Se mi dicono che sono una puttana, un attimo me la prendo ma dura qualche minuto, il fastidio, e poi non ci penso più.
No, dai, mi manda in bestia quando intuisco che pensano quello ma che ci posso fare?
Le lettere che ho spedito ai parlamentari del centrosinistra, quelli che io voto da sempre, inviate con ricevuta di ritorno, per esser sicura che siano arrivate, nel tentativo di spiegare che servirebbe una legge per far in modo che il mio lavoro non venga sporcato dall’appellativo di prostituta, le ho tutte fotocopiate e archiviate dentro un quaderno arancione.
Ma ogni risposta alle mie missive mi ha fatto intuire che loro, gli onorevoli, pensano quello. Che sono una prostituta, anche se non lavoro sulla strada.
Tanti mi hanno risposto “Le faremo sapere”.
Uno mi ha anche telefonato, sornione e ridanciano.
“La aiuto io, posso venire in città il mese prossimo, che ne dice se ne parliamo nel mio hotel?”.
Insomma, ho capito subito che pensava che gli facevo il servizio pure a lui. Magari gratis.
Ho messo giù senza neanche ringraziare.
Andare a spiegare che lavoro fai e che servirebbe una regolamentazione del lavoro che all’estero chiamano di assistente sessuale domiciliare, fa passare la voglia di chiedere qualcosa.
Pare che sei lì a dire che bisogna dare un nome a un pagamento che altrimenti risulta la solita cosa sporca, ma che tutti cercano da secoli, e si affrettano a dire che è sporco pure quelli che ci vanno di solito ma in pubblico non lo direbbero mai perché non sta bene.
E invece i miei utenti, tutti, se lo dicono, tra di loro, che questo mestiere esiste e serve come l’infermiera che viene una volta la settimana a vedere come stai, se serve la medicazione e a portarti gli ausili a casa.
Lo sanno anche i loro genitori e pure a loro va bene, perché quando passo io poi in casa c’è la pace e non ci sono baruffe e discussioni.
C’è la pace, scompare la mortificazione del non poter esaudire tutti i bisogni fondamentali.
Sono andata a farmelo spiegare da una psicologa cosa sono questi bisogni fisiologici: mangiare, dormire, fare sesso, respirare.
Andate a vedervi la piramide di Maslow: il fondo è fatto anche di sesso, poi più su c’è il resto: la sicurezza, l’affetto, l’intimità, l’autostima, la realizzazione, la creatività che è all’apice.
Il sesso è alla base della piramide e allora se una persona non può muovere le mani per farsi una sega o toccare una donna solo perché una donna in quella stanza con lui non ci starebbe mai perché lui sta su una sedia a rotelle e il mondo che gli sta attorno lo descrive impotente e lui invece dentro se lo dice tutti i giorni che la potenza ce l’ha ma resta ferma tra le gambe, inespressa, e se si esprime poi si deprime che non ha modi di esprimersi, che gli dici? Che deve abituarsi a stare senza bisogni fondamentali? Eppure mangia, dorme e respira. Ma il sesso, no. Perché stare vicino ad un handicappato richiede tanto amore, pazienza e pace interiore e ci vorrebbe una santa per sopportarli. E il sesso le sante di solito lo mettono da parte perché hanno altro a cui pensare. E allora, cosa fai?
Se sei disabile e non hai qualcuno che ti desidera anche così, che ci fai con quella potenza?
Alla prima occasione ti viene voglia di ucciderti.
Ma se sei uno di quelli che manco a far quello ce la fanno, ti resta la depressione.
Il sesso è una necessità per i miei pazienti.
Anche per non morire di vergogna.
Perché quando sbatti la testa contro il muro e l’unica cosa che vorresti è sentire caldo addosso e arrivi ad umiliarti per supplicare tuo padre di sfiorarti in mezzo alle gambe che non ce la fai più e a suon di urlare diventi bestia e tuo padre, che ti ama, pur di farti smettere di essere bestia lo fa, poi, quando tutto si calma, ti viene da avere la forza di muoverle quelle mani, quelle gambe, per sollevarti e andare a toglierti tutto lo sporco di dosso con la paglietta, quella che si usa per lavare le stoviglie e vorresti esser capace di strofinarti all’infinito, finché lo sporco lascia posto al sangue.
Gli altri, quelli che camminano, che si possono mettere a proporsi ad una donna dalla posizione eretta, che non hanno niente che non gli funziona in giro per il corpo, che si possono masturbare dove vogliono, storceranno il naso. Queste cose non si fanno e se si fanno non si dicono.
Non è corretto. E’ immorale.
Se fossimo giusti dovremmo lasciarci liberi di decidere se restare o andarsene, per prima cosa, no? E invece stiamo in un posto dove suicidarsi è un peccato e pensare all’eutanasia, quando sei in un corpo privo di tutti i comandi, è un reato.
Viviamo in una società dove se sei fallato, non ti gasano più, per fortuna, ma ti riempiono la testa del “questo non si fa”.
Figuriamoci parlare di sesso dei disabili, con i disabili, tra disabili.
E’ una mostruosità.
Potrebbero esserci persone che si approfittano di loro.
Io a chi mi fa certe domande, che si capisce che c’è quel sottofondo moralista da puzza sotto il naso, lo chiedo.
Ma te che faresti se non potessi mai più fare sesso, mai più toccare o essere toccato?
Impazzirei, è la risposta più frequente che ricevo.
Ecco, io, i miei clienti non li lascio impazzire.
Libero i loro genitori da squallide catene fatte di paura e vergogna, ci penso io a sporcarmi le mani. Sto ridendo mentre lo dico.
Che poi il sesso è bello proprio se è sporco. Lo spiego ai miei clienti che i loro umori, che all’inizio sono loro che lo dicono che quella cosa unta è lo sporco che hanno dentro, segno che si vergognano di star bene, in realtà è un pezzo di loro che ha bisogno di uscire e vagare, come l’acqua fresca che se la lasci scorrere è buonissima da bere e se invece la tieni dentro la bottiglia al sole prima o poi sa di stantio, di morto.
E allora io glielo spiego che se vogliono vivere, possono anche far uscire.
Sia chiaro, io un lavoro ce l’ho, faccio la commessa in un negozio, ho una divisa, giacca nera su gonna nera, calze nere, scarpe nere tacco quattro, estate e inverno.
Tengo i capelli raccolti, porto gli occhiali scuri che sembro una professoressa del mio vecchio liceo classico. Ho 50 anni. Lavoro dalle 9 alle 17. Poi chiudo e accendo il secondo cellulare, apro l’agendina e salgo in macchina e vado da Pietro o da Aldo, da Marisa o dal Gianni. Uso solo le mani e a loro va benissimo.
A volte, quando ho finito, non vado subito via. Ci sono genitori, fratelli, cugini che mi chiedono di restare, mi offrono il caffè o mi preparano la cena. Non si parla mai di quello che faccio, si parla della vita, della mia e della loro. Si parla delle cose di tutti i giorni, dei pannoloni e dei cateteri, dei soldi che non bastano e delle medicine che sono sempre troppe, dei film da vedere, della musica da ascoltare.
A volte torno a casa con i pacchettini pieni di dolci fatti in casa.
E me li mangio in silenzio, da sola, a casa.
Loro, a me, non darebbero mai della puttana.