei manichini, era senza scarpe sopra la pedana e teneva la faccia verso il pavimento per sistemare la base.
Lui si è girato verso la vetrina, senza alcun motivo.
Lei, in quel momento, ha alzato gli occhi.
Si sono guardati.
Sono rimasti lì a fissarsi cinque minuti buoni, anche se non c’è la prova di un cronometro a testimoniarlo.
Lui ha visto Annalisa e ha pensato che occhi così belli ne aveva visti raramente, forse da ragazzino al mare con i suoi sulla spiaggia di Jesolo quando con gli amici giocava a costruire i castelli di sabbia e guardava le ragazzine tedesche, le prime turiste del litorale, con le trecce bionde e il pallone a spicchi gialli, rossi e verdi, sotto il braccio. E c’era una ragazzina che aveva quegli occhi lì. Come si chiamava? Chi si ricorda. Otello ha pensato, poi, che dopo Algisa non ha più toccato una donna.
Lei ha guardato la faccia di Otello e ha pensato che quel signore aveva dei capelli bianchi bellissimi, di un colore che le ricordava la neve, quella che erano anni che non vedeva più, perché
per stare con Enzo aveva anche smesso di andare a sciare. Aveva dimenticato la passione per la neve.

Adesso tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, di pomeriggio, tra le 16.30 e le 17, Otello e Annalisa si guardano e si sorridono attraverso la vetrina del negozio di intimo. Lei non guarda più lontano, la mattina in terrazzo, ma in compenso in negozio alle 16.30 dalla postazione della cassa tiene il viso puntato verso la vetrina per vedere se passa il bel signore con i capelli bianchi.
Lui ogni giorno si inventa una scusa per fermarsi là davanti a cercare lo sguardo di Annalisa in mezzo ai manichini e alle clienti indaffarate. L’unica scusa sarebbe entrare per comperare qualcosa, ma ha sessanta paia di mutande in armadio e non se la sente.
Lei potrebbe uscire a fumare una sigaretta ma ha deciso che deve smettere.
E allora stanno lì a guardarsi. E lui si sente in spiaggia e lei sta sdraiata in mezzo alla neve.

La veglia

E’ qua accanto a me che dorme e russa. Il sibilo che precede le sue apnee sembra il fischio della teiera quando l’acqua comincia a bollire. E io mi sveglio perché se il suo russare ritmico è una sorta di sottofondo al mio sonno, quando iniziano le apnee e io non sento più il suo respiro per 20, 30 secondi, ogni volta credo che muore e mi sveglio. Il fatto è che se muore, io voglio vedere. Esserne certa.

Assieme a Aldo o Mario (non importa) ci sto da dieci anni e anche se è un uomo noioso e insopportabile, tutto avvitato nelle sue fissazioni, senza un accenno di gioiosa voglia di novità, io mi sono abituata al fatto che c’è.
Ma se vuole andare, che vada.

Io venti anni fa mi sono innamorata di Ugo e con lui ho vissuto benissimo fino a dieci anni fa. Ugo si metteva sempre in gioco; trovava sempre un motivo per un sorriso al mattino, appena svegli, e alla sera prima di dormire. Adesso a questo uomo qui, che mi ritrovo nel letto, io sono solo abituata.
Me lo sono ritrovata in casa all’improvviso, non l’ho scelto io.

Certo, lui c’è. Se lo chiamo arriva, con i suoi silenzi rende la casa un pochino meno vuota. Di conseguenza se muore in una delle sue apnee notturne, un pochino mi dispiace. E’ la sensazione che fa il vedere una epigrafe con la foto del morto che è un tizio che hai visto un sacco di volte e ti coglie quell’umano dispiacere per chi ci lascia.
Non escludo che in caso di necessità, sua di Aldo o Mario, se si ritrova una notte a rantolare cercando l’aria, con gli occhi sbarrati per la paura, alla fine, una mano per farla finita in fretta, gliela do volentieri.
Non si lascia nessuno a rantolare o a morire da solo.

Ma non credo che si possano preventivare queste cose; capisci cosa devi fare solo se ti ci trovi. Insomma, è un’ipotesi come tante.
Io sto di notte a vegliarlo Aldo o Mario per vedere se muore trattenendo il fiato ( e lui lo fa ogni due, tre minuti, per 30, 40 secondi) o se la smette e russa e basta. E mi lascia dormire, senza pensieri.

Di sicuro se lui muore non piango tanto quanto ho lacrimato per la morte del mio amore, Ugo, l’uomo che amo e che amerò sempre. Si può amare una persona che non c’è più e non amare una persona che c’è.
Questo è certo. Questo lo so perché è una di quelle cose che si sanno, vivendo.

E’ successo una sera, dieci anni fa, e Ugo lo piango ancora, da sola in bagno, quando carico la lavatrice. L’altro non si accorge di nulla. E’ morto anche Ugo, senza accorgersene, ma io sì, ho visto perfettamente tutto. Eravamo in cucina e stavo sparecchiando, faceva caldo, era estate piena, mi pare luglio, che è un mese appiccicoso, con l’umidità dell’aria che entra in casa, e io stavo sparecchiando la tavola e con la gamba nuda, involontariamente, ho sfiorato il piede di Ugo.

A lui piaceva a tavola, quando eravamo da soli, togliere le ciabatte, accavallare la gamba e tenere il piede sospeso davanti al ventilatore. E quando si giocava, perché io e lui giocavamo sempre, era la lieve carezza del suo piede sulla mia coscia a dirmi che era il momento.
Era sempre stato così, fin dalla prima volta che ci eravamo conosciuti, alla cena aziendale e c’eravamo ritrovati, per caso, seduti in pizzeria uno davanti all’altra e a suon di parlare e raccontare, eravamo arrivati al punto che ci eravamo dimenticati di stare in mezzo ad altre trenta persone e sotto il tavolo, lui sfilò il mocassino e venne con il piede calzato di blu a cercarmi la caviglia.
Era diventato come un segnale tra noi due, quello.

Invece quella sera che io, lo ripeto, involontariamente, lo sfiorai sul piede con la gamba, lui non sentì niente.
Era tutto preso dal raccontarmi che si sentiva senza forze, senza voglia di fare. Come sospeso in una lunga apnea, diceva. Senza emozioni, senza stimoli, senza prospettive e speranze.
Io non ci ho fatto caso subito, che quando uno si sente il disagio dentro non puoi pensare che lo lasci da parte per mettersi a giocare con te. Ma dopo ho capito.

Da quella sera non ha più avuto voglia di giocare con me. Non ha più pensato a ridere e progettare con me.
Sono passati dieci anni e ho perso anche il conto delle volte, che intenzionalmente, che cavoli, ho provato a sfiorarlo sul piede, sul collo, sulla mano, a baciarlo e ad abbracciarlo stretto, per fargli sentire che mi mancava. Niente, Ugo è morto e non ha più occhi.

E questo qua che mi dorme accanto, e che trattiene il fiato ogni notte, ripetutamente come un gioco sadico del vado oppure no, è un estraneo. Lo chiamo Aldo o Mario, perché uno così mica si può chiamare come il mio Ugo.
Ma lui si ostina a dire che si chiama Ugo, invece, e allora io lo assecondo a voce alta, che a vivere con uno in casa e battagliare tutti i giorni perché millanta un nome che non è suo, non è vita. Ma quando lo penso, e capita poco, non lo chiamo proprio o uso un nome diverso, Aldo o Mario, appunto, va bene uguale.

E ho cominciato ad uscire da sola, a camminare la sera per il viale, un passo ogni sera più lontano da casa.
E camminando mi dico che io mica sono morta, che avrei diritto non dico ad uno straordinario di felicità ma almeno al minimo sindacale; sì, dovrei vivere con qualcuno che amo e non con un estraneo che non mi vede. E poi c’è questo fastidio, che monta, rancoroso, che io mica sono solo fatta di cose da fare e da sistemare, ho un corpo io, e un cervello, che hanno bisogno di carezze e baci e strofinamenti e calore.
Ho una pelle che la devi curare e pori da lasciar secernere e saliva da mescolare e giochi da fare. E sogni e risate.
Che sono femmina, anche se in menopausa, ho caldo più dentro che fuori e desideri che sono più di prima, più di quando Ugo c’era.
Lui mi manca.
Mentre questo, Aldo o Mario, non importa, dorme e ogni notte muore un secondo in più.
E io lo veglio, li conto i secondi. Metti che va.

Mazza e Pindolo

“Mazza e pindolo” lo puoi leggere sul libro di “Schegge di Liberazione”, che esce oggi in versione cartacea, oppure lo puoi scaricare in versione ebook, seguendo questo link.

E’ un racconto di fantasia ma il collettivo Biancotto a Venezia è esistito davvero.
E buona Liberazione a tutti 🙂

La scatola

L’aveva trovata nella piazza del paese, appoggiata ad una panchina, quella scatolina. Era di legno chiaro, con un coperchio dello stesso colore ma striato da colpi di pennello in varie tonalità. Rosso, giallo, blu.
Non più di cinque centimetri di lunghezza per tre di larghezza.
Stava appoggiata sopra il verde della vernice della panchina ed era impossibile non notarla. Enrico si stupì che nessuno, prima di lui, quella mattina, l’avesse vista e fosse stato preso dalla curiosità di prenderla e vedere cosa c’era dentro. Ad Enrico, che su quella panchina si era seduto mentre aspettava l’autobus per andare al lavoro, la curiosità era venuta.
Con la mano aveva sfiorato la piccola scatola, poi l’aveva stretta dentro al pugno della mano con forza perché nel frattempo era arrivato il bus e ci doveva salire. E l’aveva infilata nella tasca del giubbotto.
Lo aspettavano all’assemblea in fabbrica, che erano sei mesi che alla Baldoni, erano in cassa integrazione e tutti i giorni loro, gli operai dell’altoforno anche se quello era spento e aveva smesso di far così caldo che quando ci entravi ti sentivi sciogliere e svenire, al lavoro ci andavano lo stesso, chi per organizzare le manifestazioni e chiedere udienza al sindaco, chi, come Enrico, perché a casa non aveva niente da fare.
Non aveva una moglie e manco figli, Enrico, che lo aspettavano. Non aveva fidanzate da portare in giro la sera e neanche un cane.
C’era stato un tempo, sei mesi fa, in cui sì, il cane c’era e pure la fidanzata, poi quando era arrivato il delegato sindacale in fabbrica a comunicare che per un anno sarebbe scattata la cassa integrazione e che era meglio se nel frattempo si cercavano tutti altro da fare, in nero, sennò era un casino con il fisco, lui disse alla Carolina, la sua morosa, che le cose erano cambiate, che non si poteva pensare più a niente, da fare, assieme, e le chiese di portarsi via di casa lo spazzolino, le creme, i vestiti e pure il cane, Pallina, che non era neanche suo visto che gli era entrato in casa assieme a Carolina. E di chiudere bene la porta.
Enrico cambiò anche la serratura, soldi ben spesi, disse, che se la vita devia così brusca, e ti lascia in mutande, come fai a pensare a far contenta una morosa e accarezzare un cane, se non sai come sarà non dico il futuro ma la tua faccia tra sei ore, alla fine di un turno che ti imponi da solo, per avere qualcosa da fare?
In assemblea, dentro la sala mensa, che non odorava più di pasticcio con le polpette, stava parlando Ettore, il suo compagno del turno C. Diceva che non bisognava mollare e perdere la speranza, che il sindaco aveva chiesto un incontro al curatore fallimentare e che bisognava continuare la protesta. E tornare ad organizzare un corteo, per far vedere che quelli della Baldoni non mollavano.
Era uno studiato, Ettore, era andato al liceo scientifico e non alla scuola professionale e Enrico stava bene con lui, gli pareva che aveva sempre qualcosa da dirgli. Ma andava bene anche se stava in silenzio, Ettore, che aveva quella faccia sicura, di chi sa come andrà a finire.
Quando Ettore finì di parlare e si sedette accanto a lui, Enrico si ricordò della scatola, la estrasse dalla tasca del giaccone e gliela passò sotto la tavola, appoggiandola al suo ginocchio.
“Cosa è, secondo te”, gli chiese.
“Cosa c’è dentro?”, gli rispose Ettore. Enrico alzò le spalle.
Ettore allora sollevò il coperchio della scatolina, tenendola nel palmo della mano. Dentro c’erano due bamboline di pezza. Piccolissime e pure bruttine, a guardarle bene. Il tronco era di carta arrotolata, di colore rosa, con gli occhi e la bocca appena accennati da un puntino nero; le gonne erano pezzetti di stoffa, uno rosso, l’altro bianco, tenuti legati da una serie di giri di filo rosso e nero. Ai lati due pezzetti minuscoli di legno formavano le braccia.
“Bamboline. Ho sentito parlare di una usanza cilena. Quella di mettere delle bamboline sotto il cuscino così loro prendono i sogni belli e li mettono via e poi un giorno il sogno succede”.
Ettore parlava con la sua solita faccia sicura. “Lì da quelle parti i sogni li considerano cose serie. Dicono che le bamboline li curano e poi anche li passano, di persona in persona”.
Aveva finito. Enrico riprese la scatolina e la mise nel giubbotto della giacca.
Poi si rivolse all’amico: “Io è da quando non faccio più l’amore che non sogno, Ettore”.
“Lo so”, gli rispose l’altro alzandosi dalla sedia per andare al bagno.
“Capita pure a me”.

Passarono i giorni, la scatolina con la bambole era finita nel cassetto del comodino della casa di Enrico. Dimenticata. Del resto c’era altro a cui Enrico doveva pensare: il mutuo della casa da pagare, le bollette riempivano la buca delle lettere. I soldi stavano finendo.
Enrico si alzava la mattina con un pessimo umore, guardava la cassetta all’ingresso e tirava diritto con una rabbia dentro, che ad ogni passo, assumeva la forma di un bolo che gli bloccava il respiro e gli toglieva pure l’appetito. Trascorreva da inutile delle giornate inutili in un posto così inutile come solo una fabbrica ferma sa essere, quando non c’è il cicaleccio del cambio turno, l’allegria della pausa pranzo. Sentiva la mancanza persino dell’assordante calore dell’altoforno. Sguardo perso nel vuoto, si chiedeva dove erano finiti quei colpi assordanti. Era pur sempre ritmo, qualcosa che gli ricordava che nel petto il suo cuore batteva ancora. Viveva in un mondo spento. A 45 anni avrebbe potuto saltellare invece di trascinarsi, incazzato, quel magma incastrato dentro, tra trachea e stomaco.
Silenzioso pure lui.

Ettore lo accompagnò a casa a fine giornata, era preoccupato per l’amico sempre più apatico. Sapeva bene cosa era. La paura di non farcela.
La sentiva anche lui, ma Ettore a differenza di Enrico la scacciava via, appena ne avvertiva l’odore in giro per la testa. Si metteva a sistemare casa, telefonava alle amiche promettendo di passare presto, faceva ordine e buttava le cose vecchie. Pensò che con Enrico poteva funzionare. Buttare le cose vecchie, aprire i cassetti e liberare spazio. Un esercizio manuale che occupava il tempo e offuscava quel pensiero martellante.
La paura è come stare in mare aperto senza un tronco a cui appigliarsi, senza uno scoglio su cui poggiare i piedi, senza manco un filo su cui dondolare. Solo galleggiamento, le gambe che sbattono cercando un ritmo che la stanchezza fa arrancare.
Ettore costrinse Enrico all’esercizio, cominciando dai cassetti del comodino vicino al letto. E togliendo fazzoletti e scatole di preservativi vuoti e forcine della Carolina, chissà dove era finita quella, e biscotti del cane oramai sbriciolati, saltò fuori la scatolina delle bamboline.
Fu Ettore a prenderla in mano, non visto da Enrico, tutto preso dal furore dell’ordine e intento a svuotare e buttare, senza guardare. Tolse il coperchio, prese in mano la bambolina rossa e la infilò sotto il cuscino. In quei momenti tutto poteva tornare utile, pensò.

Enrico andò a dormire, stremato da una serata di pulizie dei cassetti. Aveva lasciato nell’ingresso di casa i sacchi neri con le cose da buttare. Cadde dentro un sonno pesante, come un sacco in un pozzo ma senza tonfo e il bolo accoccolato dentro la trachea dormiva pure lui.
Dopo due minuti, o due ore, mica lo sapeva, aprì gli occhi. C’era una luce accesa, nell’ingresso. Si stupì di non aver spento la lampada alogena, lui che era attentissimo a queste cose. Si alzò a fatica dal letto per andare a spegnere la luce e fu di colpo buio in casa. Pensò di aver immaginato e tornò ad appoggiare la testa sul cuscino e sentì allora una mano accarezzargli la testa. Aveva paura ma sentiva quel calore e il bolo si alzò dalla trachea alla bocca e gli venne la voglia di vomitare. Corse in bagno a piedi nudi, accese la luce dello specchio. E li vide.

Lui abbracciava lei, cingendole i fianchi e fissandola negli occhi. Lei teneva le mani sulle spalle di lui e ricambiava lo sguardo, sorridendo. Avevano entrambi i capelli bianchi, le rughe sul viso, ma le mani dalla pelle olivastra sembravano quelle di due ragazzini. Lui indossava una camicia bianca e pantaloni neri, lei un vestito nero e uno scialle, grandissimo, che tratteneva con i gomiti. Rosso e lungo fino ai piedi di lei. C’era silenzio e Enrico che li fissava attraverso lo specchio prima pensava ad una allucinazione, poi voleva chiedere chi fossero, ma non gli usciva voce, che il bolo si era bloccato in bocca. I due lo guardarono, ricambiando il suo sguardo, e cominciarono a ballare. Due passi a sinistra, uno in avanti, due a destra. Era come se fosse un solo movimento, il loro. Nel silenzio del bagno, ad Enrico sembrò di sentirla nella testa la musica che stavano ballando, era un valzer sommesso. E poi gli parve anche di sentirli parlare, ma non c’erano bocche che si muovevano, c’erano solo quei due vecchi ballerini dalle mani giovani. Che gli parlavano con il pensiero. Enrico si accoccolò sulla tazza del water per ascoltarli meglio, quei due amanti che avevano passato una vita a cercarsi nei sogni, che non avevano mai avuto il coraggio di dirselo che si volevano, ed erano finiti a morire a migliaia di chilometri di distanza uno dall’altra da soli, poveri e senza figli. E adesso quei sogni che avevano lasciato tra la stoffa delle bamboline, li avevano fatti ritrovare e ogni notte ballavano assieme, finalmente. E se Ettore li vedeva era grazie alla bambolina che lo aveva accarezzato nel sonno. L’anziano gli disse che la paura era proprio quel mare senza appigli. La sua donna gli disse che la paura è quel magma in bocca che fatichi anche a respirare. E loro, assieme, gli dissero che se c’era silenzio l’unico modo per non sentirsi soli era cercarsi un ritmo dentro, sul tempo del cuore. Che quello è un rumore che non è mai uguale ad un altro.
E in coro, mentre ondeggiavano sulle note di valzer, i due gli dicevano che non sarebbe passata la paura, no, ma almeno non sarebbe diventata terrore.
I sogni non si abbandonano mai, li si lascia alle bamboline che li faranno passare da una vita all’altra. Per scacciarlo, il terrore.

Fu un discorso silenzioso, con quel valzer di sottofondo. Enrico si risvegliò a mezzogiorno che ancora lo sentiva risuonare nelle orecchie. Aveva dormito sul tappetino del bagno, la riga dell’orlo del tappeto si era come stampata sulla guancia sinistra.

Andò a preparare il caffè, poi corse in camera da letto e aprì il cassetto. La scatolina di legno era lì. Alzò il cuscino, prese la bambolina dal vestito rosso e ricambiò la carezza. Poi la infilò nella scatolina, accanto all’altra. Oramai sapeva cosa doveva fare. Il prossimo sogno l’avrebbe regalato a loro. Per battere il terrore.

L’eliminatore

“E’ la terza volta che provo il suo rimedio, signor Guadalupi. E non funziona”.

Ersilia Santini teneva tra le mani la boccetta vuota. Si rivolse a Guadalupi, dopo un breve silenzio, obbligato, visto che l’uomo era al telefono con un cliente.

“Non funziona? Questo lo dice lei, signora Santini. Vuole che le mostro di nuovo tutte le lettere dei clienti soddisfatti che mi hanno scritto per ringraziarmi? Chiamo la segretaria e, se vuole, le può rileggere tutte”.

Ersilia Santini tacque. Si limitò a spingere la boccetta sul tavolo verso la faccia del signor Guadalupi.

“Ci sarà qualche errore, nella preparazione. Le ripeto che non funziona. Non è cambiato nulla neanche questa settimana, io continuo a stare male e non passa. Eppure prendo un cucchiaio al giorno, come mi ha detto lei”.
Guadalupi la fissò negli occhi, senza neanche guardare la boccetta che la donna gli aveva parato davanti.

“Signora Ersilia, a volte ci sono casi più difficili di altri. Mi ricordo quello del professor Calvari che era così innamorato della preside del liceo dove lavorava che non dormiva più di notte. Abbiamo dovuto lavorare sul dosaggio. Però lei mi deve aiutare”.

Ersilia Santini annuì.
“Come, signor Guadalupi?”.

“Ersilia lei ci deve credere che è possibile”.

“Ma io ci provo! E credo a lei”

“Evidentemente non a sufficienza”, replicò l’uomo alzandosi dalla seggiola e camminando su e gìù per la sala da pranzo, trasformata in studio.

Gianni Guadalupi, pensionato delle Poste, settant’anni ben portati, invece di portare al parco i nipotini, come tutti i nonni della sua età, si era inventato un lavoro a domicilio. Quello dell’eliminatore.
Ammazzava l’amore su mandato dei suoi clienti, stanchi di provare sentimenti non ricambiati, rimbalzati o avvizziti dal dolore e dalle peripezie a cui erano costretti.
Se lo era fatto stampare anche sul biglietto da visita quel titolo. Aveva la sua storia come credenziale e tutti in paese gli avevano subito creduto, perché tutti sapevano chi era.
Di giorno lavorava all’ufficio postale. Di sera per venti anni di seguito si era seduto al bancone della trattoria della Florinda e le aveva parlato d’amore. E lei mai una volta aveva fatto un cenno di comprensione e assenso, con il capo artificialmente imbiondito e poi, con il passar degli anni, naturalmente ingrigito. La Florinda non sentì mai nessuna delle sue parole semplicemente perché lo vedeva come un cliente qualsiasi, con il bicchiere di vino sempre in mano.
Così tanti anni ci vollero al Guadalupi per capire che non avrebbe mai parlato davvero alla Florinda e una sera, convinto di essere diventato trasparente al mondo, tornando a casa col passo desolato, si fermò davanti ad un campo di zingari e una donna anziana, con le rughe che le avevano scavato il viso, fino a nasconderle pure gli occhi, gli venne incontro e gli chiese se aveva bisogno di una mano, che si vedeva che era affranto.
Lui, ubriaco di vino e tristezza, le urlò contro che gli serviva subito un medico, meglio, un assassino per uccidere l’amore inutile che portava dentro il petto. La vecchia donna lo trascinò fino alla sua tenda, lo fece entrare e sdraiare sul letto e poi gli diede da bere da una boccetta scura e lo invitò a rilassarsi e nel farlo gli cantò una canzone dalle parole incomprensibili.
Guadalupi si svegliò la mattina dopo, completamente sudato. Non ricordava nulla dei sogni di quella notte, ma aveva i polsi segnati, come se fosse stato legato con delle corde. Uscì dalla tenda e non trovò nessuno, il campo zingaro era partito in fretta e furia e i fuochi erano stati spenti con l’acqua. In tasca del giaccone ritrovò la boccetta scura, piena di liquido nerastro. Tornò a casa e dormì il resto della giornata, senza pensieri. Poi la mattina dopo andò in ufficio e gli amici lo videro strano e sereno, senza più lo sguardo perso davanti al vetro attraverso il quale parlava ai clienti. E la sera nessuno lo vide entrare alla trattoria della Florinda. Lui era andato diritto a casa, a guardare la televisione. E a rigirare tra le mani la boccetta scura. E quando gli amici lo andarono a cercare dopo giorni, stupiti di non vederlo più cantar le lodi della Florinda, oramai sciupata, lui mostrò loro la boccetta e spiegò che lì dentro stava il rimedio che gli aveva trasformato il cuore in una pietra. Liberandolo.
Con un amico chimico analizzò il contenuto: stramonio in parti uguali con aceto e limone. E allora pensò di trasformare la fortuna in un lavoro e cominciò a produrne di boccette scure e a prescriverle ai malati d’amore del paese, contando sul fatto che tutti sapevano che lui era guarito. E ora viveva benissimo, senza più lacrime.

Ora davanti aveva il suo caso più difficile, quello di Ersilia Santini, vedova inconsolabile che ogni notte tra le lenzuola di flanella del suo letto matrimoniale, faceva l’amore con Nando. Solo che lui, il marito, stava da 15 anni sotto un cumulo di terra, al cimitero di San Pancrazio, e lei, ancora bella e con gli occhi azzurri color cielo, provava tutti gli oggetti che aveva in casa e ne comperava di nascosto di nuovi, atti a riprodurre la sensazione che solo lui aveva saputo darle, e urlava nei suoi amplessi solitari il nome di lui e nel quartiere la gente non dormiva più a sentir le urla e poi i pianti di quella vedova, inconsolabile nel corpo e nel cervello.
E i cani nelle case dovevano star di notte tutti con la museruola, per evitare che si mettessero a rispondere coi loro ululati.
Ersilia aveva sentito il nome di Guadalupi dal maresciallo Salvi che era andato a casa a recapitarle il terzo esposto in due mesi per schiamazzi e rumori molesti. I vicini si erano stancati e avevano deciso di zittirla con le querele e il maresciallo, impietosito dalle scuse vergognose della donna, l’aveva invitata a cercar aiuto dall’eliminatore.
Solo lui poteva chetare le sue urla e le notti dei vicini.

Guadalupi la storia la conosceva e Ersilia gli faceva pena. Lui sapeva benissimo quanto poteva esser inconsolabile un amore che non era morto da solo e voleva, nonostante tutto, alimentarsi.
Gli stava simpatica quella donna, vogliosa di amore in ogni poro della pelle eppure così compita, così rannicchiata nelle sue spalle da sembrare una delle tante cinquantenni spente del paese.
Sì offrì con piacere di aiutarla e per tre volte preparò il medicamento, ma con lei non funzionava. Guadalupi non capiva il perché. Aveva funzionato con tutti, chi subito e chi con due trattamenti.
Al terzo tentativo fallito, nessuno era arrivato.

“Ha smesso almeno di piangere?”, chiese alla donna.

“Sì, il pianto non arriva più. Pare che ho finito le lacrime”.

“E questo è un buon segno”, disse Guadalupi.

“Ma allora perché penso sempre a Nando e lo cerco e lo voglio?”, disse la Ersilia.

“C’è qualcosa della vostra storia che io non so, signora? Sicura di avermi detto tutto del vostro matrimonio?”

“Sì, signor Guadalupi. Le ho detto tutto”.

“Non capisco. Guardi…le faccio avere una quarta preparazione e stavolta andiamo a due cucchiai al giorno. In caso di effetti collaterali, in primis giramenti di testa e sogni troppo nitidi, sospenda subito. E mi raccomando controlli il battito cardiaco ogni giorno, perché deve scendere. Metta una mano qui sul mio petto. Sente? E’ pietra! Così deve diventare”.

La signora Ersilia toccò con un dito il petto dell’eliminatore e sentì che la pelle era spessa come il marmo. Il cuore di Guadalupi era intrappolato dentro la gabbia durissima, non si sentiva nemmeno un battito.

“E’ vero”, disse lei abbassando gli occhi. “Ma a pensarci bene, c’è una cosa che non le ho detto. Pensavo fosse inutile, ma a questo punto non lo so più”.

“E allora mi dica, signora!”. Guadalupi era indispettito.

“La trasfusione di sangue, signore. Due anni dopo il matrimonio, in un incidente in auto, io fui ricoverata in ospedale. Ero molto grave, avevo perso molto sangue e Nando mi diede il suo sangue con delle trasfusioni. Andò sei volte in ospedale a donare il sangue per me, che i nostri gruppi erano compatibili. E me lo diceva sempre quando andavamo a passeggiare assieme: Nel tuo sangue, c’è il mio”.

Guadalupi sbiancò. Non gli pareva vero ma doveva esser quello il motivo. Era colpa del sangue se non funzionava il medicamento. Il passaggio da un amante all’altra aveva creato una barriera inaccessibile a qualsiasi pozione, perché l’amore di Nando adesso si riproduceva nel corpo di Ersilia, al ritmo quotidiano dei suoi globuli rossi.
La mandò via, con la quarta boccetta, e la raccomandazione di non superare mai i due cucchiai al giorno e di farsi legare al letto, per resistere ai sogni della notte. Guadalupi sapeva che avrebbe fallito ancora. Non poteva tollerarlo. Per preservare la sua onorata attività, e la credibilità di eliminatore, doveva fare solo una cosa.

Quattro giorni dopo il maresciallo Salvi ordinò ai suoi uomini di sfondare la porta di casa della signora Ersilia, che dalla sera dopo la visita da Guadalupi non aveva più aperto la porta di casa ai parenti e non urlava più. Salvi, preoccupato, aveva suonato più volte e poi, spazientito, aveva deciso che bisognava entrare in quella casa. Trovò la signora Ersilia stesa sul letto, le mani legate al parapetto di ottone. Sul comodino la boccetta scura, intatta. La pelle di lei era bianchissima. Il lenzuolo e la camicia da notte erano inzuppati di sangue essiccato. Secondo il medico legale, arrivato dal capoluogo, la donna era morta dissanguata.
Salvi, con la faccia stanca di chi con la morte proprio non riesce a giocarci a tressette, dopo sei ore passate tra puzza di sangue secco e cloroformio, andò a suonare alla porta dello studio di Guadalupi. Il maresciallo sperava di trovare aiuto per capire chi aveva fatto un simile scempio.
La segretaria gli disse che il signore non voleva ricevere visite ma il maresciallo insistesse al punto che andò da solo ad aprire la porta dello studio, senza attendere che lo annunciasse.
Trovò Guadalupi, con la camicia aperta, intento a tirare martellate contro uno scalpello che teneva puntato al centro dello sterno. Tirava colpi e bestemmiava Dio e tutti i santi perché non vedeva sangue.
O almeno così Salvi scrisse poi nel rapporto di aver sentito.
Guadalupi si fece portar via senza fare alcuna resistenza. E non disse mai più una parola.

La Cesira

“Gentile ragionier Montini,
la ringrazio per averci sottoposto la sua ultima invenzione ma devo comunicarle che la nostra azienda non la ritiene in linea col proprio core business. La ringrazio per l’attenzione che ci ha riservato.
Cordiali saluti”.

Ancora un diniego. Attilio Montini rilesse la mail di risposta dell’azienda milanese e poi premette senza indugio sul tasco cancella. Novanta mail a diverse aziende italiane per chiedere un appuntamento per presentare Cesira; niente, manco un vediamo; gli avevano risposto tutte no, non interessa.

La Cesira lo fissava dal fondo dello studio, lui lo sapeva che lei lo stava guardando da sotto il telo di cotone verde che la ricopriva. “E’ andata male anche stavolta”, le disse guardandola, ordinata e coperta, dietro al divano.
“Non interessi proprio a nessuno”.

Eppure il ragionier Montini aveva allegato assieme alla scheda tecnica della sua invenzione pure le testimonianze di quanti l’avevano provata. Novanta invii, novanta no. Eppure cinquanta persone si erano messe a disposizione in tre anni di prove e di aggiustamenti, di ritocchi e verniciature. E tutti, superata la prova, avevano detto: “Sì, è successo qualcosa, mi sento ricaricato”. E se ne erano andati via col sorriso dopo aver firmato la dichiarazione che la Cesira, eccome, se funzionava.
E c’era gente che arrivava da tutto il quartiere, con il passaparola nei bar, e chiedeva solo di vederla da lontano e si diceva voglioso di provare. Per carità c’era anche chi, tolto il telone verde, rispondeva: “Tutto qui?”. Erano quelli che andavano via delusi, subito.
Montini versò nel bicchiere che aveva davanti un altro goccio di whisky, comperato in offerta al supermercato. Pensava a loro, agli scettici, che la pensavano come tutti gli esaminatori o segretari particolari o amministratori delegati che ricevevano le sue mail di proposta di incontro e dopo aver letto la scheda della sua invenzione se ne uscivano con un “Embè, chi la vuole sta cosa?”.
Era l’anno delle televendite che facevano far soldi vendendo i macchinari per potenziare il cinismo, la cattiveria e l’individualismo.
Macchine che collegate al televisore facevano tutto loro. Bastava restare a guardare. Con un’ora di seduta al giorno nessuno aveva più paura di uscir di casa da solo e affrontare gli altri. Garanzia di tre anni, inclusa.
Si diventava bravissimi a fregarsene di tutto e tutti e se c’era la depressione, a far capolino nel weekend, si ovviava con l’ultimo ritrovato della ricerca. La Cocamela: melatonina in parti uguali di cocaina, che da cinque anni era stata dichiarata sostanza lecita. La vendevano direttamente i farmacisti. Solo che il prezzo lo facevano sempre loro.

Il mercato comanda, pensò Montini.
Ma al centro sociale del paese la Cesira era sulla bocca di tutti, Tutti ne parlavano benissimo e c’era chi, come il colonnello in pensione Carlo Rambaudi, quando sentiva quel nome, c’aveva un fremito che le assistenti dovevano star attente che il pacemaker non gli impazzisse di colpo, tanto era agitato. E si agitava pure la signora Canciani, che tutti lodavano per i suoi capelli bianchi sempre in piega. Eppure quando lei pensava alla Cesira, mentre con le amiche giocava a scala quaranta al tavolo 7 del centro sociale, si scompigliava tutta la capigliatura e pareva che era stata a correre nei campi e la pelle bianca, con le rughe dei suoi 70 anni pieni di dignitosa semplicità, diventava rossa come se avesse corso. Tanto.
Si agitava Gino il macellaio, che dopo l’incontro con la Cesira, aveva trovato il coraggio di chiedere alla signora Carli di ballare con lui.
Si agitavano tutti al centro sociale, tutti quei 50 che la Cesira l’avevano toccata e si erano detti: “Cosa ci sarà mai di male?”.
E poi tutti l’avevano scritto che dopo si erano sentiti bene, che avevano la corrente addosso, la voglia di fare, la nostalgia diventava sorriso e c’era solo una cosa, obbligatoria: provare, riprovare e provare ancora. L’avevano scritto tutti che la macchina del ragionier Montini funzionava.
Ma evidentemente a nessuna azienda interessava la commercializzazione su larga scala di una ricarica di cuori stanchi.

Montini scrisse qualcosa al computer, finì tutto di un fiato il bicchiere di whisky; ne aveva bevuto di meglio decisamente nella sua vita ma poco importava adesso.
Si alzò dalla seggiola e si spostò fino al divano. Si sedette con le gambe sulla seduta, la faccia verso la Cesira coperta. Con un solo gesto, tolse il telone verde.
Era del 1952 , nera. Ma sembrava appena uscita dalla fabbrica tanto era lucida, senza tracce di ruggine e con i freni a bacchetta ancora perfetti. Era montata su un carrellino che permetteva di far girare le ruote senza che il copertone toccasse terra. Erano libere, le ruote.
Una bici d’epoca trasformata in cyclette. Sotto la sella c’era un tubo di gomma collegato ad un cappellino da ciclista, di quelli con il frontino, senza scritte, tutto giallo.
Montini prese il berretto tra le mani e lo calcò sulla testa, attento a sistemare bene il tubo di gomma affinché scendesse lungo la schiena, senza che gli fosse di intralcio. Salì sulla bici, con un movimento sicuro. Appoggiò i piedi sui pedali che cominciarono a girare a vuoto, complice il sostegno del carrellino e pedalò al ritmo dei ricordi che si facevano strada dal cappellino al sellino.
Alla settima pedalata si sentì pronto, con un sorriso beffardo strinse forte con le mani le maniglie, alzò le natiche verso l’alto staccandosi dal sellino e sentì le gambe forti come mai. Abbassò la testa fino a toccare il manubrio e si lanciò in picchiata e nella pedalata, furibonda, si sentiva una forza dentro capace di far ballare il valzer a qualsiasi donna del quartiere. Ma lui aveva una sola strada, quella tra le gambe della Gina, la barista del centro sociale. La Cesira dava il ritmo giusto, il tubo faceva il suo lavoro.

Montini voleva solo lei, Gina. Se lo era detto tante volte e tante volte aveva lasciato perdere, che a 60 anni la vita è un passo lento su un marciapiede e non una corsa in discesa su una bici del 1952.
Ma aveva ragione suo padre, che alla Cesira ci aveva creduto prima di lui, prima che il mondo dimenticasse che l’amore è energia, che sopravvivere non è vivere, che il coraggio non si vende su un canale tv, che gli occhi bassi finisci con l’indossarli sempre.
Cinquanta volontari ci erano saliti e lui, Montini, aveva fatto il guardingo che la scienza prevede che mai ti lasci andare e tutto controlli e tutto valuti e invece quella volta, stanco di novanta no, e ubriaco di whisky sottomarca, pensò alle parole di suo padre, si mise a pedalare come un ossesso e ogni pedalata il cuore si gonfiava e il cervello chiedeva solo che alla fine della discesa la Gina le aprisse quelle gambe, così lui con la Cesira ci sarebbero finiti dentro finché c’era fiato.
E così fece, gonfiando cervello e calzoni, finché non si addormentò con la faccia sul manubrio e il sedere sul sellino, il cappellino sudato in testa e il tubo sbrindellato nella foga.

La mattina dopo a mezzogiorno si svegliò con il respiro affannoso. Passò davanti al computer rimasto acceso, toccò lo schermo che si illuminò, rilesse quel che aveva scritto la sera prima. Prese a spingere il carrellino coperto dal telone verde fino al garage attiguo alla cucina. Attaccò il carrello alla sua Punto. Guidò in silenzio.
Il caffè lo prese al centro sociale, davanti al sorriso della Gina. Ballarono finché non fece buio. Continuarono per altri 30 anni.

Ottanta lettere

Le aveva scritto 80 lettere d’amore, ognuna per ciascun giorno che seguì l’unica notte che lei comparve alla porta di casa sua e chiese di entrare.
Andò diritta verso la camera da letto e si stese sul lenzuolo, vestita, e gli disse che sentiva un dolore, strano, che non sapeva spiegare.
E allora lui si stese accanto a lei ed era così agitato per la sua presenza, lì vicino, che si mise a chiederle, con insistenza, dove era che sentiva male. E lei gli prese la mano e la appoggio alla pancia e gli spiegò che era proprio quello il punto in cui sentiva quel vuoto che voleva portar via tutto. Lui, agitato, pensò di fare l’unica cosa possibile. Tenne la mano bella larga a fermar quel vento che voleva venir fuori dalla pancia di lei. E ci rimase così fino al mattino, anche se la mano gli faceva male, la sentiva pesante e la circolazione rallentava. Anche se sentiva il suo respiro silenzioso e avrebbe preferito con quella mano accarezzarle i capelli biondi, per ore.

All’alba lei riaprì gli occhi e lo ringraziò con un bacio. Poi gli disse che il vuoto era scomparso, e con lui il vortice cattivo. Era fortunata di poter contare su qualcuno come lui, che la ascoltava in silenzio e le metteva la mano per fermare il dolore, quando serviva. Lui le disse che, se lei voleva, lo avrebbe fatto ancora.
Ma lei si alzò dal letto, andò in cucina a preparare il caffè e poi a lavarsi il viso nel bagno di casa mentre lui era ancora a letto a sfiorarsi le labbra calde per quel bacio inatteso e pure così sperato. Quando la moka brontolò sul fuoco, annunciando che il caffè era pronto, lei se ne era già andata senza un saluto, senza una parola.
Lui sentì il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva mentre si alzava dal letto per andare a spegnere il fuoco. Era rimasto da solo, con la mano indolenzita e un mal di stomaco che montava, dentro, come se avesse mangiato della spugna espansa. Lasciò il caffè dentro la moka a freddare e cominciò a scrivere su un tovagliolo di carta.
Le scrisse che quel bacio gli aveva aperto un buco nella pancia e che non sapeva adesso come riempirlo, quel vuoto, senza la sua mano appoggiata al suo addome. Le scrisse che quel bacio, inatteso eppure così sperato, gli aveva messo dentro una fame che nessuna pietanza poteva placare. Poi prese il tovagliolo di carta e lo infilò dentro la fotocopiatrice, per copiarlo sul cartoncino giallo che usava per scrivere ai clienti. Infilò il foglio in una busta e uscì sul pianerottolo di casa. L’appartamento di lei era giusto davanti al suo. Si erano incontrati per giorni e giorni solo al mattino, per uscire e andare al lavoro. E si erano detti per giorni solo Buongiorno, come va? Visto che pioggia che c’è?
Erano andati avanti così fino a quella sera, quando lei scelse di bussare alla sua porta e entrare. Da allora tutte le mattine, al risveglio, dopo averla sognata, lui le scriveva una lettera e la infilava sotto lo zerbino davanti alla sua porta. Poi rientrava e si preparava il caffè. Caldo, solo così aveva ragione d’essere.
Lui aveva costantemente quella fame addosso che nessun cibo riusciva a placare e solo scriverle lettere d’amore, in cui le raccontava le ore notturne passate a sognarla, i giochi, i baci e la sua vita prima di sfiorarla, quella notte, sembravano chetarlo un pochino.
Passarono ottanta giorni, ottanta lettere sotto lo zerbino, senza che lei mai una volta tornasse a bussare alla sua porta. O gli dicesse qualcosa, oltre al buongiorno mattutino, quando si incrociavano per le scale.
Era come se non fosse accaduto nulla, come se quella notte non ci fosse stata e come se non ci fossero state quelle lettere.
Arrabbiato, pensò che l’indifferenza era figlia solo di un impeto di fantasia, che l’amore era solo inventato.
Allora, in preda ai dolori per la fame e con lo spasmo dello stomaco che sembrava urlare come la bora, lui prese tutti gli ottanta tovaglioli di carta che aveva raccolto dentro una scatola da scarpe. Infilò il berretto in testa, indossò il giubbotto e uscì. E andò in quel ramo del canale vicino a casa, dove da piccolo suo padre non lo lasciava mai andare perché la gente del paese diceva che lì, sul fondo del canale, c’erano alghe così lunghe e così fitte, che arrivavano a misurare decine di metri e se ci cadevi dentro era impossibile uscirne vivo. Solo le anguille potevano sopravvivere.
E visto che era tutta una fantasia, lì avrebbe fatto morire la sua.
Prese la scatola da scarpe, tolse il coperchio e lanciò dentro l’acqua gli ottanta tovaglioli di carta e li guardò galleggiare per un pochino e poi, gonfi di acqua li vide scendere giù verso il fondo scuro. La rabbia lasciò il posto alla tristezza.
Lui se ne tornò a casa e se ne andò a letto, sentiva dolori ovunque e dormì fino a sera, nascondendo la testa sotto le coperte, perché quella casa gli sembrava così fredda, senza più parole d’amore.
Fuori fischiava la bora, fredda e vendicativa.
Il giorno dopo un pescatore che era andato a controllare la sua barca, per trainarla sulla riva del canale, lanciò l’allarme. In mezzo al canale era spuntato un albero, enorme e brutto. Le alghe si erano intrecciate una all’altra e le vesciche, dopo aver cercato invano uno spiraglio di luce, sotto la coltre di tovaglioli di carta sciolti dall’acqua, appena sotto la superficie, avevano puntato diritte al cielo per farsi strada per più di cinque metri, portandosi dietro le sorelle più piccole e verdi e quelle più vecchie e marroni e le parole dai tovaglioli avevano finito con il passare su ogni alga, come tatuaggi scuri.
Ora l’albero così strano e brutto a vedersi, si stagliava nel mezzo del canale e bloccava il passaggio a tutte le barche e c’era la processione di gente curiosa che voleva vedere. C’era chi passava tutto il pomeriggio a decifrare le parole, nere, che si mescolavano seguendo gli intrecci delle alghe marroni e verdi. E c’era chi diceva che se le leggende erano tali era perché c’è sempre un fondo di verità e anche se lì le anguille non erano mai arrivate, i Sargassi esistevano, pure in città.
Anche lui andò a vedere e riconobbe ogni sua parola, marchiata sulle alghe, e pensò che erano potenti come le anguille.
Rientrato a casa, gettò uno sguardo allo zerbino davanti alla porta di casa della vicina e notò il rigonfiamento. Sollevò il tappeto e ritrovò tutte le sue lettere. Ottanta, mai aperte, in mezzo alla polvere. Le raccolse da terra e le portò in casa e poi piano piano aprì ogni busta.
Erano tutte vuote.