Ha ragione la dottoressa

Se guardo dalla finestra, mi par di esser dentro la nebbia e invece è solo lo scarico abusivo del vicino che si è fatto la sauna in garage. E il fatto che sia abusivo rende più bello il tutto, mi pare. Questo scorcio di buio, là in strada, che vedo dalla finestra del terrazzo e questi grandi sbuffi di vapore che escono dall’angolo del garage, da quel tubo che i vicini dicono sia abusivo, mi piacciono.
A me, che quel tubo sia sprovvisto di autorizzazione, poco importa. Lo so che non dovrei far finta di niente. Io, non dovrei.
Ma mi mette allegria veder quel fumo bianco salir dall’angolo della casa di fronte, verso il cielo nero, perché è notte e fuori fa freddo e pure qua in casa, nonostante la caldaia lavori, oggi fa freddo. O sono io che son fredda?

Mi presento: sono Sabato Martina, anni 34, ispettore alla Polizia Municipale, in attesa di trasferimento al reparto Motorizzato. Single, come si dice oggi, ma sulla carta d’identità c’è scritto nubile. Ma se dico che sono nubile, mi guardano come fossi una strana. Nubile non si dice; si dice single, all’inglese.
Bah.
Dovrei dire invece zitella, me l’ha detto la psicologa la settimana scorsa.
“Guardi, il single è quello che sta bene da solo, nella sua condizione monofamiliare. Lei, scusi, ma alla condizione monofamiliare, mica ambisce, anzi le fa male, le sta stretta. Si dovrebbe dire che lei è una zitella, ma capisco che suona brutto”.
Ha ragione la dottoressa.
Ci riprovo.
Mi chiamo Sabato Martina, anni 34; agente alla Polizia Municipale, in attesa di trasferimento al reparto Motorizzato. Zitella.
Eh.
Secco, deciso, sincero. Cavoli, che presentazione…ma rischio di passar per una fallita e io non credo di esserlo. Almeno per otto delle 24 ore che compongono la mia giornata, io fallita, proprio no.
Io lavoro all’ufficio ambientale: compilo i rapporti e i verbali finali al termine dei controlli eseguiti dai colleghi che escono per le ispezioni.
Discariche abusive, abbandono di rifiuti pericolosi o sanitari. Violazioni al regolamento di igiene ambientale e a quello per la tutela degli animali. Io rileggo tutto, compilo tutto, preparo i fascicoli, poi li porto all’ufficio del pubblico ministero di turno, se serve, se c’è fretta. Oppure li spedisco via fax.
Adesso mi han accettato la domanda di trasferimento al Motorizzato, il reparto dove escono con le macchine e le moto per rilevare gli incidenti. Anche là, mi han già detto, dovrò occuparmi dell’inserimento dei dati. Nomi, cognomi, numeri di documenti, targhe, patenti. Rilievi, misurazioni, disegni da passar allo scanner. Codice della Strada alla mano, per controllare che i comma e gli articoli indicati sian giusti.
Son brava. Dimenticavo, sono laureata in Scienze politiche, voto 105.
Ho finito l’università sei anni fa e mi sono trovata a casa da mia madre che mi annoiavo. Lei ricamava, io mi son letta tutto il giornale e c’era l’articolo sul concorso per 20 posti da vigile urbano e ci ho provato. E ho vinto, sono arrivata prima. Chi dice che son una fallita, si sbaglia proprio. Per carità non sono una operativa, ho mansioni d’ufficio io. Ma mi va benissimo così: non porto la divisa ed è una fortuna perché il cappello mi sta davvero male in testa. E quando finisco il mio lavoro posso dimenticarmi di esser un agente della Polizia Municipale. Nel mio palazzo non lo sa nessuno che lavoro faccio e di conseguenza se c’è un tubo abusivo nel palazzo di fronte, da cui esce del vapore, io posso fregarmene.
Ah, dicevo del cappello. A me non stanno. Lo devo mettere solo per la festa del corpo, a San Sebastiano a maggio, quando partecipo alla cerimonia in basilica e alla festa col sindaco e mi tocca il picchetto d’onore, perché le donne son più carine e se stan davanti è meglio, dice il comandante.

Me l’ha detto anche il dottor Farfarti, che è meglio se stiamo davanti noi ragazze, che siam carine e abbiamo volti dolci e la gente non può far il gesto dell’ombrello a delle vigilesse dai volti dolci. Che si sa che noi vigili, mica siam simpatici…
Ha ragione il dottor Farfarti, che quando vado a bussar alla sua porta in Procura, in Cancelleria, è sempre gentile con me e mi chiede se voglio un caffè mentre controlla le carte che gli ho portato, e lo prepara lui, mica chiede alla segretaria. Chiude la porta, prende la cialda e la mette in una fessura della macchinetta grigia e rossa della Illy. Fa un rumore, una specie di clock, la cialda quando cade nella fessura, e poi esce il caffé, buono. E Farfarti si ricorda sempre che prendo il dietor e non lo zucchero normale, e me lo passa assieme al bicchierino e al cucchiaino di plastica. Che brava persona che è.
Si vede che è uno che conta in Procura. Che a volte se arrivo e lui in stanza non c’è, io lo aspetto fuori, in corridoio, e tutti al suo passare gli stringono la mano.
E se mi vede che lo aspetto, mi fa un sorriso grande, e mi lascia il passo per entrare e mi fa sedere e aspetta per sistemarmi la sedia.

Me l’ha chiesto, l’altro giorno, Farfarti se sono single. E mentre gli dicevo che sì, ero nubile e poi ho corretto subito dopo in single, e pure in attesa di trasferimento al Reparto Motorizzato, gli ho guardato la mano e non aveva mica la fede, quella da matrimonio, ma la pelle del dito era come scolorita, come se si fosse abbronzato con l’anello e poi l’avesse tolto.
E allora quando il dottor Farfarti mi ha chiesto se il caffè lo prendevamo fuori, che aveva voglia di quattro passi in strada, invece di berlo in ufficio, io gli ho detto di sì.

E quando al bar dalla Marisa, vicino alla Procura, ha insistito per pagare e mi ha detto che una bella ragazza, dal viso dolce, mai dovrebbe metter mano al portafoglio, io ho sorriso e lui mi ha detto che se mi faceva piacere, una sera, si poteva andar a mangiare una pizza assieme. E io ho detto di sì.
E intanto gli guardavo le labbra, che componevano, muovendosi , quella frase. “Se le va, una di queste sere, potremmo mangiare qualcosa assieme”.
La pizza l’ho aggiunta io, sottintesa. Che son abituata ad andar in pizzeria coi colleghi e al ristorante ci vado solo per il compleanno di mamma, a giugno, qualche giorno prima di San Sebastiano, che è la festa del corpo, e dopo il picchetto d’onore si va tutti in pizzeria.

Dicevo, gli guardavo le labbra, che si muovevano per parlarmi, e io pensavo che dovevano essere morbide quelle labbra, che non c’era segno di vecchiaia, che i denti erano bianchi. E all’improvviso mi sono chiesta, parlando tra me e me, in silenzio, come sarebbe stato baciarlo il dottor Farfarti.
“Chissà che sapore ha questa bocca?”, mi son chiesta. E, involontariamente, mentre lui parlava, ancora con il braccio appoggiato al bancone del bar della Marisa, ho allungato un dito e glielo ho poggiato sul labbro inferiore come si fa quando si toglie qualcosa che è rimasto sulle labbra di una persona che conosciamo. Solo che io devo averlo lasciato un pochino di più. E quando mi sono accorta che l’avevo sfiorato, involontariamente, il labbro inferiore, sono diventata tutta rossa, e ho nascosto subito il dito in tasca, con tutta la mano, ovvio, mentre il dottor Farfanti prendeva di corsa un fazzolettino di carta dalla tasca della giacca, convinto di aver la bocca sporca di caffè.
E poi con una scusa me ne sono andata via di corsa, gli ho detto che mi ero accorta che ero in ritardo e mi aspettavano in ufficio che c’era un verbale da registrare e l’ho lasciato lì, Farfanti, a guardarmi mentre scappavo fuori dal bar, urlando “comunque, grazie per il caffè, dottore”.
E in strada mi sono messa a correre e solo a quattro isolati dal bar, ho rallentato, ho respirato, ho tirato fuori la mano dalla tasca e ho guardato l’anulare e me lo sono portato al naso, prima, e alla bocca, poi. E ho leccato il mio dito. E ho sentito il gusto del caffè della Marisa, che era davvero rimasto sulle labbra del dottore, e l’odore del dopobarba Opium, quello che avevo sentito in profumeria dalla Marta, e mi sono fermata.
E sarà stato il profumo, credo di sì, ne sono convinta, se mi è venuta voglia di girarmi e tornare indietro, correndo, rientrare nel bar e baciarlo il dottor Farfarti.
Così, baciarlo, senza una parola.
Tirarlo per il bavero della giacca verso il mio petto, sfiorar con le mie labbra le sue, muovere lentamente la lingua, guardinga, per evitar una sua brusca reazione, annusarne l’odore lentamente. In silenzio. Lentamente, senza mai mollare la presa. Decisa, come solo può essere una donna che non si sente una fallita, mai.
E il bello è che mi son girata sul serio e mi son messa a camminare, a passo svelto, verso il bar. Sorridendo.

E poi l’ho visto, il dottor Farfanti, uscire dalla porta sottobraccio ad una ragazza, coi capelli rossi, il tacco alto, il tailleur grigio con la gonna così stretta che mi son chiesta pure se respirava o camminava solo. E ridevano, e lei scuoteva, ancheggiando sui tacchi, i capelli lunghi e lui la guardava. E gli ho visto lo sguardo al dottor Farfanti. Quello di chi si chiede che sapore hanno quelle labbra rosee, se sanno di menta delle Tictac o di tabacco, se quella fessura si schiuderà o rimarrà serrata.
L’ho visto il suo pensiero.
E poi ho visto il mio, che mi diceva di far dietrofront e camminare, di fretta, fino a quattro isolati più in là. Facendo finta di non averlo più un anulare.

Boh, c’ha ragione la dottoressa.
Mi chiamo Sabato Martina, anni 34; agente alla Polizia Municipale, in attesa di trasferimento al reparto Motorizzato. Zitella.

Carta straccia

Che divertente che sei, come mi fai girare, su questa pista piena di luci, e io vedo solo noi che giriamo. Che bello che è giocare, io e te. Mi tieni la mano, la accarezzi, gentile; sono libera, nessuno può dirmi nulla. Ballo e gioco con te, che mi tieni la mano e non la molli. E mi tiri, e mi inviti a ballare e a me piace. Giochiamo a far i sexy? Guardami, non sono bella, così libera? Guardami che mi muovo addosso a te. Domani ti ricorderai solo di un foglio di carta che volteggia nell’aria. Ma ora sono qui, giochiamo. Tu sorridi, lo capisci che io stasera ho voglia di sentirmi solo una ragazza che balla, sensuale come un aeroplanino di carta che rimbalza il vento.

Oh, cosa fai? Mi prendi e mi fermi. No, non si fa così, lasciami ondeggiare, lasciami esser leggera. Cosa fai? Perché adesso mi stringi così forte che mi fai male al braccio, perché mi dici quelle cose? Perché mi guardi così?
No, questo gioco non mi piace.
Non ti avevo chiesto di afferrarmi, ma di farmi esser leggera. E’ tutt’altra cosa, questa. Cosa fai con quella mano? La camicetta lasciala lì.
No. Lo capisci un NO, N-O, te lo urlo.
Ma mi sento muta, pesante, non sono più carta che svolazza, sono sasso che sfonda.

Cosa vuoi da me? Perché mi tiri in quel modo? Perché non mi ascolti?
Non è divertente, non ho alcuna voglia delle tue mani addosso, sono fredde. Il freddo mi sta entrando dentro, basta.
Mi fanno male, le tue mani. Lasciami andare, lasciami esser aeroplanino di carta che vola.
Sono mani che mi buttano giù, le tue, che mi costringono a tirar le gambe al petto per proteggermi. Non mi toccare.

Il tuo viso ha cambiato espressione, mi guardi come se non fossi più carta che ti svolazza davanti, ma cartone pesante, da tagliare. E mi tiri, mi tocchi e io ho paura adesso. Te la senti, la mia paura, e ti piace, ti fortifica.
Io urlo ma esce solo un brusio che te non senti e io mi sbraccio e te non la smetti, l’odore della mia paura ti eccita e mi urli di dare senza fiatare.
E mi schiaffeggi la pelle, forte, e poi quel dolore e all’improvviso io sono solo carta straccia.

Haiti-Parigi

di Roberto Lamantea*

Vedo i volti delle vittime del terremoto ad Haiti, le fotografie sul sito di Repubblica, volti lacerati, come le pietre. Ma come sempre, sono i loro occhi a trafiggermi, come mi tagliano gli occhi di un cane abbandonato o quelli di un anziano solo in una casa di riposo. Gli abitanti di Haiti, quelli sopravvissuti, hanno il viso lacerato come le pietre dei palazzi. E’ il dolore. E’ il dolore la mia ossessione. E sento ugualmente lacerante, ancora, l’assenza di Dio, il silenzio di Dio _ forse – di cui scriveva il poeta austriaco Georg Trakl. O il Dio invocato, negato, cercato, di Simone Weil. Sento anche un dolore lontano come un dolore mio. Sento il dolore di un filo d’erba, di un gatto o un cane randagio, di chi è solo sulla terra. Essere un poeta è diverso da scrivere poesie. E’ essere un sismografo, è avere nelle vene e nei nervi tutto questo incomprensibile dolore.

Così provo dolore quando muore un grande, ma è diverso. Non è la tragedia della storia e della natura. E’ una privazione violenta, una cancellazione. Quando all’improvviso è mancata Pina Bausch – l’ho conosciuta e incontrata più volte _ per me e per moltissimi sulla terra è stato un dolore devastante. Quando muore un grande una parte di noi se ne va, dal mondo vola via un po’ di bellezza. Perché un grande regala bellezza, rende il mondo migliore. Io che sono ossessionato dal dolore delle cose e delle creature e mi ritengo ateo – ma sul mio ateismo continuo ad avere dubbi – mi riconosco nella visione desolata che offre il cinema di Robert Bresson o Krysztof Kieszlowski, o Ingmar Bergman.

Nei giorni scorsi se ne è andato un altro grande, Eric Rohmer. Rohmer non cantava il dolore né l’assenza. Rohmer cantava la leggerezza della vita, narrava i batticuori, gli slittamenti del pensiero e del desiderio con la tecnica del thriller. Nei suoi film non succede niente, tranne in pochi, come “Il segno del leone”, dove c’è un percorso narrativo. Gli altri film del cineasta francese parlano di incontri tra giovani, in vacanza in provincia o in città (Rohmer è uno dei grandi poeti di Parigi), di amori nel trascolorare delle stagioni, dell’ironia dei proverbi sulla commedia della vita. Alcuni suoi film sono amari, come “Reinette et Mirabelle”; altri intensamente lirici, come lo stupendo “Il raggio verde”. E’ un regista intellettuale, raffinato, letterato, usa un pennino sottilissimo per disegnare caratteri, psicologie, attese, disincanti, buffi equivoci (come nel delizioso “L’amico della mia amica”), un erotismo delicato e forte nello stesso tempo (“Il ginocchio di Claire”, “L’amore il pomeriggio”), fughe, solitudini. L’amore come nei proverbi arriva quando non lo attendiamo e da chi non aspettiamo. E’ il regista di una civiltà superiore: in tutto il cinema francese (Renoir, Clair, Truffaut…) si respira il rispetto dei sentimenti, mai derisi, dileggiati, a meno che la violenza non sia metafora del male “ontologico” di Bresson (“Au hazard Balthazar”, “Il diavolo probabilmente”, “L’argent”), allora anche l’amore diviene cupo crudele gioco e perfino stupro.

Scoprire il cinema di Rohmer è innamorarsi di nuovo della vita, nonostante il dolore, la coscienza, la conoscenza, la perdita, una solitudine di marmo levigato, l’assurda violenza tessuta nel genere umano e costruita dalla sua storia. Il cinema di Rohmer ha l’impalpabilità del respiro, perché come un respiro ci cambia. Rohmer non c’è più, nessuno ci darà più i suoi film.

Provo amarezza nel vedere che i maestri non sono sostituiti da nessuno. Bresson, Truffaut, Rohmer, Bergman, Antonioni, Pasolini avevano una visione della vita, della società, del destino; chiamiamola filosofia, se vogliamo; spessore intellettuale, infinita sete di ricerca. E la sapevano tramutare in linguaggio, stile, scrittura, ritmo, figura. Oggi vengono pubblicati anche buoni libri, a volte eccellenti; film molto belli, ben costruiti, recitati in modo magnifico. Ma quasi nessuno offre una visione della vita, della morte, di Dio o della sua assenza, della natura e della sua bellezza e crudeltà (il “giardino fiorito” dello “Zibaldone” di Leopardi), del perché siamo venuti al mondo, che senso ha tutto. E nessuno sa più raccontare attraverso storie, volti, corpi, batticuori, colori e luci, tutto questo. Ogni volta che un grande ci lascia (grande nel cuore) siamo più poveri.
(scritto il 13 gennaio 2010)

* Roberto Lamantea è un giornalista, critico di danza e di teatro. Ha pubblicato brevi saggi e libri di poesia. L’ultimo è “Verde Notte”.
E’ soprattutto mio amico, di quelli veri. E devo anche a lui se questo spazio, dedicato ai miei racconti, è nato. Lo ospito con vero piacere, perché le sue parole, così
competenti , arrivino a tutti. Senza grandi che sappiano indicarci una chiave di lettura della vita, della nostra contemporaneità, la cultura è inesorabilmente in via di estinzione. Spero di poterlo ospitare qui, ancora, quando vorrà. Mi casa es tu casa, Robi

La voglia

La voglia è come una scimmietta, han ragione i tossici.
Loro sanno cosa è quel desiderio
che diventa bisogno
che fa addirittura male se stai senza
e a volte capita
certo che è così,
perché se non ti è capitato mai,
ascoltami,
se non ti è capitato mai
vuol dire che non sai mica quello che ti piace davvero
e se non l’hai trovato
e non ci sei manco una volta inciampato
contro quel che ti piace
te non lo sai per davvero cosa sei.
I tossici lo sanno cosa è la voglia.
Loro se la portano addosso la scimmietta
e a loro pesa, perché la voglia ti stravolge,
ti passa dentro come se il tuo corpo
fosse un mattone forato
e lei da te tira fuori la musica che gli pare e piace
e magari a te quel suono ti fa invece paura,
che lo senti cupo e profondo
come un sì che ti parte dall’intestino
e scivola su per l’esofago
e ti arriva in bocca e ti tocca sputarlo
e quando sputi ti esce quel rumore
che a te ti pare di non esser umano
ma di aver la bestia dentro.
E la scimmia ride
che lei un pochino bestia si sente sempre
ride di te che non ce la fai ad ammetterlo.

La linfa

Carla si svegliò e sentì le mani prudere, come se migliaia di piccolissime formiche le stessero mordicchiando il palmo delle mani e le dita. Non sentiva dolore, era un fastidio leggero come un solletico lieve con la piuma.
Carla provò ad alzare la mano sinistra ma era pesante, come il marmo. Quando ci riuscì, aiutandosi con la destra, nonostante il formicolio colpisse anche quella, si accorse che la mano era germogliata.
Dalle dita spuntavano delle piantine, giovanissime, di un verde carico. Lei rimase stupita e impaurita a guardar la mano, una pianta per ciascun dito, diversa. Riconobbe l’Ulivo spuntar dal pollice, il Bosso dal mignolo e la Quercia dall’anulare. Lo stupore tolse aria alla paura. Non si disperò Carla. Lei sentiva che quei germogli erano un tutt’uno con la sua mano bianca. La destra si preparava anche lei alla trasformazione; le unghie erano verdi. Mancava poco.
Sentiva, Carla, il suo sangue pompato dalle piante come se fosse un latte di vita.
Che fare, si disse. Spezzare i rami e bruciarli?
No, Carla scacciò subito quel pensiero. Andò in cucina, trascinando le braccia pesanti, girò con fatica il rubinetto e riempì il lavello di acqua. Poi ci ficcò dentro le mani. I germogli si gonfiarono, prosciugando in fretta l’acqua nel lavello e cominciarono a crescere, a crescere. Divennero così grandi che sfondarono il soffitto e poi il tetto della casa. E Carla andò con i suoi alberi, senza graffi e senza dolore. A guardar le nuvole da vicino.
E per la prima volta non si sentì solo carne e sangue ma anche linfa.

Un giorno una amica, Chiara, parlando su Friendfeed, disse che le sue mani stavano germogliando. A me è venuto questo, e glielo dedico

Il grillo

Ricordo perfettamente il colore delle foglie, un verde mare, ma son sicura che c’era anche del blu. Altre, attraversate dal raggio di sole, eran quasi arancioni con striature marroni. Ricordo perfettamente il tronco dell’albero, che mi stava sopra come un enorme ombrello e che ondeggiava dando voce al vento primaverile.
Ricordo che l’erba attorno a me era soffice e profumata e umida. Sentivo la mia pelle bagnarsi, come se stessi filtrando attraverso i miei pori l’acqua direttamente dalla terra. Ho pensato, ricordo, che se fossi stata lì per sempre sarei diventata muschio.
E non mi interessava minimamente spostarmi.
Ricordo che su un filo d’erba, lontano massimo due passi dalla mia faccia, c’era un grillo. Verde chiaro, con le antennine che tastavano l’aria come se volessero assaggiarla. Faceva finta di non vedermi, io ho fatto finta di non vedere lui.
Ho pensato che se mi saltava in faccia mi sarebbe venuto da ridere. Ho pensato anche che da dove era lui, a massimo due passi dalla mia faccia, io dovevo sembrargli grande come una montagna e il salto forse gli doveva esser risultato cosa audace e non un gioco.
Ricordo che l’erba mi solleticava la pelle della schiena e io avevo prurito ma non mi muovevo e pensavo che stavo davvero diventando muschio, lentamente, senza fretta.
E ho pensato che se diventavo muschio, il grillo non mi avrebbe più visto come una montagna troppo grande e allora mi sarebbe, sì, saltato in faccia. E sai, che ridere.
Ricordo che non ho mai guardato l’orologio, ma son sempre rimasta ferma, sotto il grande albero con il suo ombrello di foglie, sull’erba mossa dal vento, con l’unica compagnia di un grillo, indeciso se saltare o no.
Ricordo che ti ho aspettato così tanto che alla fine, muschio, sono diventata, ma il grillo non ha saltato.

L'Amalia Muniega

 

– Amalia, ciao. Come va?

– Bene, da dove arrivi?

– Arrivo da Udine. Che serata. Non hai idea, a sfrecciare a passo lento non si arrivava più. Per fortuna non si è suicidato nessuno stavolta e sono arrivato con soli 5 minuti di ritardo.

– Fa così freddo stanotte che toglie anche la voglia di suicidarsi.

– Ahhahahahahha, vero. ‘Scolta, vado fino a Venezia e poi torno tra mezz’ora in deposito, ci vediamo là?

– Se posso, sì.

– Ti lascio aperta l’ultima carrozza e vieni a dormire, stanotte fa troppo freddo per stare qua.

– Grazie. Forse arrivo. Non lo so.

Il regionale da Udine per Venezia riprende il suo passo lento verso il ponte della Libertà. Amalia lo guarda allontanarsi, ferma sulla banchina, si stringe al collo il bavero del cappottone grigio e si incammina verso la sala d’attesa della stazione di Mestre. E’ chiusa. Di notte, per motivi di sicurezza, sprangano gli accessi e poco importa alla dirigenza se i barboni della stazione devono dormire sui marmi dell’androne al freddo. Amalia Muniega sorride, guardando le lucette intermittenti dell’albero di Natale in fondo alla sala d’aspetto. Spinge la faccia contro il vetro per guardare bene il presepe. Le era sempre piaciuto il Natale quando era giovane e mamma. La Amalia in stazione ci vive da anni, così tanti che le sembra di esserci nata.

E’ diventata la sua casa da quando la moglie di suo figlio l’accusò di aver rubato in casa e le intimò di sparire. E lei che era già vecchia, all’idea di non poter più parlar con suo figlio, che la odiava, andò in stazione per buttarsi sotto un treno e farla finita. Era pronta a far il salto un attimo prima che passasse il treno da Trieste, ma quello le urlò contro un Noooooo fischiato, così potente, che lei fece un balzo indietro per la paura.

Amalia ad ammazzarsi non ci ha più pensato, ora parla con i treni. Ne raccoglie le confidenze stanche all’arrivo in stazione, ne riconosce il passo sulle rotaie e con loro scambia qualche parola, lei che al mondo non ha più niente da dire. Solo con loro parla. E i treni di notte han le porte che si inceppano e restano aperte così lei può arrivar al deposito e salirci sopra e dormire sui seggiolini invece che sul marmo dell’androne della stazione. I treni mica le urlano contro che è sporca, vecchia, una barbona, che è brutta con quella barba bianca e il cappotto militare e le scarpe da alpino presi alla mensa dei poveri.

La gente è cattiva, i treni no. Al freddo di certi occhi che le passano attraverso come se non esistesse, preferisce la fredda lamiera del pendolino e dei suoi fratelli, che le raccontano di viaggi lenti in posti lontani, di ritardi e scambi, di bambini che corrono felici su e giù per i corridoi delle carrozze, di famiglie in partenza. Agli schiaffi dei tossici, che la svegliano per aprirle a forza il cappotto e vedere se ha qualche spicciolo, preferisce una vita rasente muro. La faccia attaccata al vetro, la Amalia fissa il presepe e l’albero di Natale illuminato. Fa freddo, accidenti. Siamo a due giorni da Natale e c’è il gelo, qui fuori, pensa. Guarda il termometro a fianco della porta. Sei sotto zero. 

Manco è ancora ufficialmente nato e l’avevan già messo qua per comodità, pensa la Amalia, ma la Madonna guarda che faccia che ha…manco piange che lui non c’è più e la culla è vuota. Ma che madre è questa? Che si consoli col bue e l’asinello, che con un freddo simile non si lascia i piccoli nudi. E poi non si dispera. Ma cosa vuoi pretendere da una che è vergine e non si è sporcata come noi?

La Amalia guarda il grande orologio della stazione. Stamattina si è fatta coraggio e ci è entrata nella sala d’aspetto piena di gente, rasente muro, attenta a non farsi vedere e toccare e si è messa a fissare da vicino le lucette dell’albero. E poi ha allungato la mano, la stessa che ora accarezza il rigonfiamento della tasca destra del cappotto. Nella tasca interna, cucita per nascondere i panini presi dal cassonetto del fast food, che quelli li buttano via se dopo due ore non li ha comperati nessuno, adesso c’è lui, avvolto in un fazzoletto di cotone.

Amalia lo accarezza attraverso la tasca e si incammina verso il deposito dei treni. Ritrova l’amico regionale da Udine, con il portellone aperto dell’ultima carrozza, ci sale a fatica, un passetto alla volta. La carrozza è buia, lei però anche se è vecchia ha gli occhi ancora buoni e procede poco alla volta, poi si sdraia su una delle poltrone.

Sfila il fazzoletto dalla tasca, apre i lembi con cura, prende la statuina nel palmo della mano e la appoggia delicatamente sul sedile. Il bambino nudo le sorride, gli occhi azzurri e le guance paonazze. L’Amalia gli sfiora delicatamente il viso, poi prende la sciarpa da sotto il cappotto e la avvolge attorno alla statuina.

– Amalia, che cos’è? le dice il regionale.

– E’ il bambin Gesù

– E dove l’hai preso?

– Dalla sala d’aspetto. Pensa che l’hanno messo nel presepe due giorni prima di Natale. E’ un prematuro. E fuori fa freddo.

– Cavoli, temevano di dimenticarsi? E che te fai?, replicò la voce delle lamiere.

– Gli voglio bene

– Giusto, e il nome, gli tieni il nome?

– No, altrimenti diventa un povero cristo come me.

Questo è il mio contributo al Postsottol’albero2009 di Sir Squonk, il link lo trovate nel post precedente

L’ho messo anche qui che mi spiaceva non ci fosse, alla fine…ma voi andate a leggervi tutto il Psla


L'Amalia Muniega

Sir Squonk ha, a tempi da record, lanciato nello spazio-tempo prenatalizio il Psla 2009, ovvero il Post sotto l’albero. C’è anche la mia Amalia Muniega. Non vi dico dove è , andatevela a cercare, e leggetevi anche tutti gli altri. Che son bravi, giovini, e belli e son blogger e han voglia di dire. E in tempi di crisi, scusate, ma non è poco. 

Siamo tutti qui

                                            http://www.blogsquonk.it/PostSottoAlbero2009.pdf

Anche io

Con “Quelli che” ho partecipato all’iniziativa di Donnamoderna.com per dire no alla violenza contro le donne. 

 

 

La battaglia delle ramazze

Alle 5 di mattina Sandra venne svegliata da una telefonata. “Corri, che qui è pieno di polizia”. Saltò giù dal letto, tanto era già sveglia. Indossò i jeans e gli anfibi, il maglione e il giubbotto pesante che fuori faceva freddo. Non pensò manco a lavar i denti, doveva avvisare Michele.

“Stai pronto con la telecamera, ti faccio uno squillo col cellulare e tu arrivi di corsa, che mi sa che oggi vien fuori un putiferio”. 

Prima di uscire si ricordò della sciarpa. In questi casi è fondamentale, metti che lancino un lacrimogeno. Alle 5.30 Sandra era davanti al palazzo della banca.  Per strada non aveva trovato nessuno. Ad illuminare la via c’erano i copertoni bruciati dai ragazzi dei centri sociali, arrivati da giorni a portare solidarietà al presidio. Parcheggiò la macchina e raggiunse a piedi il piazzale. Il reparto celere era schierato con tre camionette.

Niente di buono. 

Sandra tirò sulla faccia il lembo della sciarpa, fino a coprire il naso. C’era silenzio. Niente di buono, si ripeté mentre passava davanti ai poliziotti, con passo deciso, diretta verso il gazebo bianco che scorgeva dietro al fumo nero dei copertoni infuocati. Dieci donne erano sedute sotto il gazebo, il tavolino pieno di birre e caffè caldo distribuito con i thermos. Giocavano a briscola. Quando la videro, le fecero gran sorrisi. 

“Lei dov’è?”, chiese.

“Sta bloccando l’ingresso sul retro. L’hai visto il pullman pieno di crumiri? Sono in venti. Sono arrivati alle quattro, pensavano dormissimo ma noi facevamo i turni. E visto che non li abbiamo lasciati entrare han chiamato la polizia”.

“Come arrivo all’altro ingresso?”

“Non puoi, i poliziotti non fan passare nessuno”.

“Ok”.

Sandra rialzò la sciarpa sulla faccia, mise le mani dentro le tasche del giubbotto e si incamminò con passo deciso verso il retro dell’edificio. C’erano poliziotti ovunque. 

“Signorina, non può passare”.

“Mi chiami il dirigente”.

Il commissario Rossi arrivò dopo cinque minuti. Gli occhi stanchi di chi è stato buttato giù dal letto troppo presto.

“Oi, ciao Sandra. Che ci fai qua?”

“Ho la telecamera pronta. Mi fai passar di là?”

“Stanno bloccando l’ingresso, non posso farti passare”.

“Senti c’è mia madre di là”.

“Impossibile, il palazzo è vuoto, non ci sono impiegati dentro”.

“Mia madre è una di quelle che impedisce a voi di entrare. E di far passare quelli… _ disse indicando l’autobus dei crumiri _ A proposito, da dove arrivano?”

“ Tua madre? Opporc… _ rispose Rossi _ Quelli? Arrivano da Acireale. Li ha mandati la Intrepida che ha il contratto d’appalto in mano e vuole cominciare a lavorare. Del resto vedessi in che condizioni sono i bagni e gli uffici dopo una settimana che nessuno è andato a pulire. Ma scusa…tua madre è una di quelle? Ma…ma…”.

“Commissario, i commenti dopo”.

Lui rimase un attimo a fissare Sandra negli occhi.

“Ok passa, hai 5 minuti. Vai e dì loro che alle 8 devono lasciarli passare”.

“Seeeeeee _ scoppiò a ridere Sandra _ prova a dirglielo tu”.

Rossi allargò le braccia e si fece da parte, facendo cenno ai suoi uomini di farla passare. Poco oltre c’era la porta laterale, la seconda entrata del palazzo. La mamma di Sandra, la Piera, stava con le braccia larghe a bloccare l’ingresso, dietro altre quattro colleghe.

“Ciao tesoro”, le disse sorridendo.

“Ciao mamma, ho fatto prima che ho potuto. Solo che non mi lasciavano passare”.

“Che non lo so? E’ mezz’ora che ho chiesto un caffè. Senti amore, oggi mi sa che qua succede un casino. Papà lo hai avvisato?”

“Sì, non preoccuparti. Adesso con questi ci parlo io”.

“Provaci tu, non capiscono che lottiamo per il nostro posto di lavoro. Anche i crumiri han mandato e la polizia che fa? Li difende. Li hai visti? Se entrano, è finita”.

“Li ho visti, sì. Ma te, per favore, stai attenta”.

Sandra se ne andò, scuotendo la testa, doveva trovare il commissario, ma si trovò il passo sbarrato da Paolo, un amico poliziotto.

“Ciao Sandra, ma c’è pure tua madre qua? Me lo ha detto il commissario”, le disse Paolo. 

“Ciao, mia madre è una di loro. Sì. Ma che fate? Davvero avete intenzione di caricare?”.

“La ditta ha richiesto l’intervento della forza pubblica per far entrare i suoi lavoratori. C’è una richiesta dei dipendenti del palazzo di una ispezione dell’ufficio igiene. Se arrivano e vedono lo schifo che c’è su, salta l’appalto”.

“Sì Paolo, so tutto. Ma te lo sai che quelli sono dei crumiri che vengono a portar via il posto a lavoratrici che per colpa del cambio d’appalto e di questa merda del massimo ribasso, rischiano di star a casa? Sai quanto guadagnano queste donne per quattro ore di lavoro al giorno, alzandosi alle 4 del mattino? Lo sai?”

“No, ma immagino poco. Ma il massimo ribasso è consentito dalla legge sugli appalti, Sandra”.

“ Ecchissenefrega. E’ una legge sbagliata. E queste donne protestano perché le riassumono solo con contratti a metà ore che significa metà di uno stipendio già da fame”.

“Se dipendesse da me…”

“Dipende anche da te, Paolo. Parla con il commissario, andate via”

“Sandra c’è una richiesta ufficiale di intervento!”

“Paolo se toccate mia madre o una di loro, io…io…”

“Sandra faccio finta di non aver sentito”.

Lei se ne andò bestemmiando a voce bassa, mandando a quel paese la legge sugli appalti, il massimo ribasso, le ditte improvvisate che  fan soldi con le pulizie ma si dimenticano di versar i contributi all’Inps e pure la poliziotta che le puntava contro la telecamera. 

Materiale per il lavoro della scientifica in caso di incidenti. Sandra sapeva perfettamente come sarebbe andata quella mattina. Loro, le donne delle pulizie, no. 

Andò diretta al gazebo, con la scusa di prendere del caffè.

“Ragazze, guardate che questi caricano, oggi”.

“Ci incateniamo, resisteremo”.

“Vabbè”.

Passò accanto ai ragazzi dei centri sociali, uno sguardo bastò per capirsi. Poi, facendo attenzione a non rovesciare il piatto con i 5 caffè, tornò all’ingresso secondario.

“Caffè per le resistenti”, urlò Sandra per far capire che voleva passare di nuovo.

“Ne hai uno anche per me?”, le disse un giovane agente, con il casco antisommossa sotto il braccio.

“Beh se volete vi porto tutti al bar”, rispose lei, sorridendo. 

 “Non ci possiamo muovere”.

“Ecco, sarebbe meglio invece se vi muoveste”, rispose lei con fare canzonatorio.

Arrivata alla porta, trovò sua madre intenta a spiegare le sue ragioni ad uno dei poliziotti. 

“Ecco qua i caffè”, disse, interrompendo il monologo. “Devo parlarti”, aggiunse a voce bassa.

“Dimmi, tesoro”, le rispose sua madre.

“Senti, questi caricano. Lo sai che vuol dire? Che vi picchiano. Su, venite via. Avete tutte una certa età”.

“Noi non ci si muove! Abbiamo diritto di protestare per come ci trattano. Devo spiegarti che sto difendendo il mio posto di lavoro? Non ti ho insegnato niente?”.

“No, mi hai insegnato tutto. Però ho paura che ti fai male”.

“Ce l’hai l’altro cellulare? Lasciamelo”.

“Sì tieni, così mi chiami se serve. Io sono di là”.

“Va bene”.

Sandra, andandosene, incrociò lo sguardo del poliziotto, uno che aveva visto qualche volta in commissariato. Si salutarono con un cenno. 

 Alle otto del mattino, tutte le donne erano schierate davanti all’ingresso principale della banca, formavano un blocco che impediva l’accesso al parcheggio interno. Si erano incatenate l’un l’altra, in venti, ma avevano preso una catena di quelle che trovi in ferramenta e che i dark usano per far le collane. Bastava tirare e si sarebbe rotta al primo strappo. 

Niente di buono, disse Sandra.

Davanti alle donne era schierato il reparto celere: trenta agenti con caschi, protezioni e manganelli. Al comando del gruppo, il poliziotto che prima parlava con la madre di Sandra e che teneva in mano un tronchesino enorme. 

“Adesso signore belle, basta. Dovete farci passare”.

“Col casso”, rispose la Gilda, sessant’anni per un metro e 58 di altezza ed una circonferenza della pancia di 120 centimetri. Tutto provato, che in una settimana di occupazione, avevan giocato pure a prendersi le misure. Sandra guardava e si innervosiva.

Michele riprendeva tutto con la sua telecamera. Era arrivato senza bisogno di squilli del cellulare. Dietro di loro, i ragazzi dei centri sociali urlavano slogan contro il sistema degli appalti. Eran rimasti in disparte perché le donne volevano difendersi da sole. 

Niente di buono. Sandra stava maledicendo in silenzio quel tronchesino, esagerato per una catena che con un solo tiro si sarebbe rotta. All’improvviso il poliziotto agitò in aria la grande pinza e si diresse deciso al centro della catena umana. Le donne cominciarono ad urlare bestemmie, stringendosi l’un l’altra per reggere l’urto. I poliziotti non toccarono i manganelli, abbassarono le visiere dei caschi,  e cominciarono a spingere a mani nude. Una massa contro l’altra, una spinta contro l’altra, tra urli e richiami. Poi il colpo di tronchese sulla catena e la Gilda cadde a terra di schiena; i poliziotti intuirono che era il momento di avanzare e cominciarono ad infilarsi di forza rompendo in due il fronte delle donne. Spintoni e tante urla. E poi apparvero i venti crumiri che erano scesi dal bus e si erano messi a correre, per guadagnare l’ingresso alla banca. Nel parapiglia si infilarono prima di loro i ragazzi dei centri sociali, che andarono a bloccare l’ingresso. E così i crumiri rimasero di nuovo fuori dal portone, solo che stavolta non erano nascosti dentro l’autobus. Erano nel piazzale in mezzo a donne per terra, altre urlanti e altre che correvano verso di loro per bloccarli , inseguite dai poliziotti.

E Sandra con un occhio seguiva Michele che riprendeva tutto, e con l’altro cercava sua madre. 

La Gilda era per terra, urlava e si rotolava come una pallina, maledicendo i morti sicuramente canini del poliziotto del tronchesino che la tirava per la giacca, dicendole che non si era fatta niente con il culo che si ritrovava. Altre donne venivano tenute ferme dai poliziotti. Sandra vagava nel piazzale cercando il volto di sua madre in mezzo a quel casino e se l’immaginava già con le manette ai polsi seduta per terra, e nel girare, schivava i poliziotti che correvano da una parte all’altra. Niente di buono. 

E poi la vide e si fermò. La Piera era sopra una aiuola, con il cellulare all’orecchio intenta ad urlare come una pazza a qualcuno. Poi quando mise via il telefono, incrociò il suo sguardo, le sorrise, e corse a urlar di tutto contro il gruppetto dei crumiri.

Tempo due minuti e dentro il piazzale della banca, arrivarono due auto dei carabinieri.

Cacchio, si disse Sandra, han chiamato altri rinforzi? 

Seguita da Michele, corse verso le auto e vide scendere il colonnello Fioroni. 

“Cosa ci fate qui? Han chiamato rinforzi?”.

“No, veramente. Siamo venuti a vedere cosa succede perché è arrivata una chiamata al 112”.

All’improvviso, Sandra sentì la voce di sua madre alle spalle.

“Generale, vi ho chiamato io”.

“Non sono generale, signora”.

“Non importa quel che è. Lei ha i gradi. Vi ho chiamato io. Siamo state aggredite dai poliziotti e adesso voi ci difendete da loro”.

“Noi, cosa?”, rispose il colonnello.

“Voi ci difendete dalla polizia che ha aggredito delle donne di ultra 50 anni indifese per far entrare quattro crumiri di merda. Lei ci deve difendere!”, urlò la Piera, impedendo al poliziotto che la bloccava di intervenire. 

Il colonnello restò a guardare la madre di Sandra, a bocca aperta.

Poi si girò e puntò diritto verso il commissario Rossi che seguiva le operazioni da distante.

Un fitto confabulare, poi il commissario urlò ai suoi: “Via, si va via”.

 I poliziotti si raggrupparono in due fila, al centro i venti crumiri di Acireale, impauriti e vogliosi di sparire quanto prima. Le donne si misero ad urlare circondando il gruppo che avanzava verso il piazzale. Ma nel piazzale non c’era alcun autobus ad attendere i crumiri, lasciati a terra dall’autista che aveva pensato bene di andarsene. Rossi ordinò ai suoi di camminare verso la strada principale, mentre via radio comunicava alla questura di inviare subito un autobus. E così si formò un insolito corteo con i venti operai scortati dalla polizia, e venti donne urlanti che li accerchiavano, aiutate dai ragazzi dei centri sociali e pure dai sindacalisti arrivati nel frattempo  e  anche dai mariti delle signore che erano arrivati con le vettovaglie pensando ad un’altra notte di occupazione. E solo così si spiega il lancio di uova sode contro i crumiri in fuga, che smisero di camminare e cominciarono a correre, inseguiti dai poliziotti e dalle donne e dai ragazzi e dai sindacalisti  e dai mariti. Arrivati all’incrocio, davanti avevano il traffico caotico del lunedì mattina e oltre la carreggiata, l’autobus in attesa. I poliziotti fermarono il traffico, le uova volarono contro i vetri del bus, i crumiri ci salirono dentro come topi in fuga dalla nave, e le donne finirono con il sedersi sulle strisce pedonali, protette da ragazzi, sindacalisti e mariti, urlando la loro rabbia cantando a squarcia gola “Bella ciao”.

 Sandra le lasciò su quel marciapiede e corse a preparare il servizio per il telegiornale delle 19 sulla battaglia delle ramazze, con gli ultimi aggiornamenti. La dirigenza della banca dopo la mattinata di guerriglia e le conseguenti polemiche, rescisse il contratto con la Intrepida e passò la commessa alla seconda arrivata nella gara, che assicurò l’assunzione di tutte le donne, alle stesse condizioni di prima. Alle 21 Piera e Sandra si riabbracciarono alla festa organizzata dal centro sociale. C’erano anche tutte le colleghe di Piera. Sul tavolo, tra bottiglie di birra e biscotti, la Gilda posò, ghignando, il suo personale bottino di guerra: un tronchesino. 

questa è una storia, i personaggi sono tutti inventati 🙂