Ha ragione la dottoressa

Se guardo dalla finestra, mi par di esser dentro la nebbia e invece è solo lo scarico abusivo del vicino che si è fatto la sauna in garage. E il fatto che sia abusivo rende più bello il tutto, mi pare. Questo scorcio di buio, là in strada, che vedo dalla finestra del terrazzo e questi grandi sbuffi di vapore che escono dall’angolo del garage, da quel tubo che i vicini dicono sia abusivo, mi piacciono.
A me, che quel tubo sia sprovvisto di autorizzazione, poco importa. Lo so che non dovrei far finta di niente. Io, non dovrei.
Ma mi mette allegria veder quel fumo bianco salir dall’angolo della casa di fronte, verso il cielo nero, perché è notte e fuori fa freddo e pure qua in casa, nonostante la caldaia lavori, oggi fa freddo. O sono io che son fredda?

Mi presento: sono Sabato Martina, anni 34, ispettore alla Polizia Municipale, in attesa di trasferimento al reparto Motorizzato. Single, come si dice oggi, ma sulla carta d’identità c’è scritto nubile. Ma se dico che sono nubile, mi guardano come fossi una strana. Nubile non si dice; si dice single, all’inglese.
Bah.
Dovrei dire invece zitella, me l’ha detto la psicologa la settimana scorsa.
“Guardi, il single è quello che sta bene da solo, nella sua condizione monofamiliare. Lei, scusi, ma alla condizione monofamiliare, mica ambisce, anzi le fa male, le sta stretta. Si dovrebbe dire che lei è una zitella, ma capisco che suona brutto”.
Ha ragione la dottoressa.
Ci riprovo.
Mi chiamo Sabato Martina, anni 34; agente alla Polizia Municipale, in attesa di trasferimento al reparto Motorizzato. Zitella.
Eh.
Secco, deciso, sincero. Cavoli, che presentazione…ma rischio di passar per una fallita e io non credo di esserlo. Almeno per otto delle 24 ore che compongono la mia giornata, io fallita, proprio no.
Io lavoro all’ufficio ambientale: compilo i rapporti e i verbali finali al termine dei controlli eseguiti dai colleghi che escono per le ispezioni.
Discariche abusive, abbandono di rifiuti pericolosi o sanitari. Violazioni al regolamento di igiene ambientale e a quello per la tutela degli animali. Io rileggo tutto, compilo tutto, preparo i fascicoli, poi li porto all’ufficio del pubblico ministero di turno, se serve, se c’è fretta. Oppure li spedisco via fax.
Adesso mi han accettato la domanda di trasferimento al Motorizzato, il reparto dove escono con le macchine e le moto per rilevare gli incidenti. Anche là, mi han già detto, dovrò occuparmi dell’inserimento dei dati. Nomi, cognomi, numeri di documenti, targhe, patenti. Rilievi, misurazioni, disegni da passar allo scanner. Codice della Strada alla mano, per controllare che i comma e gli articoli indicati sian giusti.
Son brava. Dimenticavo, sono laureata in Scienze politiche, voto 105.
Ho finito l’università sei anni fa e mi sono trovata a casa da mia madre che mi annoiavo. Lei ricamava, io mi son letta tutto il giornale e c’era l’articolo sul concorso per 20 posti da vigile urbano e ci ho provato. E ho vinto, sono arrivata prima. Chi dice che son una fallita, si sbaglia proprio. Per carità non sono una operativa, ho mansioni d’ufficio io. Ma mi va benissimo così: non porto la divisa ed è una fortuna perché il cappello mi sta davvero male in testa. E quando finisco il mio lavoro posso dimenticarmi di esser un agente della Polizia Municipale. Nel mio palazzo non lo sa nessuno che lavoro faccio e di conseguenza se c’è un tubo abusivo nel palazzo di fronte, da cui esce del vapore, io posso fregarmene.
Ah, dicevo del cappello. A me non stanno. Lo devo mettere solo per la festa del corpo, a San Sebastiano a maggio, quando partecipo alla cerimonia in basilica e alla festa col sindaco e mi tocca il picchetto d’onore, perché le donne son più carine e se stan davanti è meglio, dice il comandante.

Me l’ha detto anche il dottor Farfarti, che è meglio se stiamo davanti noi ragazze, che siam carine e abbiamo volti dolci e la gente non può far il gesto dell’ombrello a delle vigilesse dai volti dolci. Che si sa che noi vigili, mica siam simpatici…
Ha ragione il dottor Farfarti, che quando vado a bussar alla sua porta in Procura, in Cancelleria, è sempre gentile con me e mi chiede se voglio un caffè mentre controlla le carte che gli ho portato, e lo prepara lui, mica chiede alla segretaria. Chiude la porta, prende la cialda e la mette in una fessura della macchinetta grigia e rossa della Illy. Fa un rumore, una specie di clock, la cialda quando cade nella fessura, e poi esce il caffé, buono. E Farfarti si ricorda sempre che prendo il dietor e non lo zucchero normale, e me lo passa assieme al bicchierino e al cucchiaino di plastica. Che brava persona che è.
Si vede che è uno che conta in Procura. Che a volte se arrivo e lui in stanza non c’è, io lo aspetto fuori, in corridoio, e tutti al suo passare gli stringono la mano.
E se mi vede che lo aspetto, mi fa un sorriso grande, e mi lascia il passo per entrare e mi fa sedere e aspetta per sistemarmi la sedia.

Me l’ha chiesto, l’altro giorno, Farfarti se sono single. E mentre gli dicevo che sì, ero nubile e poi ho corretto subito dopo in single, e pure in attesa di trasferimento al Reparto Motorizzato, gli ho guardato la mano e non aveva mica la fede, quella da matrimonio, ma la pelle del dito era come scolorita, come se si fosse abbronzato con l’anello e poi l’avesse tolto.
E allora quando il dottor Farfarti mi ha chiesto se il caffè lo prendevamo fuori, che aveva voglia di quattro passi in strada, invece di berlo in ufficio, io gli ho detto di sì.

E quando al bar dalla Marisa, vicino alla Procura, ha insistito per pagare e mi ha detto che una bella ragazza, dal viso dolce, mai dovrebbe metter mano al portafoglio, io ho sorriso e lui mi ha detto che se mi faceva piacere, una sera, si poteva andar a mangiare una pizza assieme. E io ho detto di sì.
E intanto gli guardavo le labbra, che componevano, muovendosi , quella frase. “Se le va, una di queste sere, potremmo mangiare qualcosa assieme”.
La pizza l’ho aggiunta io, sottintesa. Che son abituata ad andar in pizzeria coi colleghi e al ristorante ci vado solo per il compleanno di mamma, a giugno, qualche giorno prima di San Sebastiano, che è la festa del corpo, e dopo il picchetto d’onore si va tutti in pizzeria.

Dicevo, gli guardavo le labbra, che si muovevano per parlarmi, e io pensavo che dovevano essere morbide quelle labbra, che non c’era segno di vecchiaia, che i denti erano bianchi. E all’improvviso mi sono chiesta, parlando tra me e me, in silenzio, come sarebbe stato baciarlo il dottor Farfarti.
“Chissà che sapore ha questa bocca?”, mi son chiesta. E, involontariamente, mentre lui parlava, ancora con il braccio appoggiato al bancone del bar della Marisa, ho allungato un dito e glielo ho poggiato sul labbro inferiore come si fa quando si toglie qualcosa che è rimasto sulle labbra di una persona che conosciamo. Solo che io devo averlo lasciato un pochino di più. E quando mi sono accorta che l’avevo sfiorato, involontariamente, il labbro inferiore, sono diventata tutta rossa, e ho nascosto subito il dito in tasca, con tutta la mano, ovvio, mentre il dottor Farfanti prendeva di corsa un fazzolettino di carta dalla tasca della giacca, convinto di aver la bocca sporca di caffè.
E poi con una scusa me ne sono andata via di corsa, gli ho detto che mi ero accorta che ero in ritardo e mi aspettavano in ufficio che c’era un verbale da registrare e l’ho lasciato lì, Farfanti, a guardarmi mentre scappavo fuori dal bar, urlando “comunque, grazie per il caffè, dottore”.
E in strada mi sono messa a correre e solo a quattro isolati dal bar, ho rallentato, ho respirato, ho tirato fuori la mano dalla tasca e ho guardato l’anulare e me lo sono portato al naso, prima, e alla bocca, poi. E ho leccato il mio dito. E ho sentito il gusto del caffè della Marisa, che era davvero rimasto sulle labbra del dottore, e l’odore del dopobarba Opium, quello che avevo sentito in profumeria dalla Marta, e mi sono fermata.
E sarà stato il profumo, credo di sì, ne sono convinta, se mi è venuta voglia di girarmi e tornare indietro, correndo, rientrare nel bar e baciarlo il dottor Farfarti.
Così, baciarlo, senza una parola.
Tirarlo per il bavero della giacca verso il mio petto, sfiorar con le mie labbra le sue, muovere lentamente la lingua, guardinga, per evitar una sua brusca reazione, annusarne l’odore lentamente. In silenzio. Lentamente, senza mai mollare la presa. Decisa, come solo può essere una donna che non si sente una fallita, mai.
E il bello è che mi son girata sul serio e mi son messa a camminare, a passo svelto, verso il bar. Sorridendo.

E poi l’ho visto, il dottor Farfanti, uscire dalla porta sottobraccio ad una ragazza, coi capelli rossi, il tacco alto, il tailleur grigio con la gonna così stretta che mi son chiesta pure se respirava o camminava solo. E ridevano, e lei scuoteva, ancheggiando sui tacchi, i capelli lunghi e lui la guardava. E gli ho visto lo sguardo al dottor Farfanti. Quello di chi si chiede che sapore hanno quelle labbra rosee, se sanno di menta delle Tictac o di tabacco, se quella fessura si schiuderà o rimarrà serrata.
L’ho visto il suo pensiero.
E poi ho visto il mio, che mi diceva di far dietrofront e camminare, di fretta, fino a quattro isolati più in là. Facendo finta di non averlo più un anulare.

Boh, c’ha ragione la dottoressa.
Mi chiamo Sabato Martina, anni 34; agente alla Polizia Municipale, in attesa di trasferimento al reparto Motorizzato. Zitella.

  1. mary chiarin

    mi piace molto il tuo racconto e mi piace il tuo modo di scrivere… io adoro leggere e spero vivamente che un giorno qualche editore decida di darti la fiducia che meriti!

  2. wow… 🙂 ti aggiungo ai miei preferiti, sì!

  3. i tuoi racconti non si possono commentare. allora solo: chapeau! sei sempre più brava.

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