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Doro

Io li ho visti, mamma e papà, fare quella cosa. Loro parlano sottovoce e lo chiamano amore. E’ un bel nome. Non c’è dubbio. Loro sono bravi coi nomi, a me mi hanno dato quello di Isidoro. Ma mi chiamano Doro. Che suona, se vuoi,  come D apostrofo Oro , che sembra che sono prezioso, io.

E invece sono solo trasparente.

Me lo hanno raccontato, mamma e papà, come sono nato. Dall’amore, mi hanno detto, e mi hanno pure spiegato come hanno fatto. Deve essere stata una giornata lunga, come quando fai il pane, che prima prepari la farina e la lasci respirare, poi ci metti l’acqua e cominci a impastare, con le mani, che devi averci ritmo e potenza, e sapere dove mettere le mani e andare via sicuro, magari anche se dentro tentenni, devi averci tanta voglia, di stare là ad impastare. E poi devi riposare, te e la pasta. Devi lasciarle il tempo di gonfiarsi, col lievito, e aspettare e poi dare un’altra impastata e poi via spezzare l’impasto e far le parti giuste, grandi come il palmo della mano, e  in forno, al caldo. E poi puoi solo aspettare. E godere del profumo che arriva, prima lento, e poi potente.

 Far l’amore, per noi trasparenti, è come fare il pane, hanno detto mamma e papà. Avevano voglia di raccontare, dopo mesi che io chiedevo e loro sorridevano e arrossivano a tavola così tanto che gli vedevo l’intestino borbottare. Che a noi, si vede tutto.

Amelia e Rodolfo, così si chiamano papà e mamma, mi hanno detto che farmi nascere è stato come fare il pane. Che erano a casa e stavano ascoltando la musica e si sono messi a ballare. Erano un po’ più giovani di adesso, e ballando, stando dietro al ritmo, si sono spogliati che volevano vedersi trasparenti. Lei si è messa attaccata al muro e guardava papà spogliarsi e vedeva la trasparenza, sotto, e ne sentiva la bellezza, e allora si è aperta la camicetta e ha messo la mano sotto e si è presa il cuore in mano, che pulsava caldo, e glielo ha passato. E lui ha preso con la destra il cuore di lei e con la sinistra, che è mancino papà, ha tirato fuori il suo e le ha detto: “Lo vuoi?”. E lei ha annuito. E così si sono scambiati i cuori e quelli stanno ancora là, uno nel petto dell’altra, a rintoccare, a ritmo. Secondo me, si chiamano, a vicenda.

E poi dal cuore son passati al polmone e la milza e il fegato, e via di scambio, e ancora la lingua, un braccio, la gamba sinistra. Uno di fianco all’altra, attaccati al muro, si guardavano con i loro pezzi mischiati, dentro,  e mamma mi ha raccontato che qualcosa, forse il pancreas di lui, che ce l’aveva dentro lei, le ha parlato e le ha detto di impastare e allora lei si è toccata, dai capelli ai piedi, e mescolava tutti quegli organi che non erano suoi ma lo erano diventati, e papà fremeva, che si sentiva tutto rovesciato dentro, e anche lui ha cominciato a fare la stessa cosa e alla fine  avevano voglia di attaccarsi, cuore con cuore, polmone con polmone, pancreas con pancreas, milza con milza. E son finiti sul pavimento, attaccati.

Di due cuori, mi hanno raccontano, ridendo, ne hanno fatto uno solo. E sono nato io. Doro.

Ho due cuori, uno attaccato all’altro, che battono uno dietro l’altro. Solo in ospedale si sono accorti del doppio battito, quando mi volevo iscrivere a nuoto e dovevo fare la visita per la sana e robusta costituzione, sennò in squadra non mi prendevano, anche se sono bravo. Il medico mi ha detto che io non posso nuotare, che con il doppio battito, rischio. Cosa? Non lo so, ha detto che ha paura che mi spengo.

Io sono uscito dall’ospedale triste, che volevo tanto nuotare come le rane e quello non mi ha dato il permesso. Ma a casa mamma e papà mi hanno spiegato perché ho quel doppio battito e mi hanno detto anche che per noi trasparenti, figli di trasparenti, nipoti e bisnipoti di trasparenti, è una cosa normale. Solo che viviamo tra persone che trasparenti non sono, e questa cosa mica la  capiscono e visto che loro sono di più, di numero, pensano che l’anormale è chi ha un doppio cuore e non un cuore solo.

Noi trasparenti, mi hanno detto i miei, siamo rimasti in pochi. La gente, mi hanno raccontato, ad un certo punto, non so in che secolo, ha avuto paura della trasparenza, del fatto che sotto i vestiti si vede tutto. I miei antenati sono scappati o li hanno uccisi, per paura. Loro, quelli con un cuore solo, sono i figli di quelli che hanno scelto di non essere trasparenti come noi. Si sono vestiti e hanno fatto sparire i colori. Quelli la pensano così: se sei colorato, si vede tutto e non sta bene.

Io ho detto a mamma e papà, dopo che mi hanno raccontato di come sono nato io, che sono stanco di girare sempre vestito, fuori casa. Ho capito che è per star tranquillo, ma non mi va. Io quando sento i primi raggi del sole, in primavera, voglio correre sull’erba e diventare verde come lei, e poi sdraiarmi e diventare rosa e poi fucsia e osservare la rana laggiù in fondo, vicino allo stagno e diventare blu. Io sono bravissimo, a diventare blu. Ma posso farlo solo nella mia cameretta. E senza rana, mica è la stessa cosa. Fuori casa non posso giocare coi colori. Altrimenti, dicono i miei, gli altri mi farebbero del male.

Enza, la mia compagna della scuola, a casa non può venire e quindi non le posso mostrare come divento blu. A casa i miei stanno trasparenti e hanno paura che se lei li vede così, prende paura.  Io gliel’ho detto a Enza, come faccio, che penso alle rane e all’erba e al raggio di sole, ma ho visto che lei non ci crede, che pensa che sono tutte fantasie. Io la sua faccia strana l’ho notata e mi piacerebbe stupirla e farle cambiare espressione. Farla sedere, spalle al muro e mettermi a ballare e poi diventare fucsia di colpo e poi blu. La scena me la faccio io in testa, da solo, nella mia cameretta, quando mamma e papà mi salutano e vanno a dormire. Che poi mica è vero. Io li sento ridere, di là, e sento il mio doppio cuore che  sobbalza con loro e penso che Enza dovrebbe starci qui, a vedermi cambiare di colore. Io potrei donarle il mio doppio cuore. Che lei è bella come una trasparente, anche se non lo sa. Poi mi immagino che lei sorrida e provi a togliersi il suo, di cuore, ma se non sei trasparente, mica è facile. Esce sangue, si sporca tutto, fa male. E quando arrivo a quel punto, che ho il mio doppio cuore in mano, e la guardo, così bella che mi spiace che non è come me, spengo il doppio battito. Con un click.

I provvedimenti del caso

“Rossaaaaaaa! Vedi che adesso ti fregano? E ti mettono in cella con me. Te l’ho detto… non ti conveniva parlarmi”.

Gino Frescobaldi, da dietro le sbarre, nella sala grande dell’aula bunker, scoppiò in una fragorosa risata. Il pubblico del processo a suo carico per vent’anni di associazione a delinquere di stampo mafioso, si girò verso la gabbia dei detenuti. Lui sfidò lo sguardo di tutti e tutti girarono la testa, di scatto, intimoriti, cercando la protezione della corte.

Il giudice Sangrilà stava parlando e per sovrastare la risata di Frescobaldi, dovette mettersi ad urlare. La corte, disse sbattendo il pugno sul  tavolo,  non aveva permesso alcuna ripresa e tanto meno interviste ai detenuti nella pausa del processo e quindi quei giornalisti, visti dalle guardie carcerarie intervistare il boss, dovevano essere tutti identificati dal maresciallo dei carabinieri per i provvedimenti del caso.

Frescobaldi salutò l’annuncio del giudice, ridendo di nuovo e voltandosi per prendere in giro a distanza Sandra Franti, la giornalista della tv privata Canale 99. Lei nel frattempo, nervosa, cercava di nascondersi tra il pubblico; il microfono portatile dentro la borsa.

Sandra era andata spavalda verso di lui, nella pausa del processo, per chiedergli cosa pensava del pentimento del suo ben più famoso compagno di scorribande in giro per il Veneto, il Marco, il boss dell’unica mafia non meridionale che si sia mai vista in Italia. Strano posto il Veneto. Tra polenta e scampi crudi, mentre si dava dei terroni ai napoletani che  lavoravano a Porto Marghera con le paghe conglobate, ci si era ritrovati a convivere con una mafia casalinga, mica foresta, nata nelle campagne tra Padova e Venezia, alimentata da fiumi di eroina e cocaina da piazzare per i festini tra Porsche e prosecco; praticata con il gergo della campagna e i continui favori del capo verso i compaesani più poveri. Prestiti, telefonate a medici compiacenti per facilitare una visita e posti di lavoro presso la rete di imprenditori taglieggiati.

Tanto che alla fine i vicini di casa, il Marco lo consideravano un santo, meno ammuffito e più immediato di Sant’Antonio da Padova.

Ma per ogni beneficenza, dagli anni Ottanta, in cambio, c’erano state rapine, rapimenti, omicidi, traffici di droga, estorsioni, vendette.

E il Veneto aveva scoperto, oltre al sesso a pagamento, pure il crimine.

Frescobaldi davanti a Sandra aveva fatto il duro. Aveva stretto gli occhi che erano diventate due fessure. “Sai cosa meritano le galline? _ le rispose evitando di guardar il microfono che lei gli puntava contro _ Di essere inculate. Beh aspetta che esco da qui, e vedi, rossa,  come me la inculo quella gallina”.

Poi non disse altro. Altri giornalisti avevano visto la Franti intervistare Frescobaldi e si erano lanciati per non perdere l’occasione, ma lui davanti alla decina di microfoni e telecamere che gli erano piombati addosso, disse alle guardie carcerarie che lo stavano infastidendo.

“Sandra è meglio se sparisci. Passa per il bar e vai via che oggi hai già fatto abbastanza casino qui”.

Il commissario Santi si era seduto dietro a Sandra e le  aveva appoggiato la mano sulla spalla. “Vai via, per favore”.

Lei si girò di scatto. Stava pensando alle parole del giudice e agli occhi chiusi a fessura di Frescobaldi.

Dicevano in questura che quando il Gino appoggiava la mano al fodero della pistola faceva così. Rideva e stringeva gli occhi. Guardava avanti a sé da due fessure. “Appena tocca il fodero, sei morto”, le aveva detto un amico poliziotto, oramai in pensione.

Risata, fessura, bang, morto.

A Sandra quella sequenza metteva i brividi e gli sembrava che i capelli sulla nuca gli si erano alzati per la paura. Quando vide lo sguardo affettuoso di Santi che le diceva di sparire, lanciò una occhiata a Michele, il cameraman, e si diresse senza indugi al bar.

Ma non prese niente, passò dal retro, corse verso la macchina della tv e mise in moto. “Via, in redazione”, disse a Michele che la guardava allibito. “Se restiamo qua, ci denunciano”.

Due settimane dopo in redazione, sul tavolo di Sandra la segretaria lasciò una lettera.

Il mittente era uno studio legale di Noventa Padovana. Sandra lo conosceva perché era lo studio che difendeva Frescobaldi e quelli della sua banda. Dentro la busta,  due fogli. Sul primo poche righe, scritte a penna, dall’avvocato Andreasi.

“Le invio una missiva per conto del mio assistito. Le chiedo di non renderla pubblica, visto che si tratta di comunicazioni di carattere personale. In caso contrario, saremo costretti a prendere i provvedimenti del caso”.

Era la seconda volta in due settimane che Sandra sentiva quelle parole.

I provvedimenti del caso. Ma il caso inteso come evento fortuito, senza motivazioni, quando hai a che fare con giudici e avvocati significa solo denunce e cause. Sandra pensò a come certe parole, quasi avventurose e piene di ipotesi, servivano solo a far intendere la certezza di una sequela infinita di casini, udienze e spese legali. Odiava il “formalese”. La chiamava così la lingua dei burocrati. Paroloni, ridondanti, gonfi di aria, usati solo per fartela pagare.

Prese il secondo foglio, era bianco. Non c’era scritto niente.

Ripensò alla risata di Frescobaldi. Fessura, bang, morto.

La stava prendendo in giro. Rimise i due fogli nella busta e la gettò nella borsa. La sera a casa, dopo cena, si ritrovò ancora tra le mani la lettera dello studio legale. La lesse di nuovo e girò il foglio bianco tra le dita. Frescobaldi le aveva mandato un avvertimento. “Mi vuole dire che non scriverò più”, pensò. Non si sarebbe lasciata intimidire, per così poco. Il giorno dopo avrebbe parlato al direttore, avrebbe pure chiamato il commissario Santi per informarlo e poi avrebbe telefonato ad Andreasi per dirgliene quattro.

Si sentì così più rilassata, prese una sigaretta e la accese usando il fuoco della candela alla citronella, che stava sul tavolino del salotto, e nello sporgersi con il foglietto in mano, per accendere la sigaretta, ebbe l’intuizione.

Mise la carta davanti alla fiamma. Era inchiostro simpatico. La calligrafia di Frescobaldi prendeva forma. Lui le aveva scritto usando una sostanza trasparente, del latte o del limone. Come si faceva da bambini, quando ci si doveva passare i segreti. Davanti alla fiamma, cominciò a leggere.

“Mia cara signora, scribacchina da due soldi, ho visto, grazie alle guardie, la replica del servizio che lei ha fatto durante il processo.  Non ho visto traccia della mia intervista. Evidentemente, la sua redazione ha pensato di portare rispetto al giudice e di non mandarla in onda. Peccato.

Marco doveva sentirmi. Io, prima o poi, me lo inculo. Col ferro.

E lui lo deve sapere mentre si sta gustando i suoi scampi crudi da qualche parte. Lei ha fatto la figura della donna per bene, che  rispetta le regole, mia cara signora dai capelli rossi. In altre occasioni la inviterei a cena per spiegarle che le regole sono inutili. Le fanno sapendo che saranno aggirate. Tanto vale, fregarsene.

Le metterei davanti, tra il piatto e il bicchiere, il ferro e le chiederei di ripetermi, guardandomi in faccia, che sono uno spietato, come ha detto nel servizio. Anche Marco lo è, solo che lui ha trovato il mezzo per esercitarsi senza sporcarsi le mani.  E adesso che si è pentito, si sente amato. Per me la cattiveria è un lavoro. Il ferro per me è come la macchina da scrivere per lei, signora. E’ un mezzo. Per intimorire, convincere, parlare, avere. 

Io con l’amore mi ci pulisco il culo, signora. Quindi la sua morale del cazzo, se la tenga per lei. 

La pietà l’ho persa, trent’anni fa, quando hanno ammazzato mio fratello, solo perché non aveva pagato la sua dose di eroina. L’ho visto morire senza un gemito, senza un ciao, senza un per favore, no. 

Andai da Marco e gli dissi che sapevo sparare, lui mi mise subito alla prova. Mi mandò in strada e mi disse di uccidere il mio cane. Io strinsi gli occhi e sparai. Neanche lui, Bubo, ha avuto il tempo di dire per favore, no. E’ lavoro, i sentimenti non c’entrano, signora. Quindi neanche a lei darò il tempo di chiedere per favore, no. Queste righe restano su questo foglio. E se le vedo altrove, prenderò i provvedimenti del caso. 

Cordialità

Gino Frescobaldi.

 

Sandra stropicciò la lettera tenendola stretta dentro il pugno e spense la fiamma della candela.

Risata, fessura, bang, morto.

(post scriptum: nomi e storie sono di pura invenzione, il Veneto malavitoso degli anni  Ottanta invece  è una realtà) 

 

L’amor proprio

Cara Ludovica,

quando leggerai queste righe io sarò già bella che andata. Ho lasciato sul letto il vestito marrone, quello con le spalline strette. Usa quello per vestirmi, tanto nella cassa mi dovete mettere e allora che si faccia, almeno, una porca figura.

Per favore, evita di mettermi le calze che anche se è inverno, la mia pelle sente solo l’estate. Evita di guardarmi, tra dieci anni, quando mi tireranno fuori dalla terra, se avrai l’orribile idea di farmi seppellire, dimenticando quello che io volevo. Ci saranno solo le mie ossa dentro quella cassa e non sarà un bel vedere.

Ti ricordi nonna Pina? Io c’ero quando l’hanno riesumata per spostarla nell’ossario. Era tutta raggrinzita con quelle calze di seta pesanti, che a lei piacevano tanto, color fumo di Londra, e il reggicalze nero. Nonna diceva che una donna era femmina, solo se lo indossava ogni tanto.

Io, di nonna, ricordo ancora i denti, tutti perfetti; non si sono consumati manco dopo 25 anni, tanti ne sono passati, quella volta, prima che mi apparisse davanti ossa e calze.

E visto che mi sono sempre sentita femmina senza, prima, non vedo l’utilità, dopo.

Mia anima, per favore, scuoti il capo, se diranno cose che non voglio sentire dire, e ricorda a tutti che io ho già deciso. Evita ai tuoi occhi sia la visione del mio corpo, quando mi avranno trovato senza fiato, sia la scellerata idea di mettermi a marcire nella terra, che mi è certo congeniale, e te lo sai , che mi sei sorella. Evita l’imbarazzo di un funerale vistoso con incensi e croci, che non ci sono tunnel a chetarmi, credimi.

Fammi ardere, che almeno resto al caldo. Che ho passato la vita a scaldarmi e perdere pezzi, lasciati dentro a comodini di case spesso estranee, alla ricerca di qualcuno che avesse la voglia di ricomporre il puzzle e appenderlo in salotto, per rimirarlo intero.

Ne sono certa, mancherebbe sempre un pezzo.

Io dell’amore ho avuto così tanto rispetto che mai ho puntato i piedi e mi sono sentita niente al suo cospetto e non ho chiesto e ho lasciato che chi voleva entrare, entrasse, e chi voleva uscire, uscisse.

Stamattina, alla radio, uno psicologo, manco ricordo il nome, diceva che l’autostima si alimenta fin da piccini, con le parole dei nostri genitori. E allora mi sono messa a cercarla, dentro di me, la stima, tra il pancreas e il colon, e quella non rispondeva ai miei richiami.

O era sorda o se n’era andata.

Poi mi sono detta, che se era fuggita via, sbattendo la porta, la sorda ero io. E se si era persa nei tanti pezzi di me che ho regalato in giro, non sapeva più darsi manco un nome.

Io, bimba cresciuta, guerriera stanca, mi sono persa nel cercar l’amor proprio, tra i pezzi masticati e leccati. E la camminata è diventata corsa frenetica e ho sentito, assieme al rintocco della vena della tempia, la voce di colei che dice che sono tutta  sbagliata e la carezza, carica di pena, di Piero, che non ha mai saputo tenermi.

E, sudata e fredda di mio, ho messo un piede dentro la vasca e ho aperto l’acqua calda.

Mi sono stesa e ho preso la boccetta dei sonniferi. Per deglutire le trenta pastiglie, ho scelto un Traminer aromatico. Non si dica che mi manca lo stile.

Per sicurezza, ho tirato anche un colpo di lametta sul braccio.

Mi sono rimessa a cercare e nella corsa mi sono addormentata, guardando il rosso del mio sangue fuoriuscire da me. E’ l’ultimo pezzo che va via.

Te  lo scrivo prima, che ho tutto in testa, come un filmato visto e rivisto, e fermato in ogni frame in sala di montaggio dal regista, per capire dove migliorare.

Solo che stavolta  si va via lisci, con la telecamera fissa sul rosso.

Te  lo racconto, prima di lasciarmi andare, perché voglio evitarti di vedere. Se te lo racconto io, sembrerà solo una delle storie che mi  piace raccontarti per farti addormentare. Te ti risvegli, io no.

Ti guardo intero

Guardo i tuoi occhi e ci vedo la laguna e mi sento cullare dall’acqua. Non torno bambina, mi sento donna, e l’acqua mi passa attraverso, mi rinfresca e mi allevia, mi libera e mi placa.

Guardo il tuo collo e ci vedo il vento e mi sento che mi muovo con te. E non sono altrove, ma sono qui, presente, cosciente, a desiderare e a muovermi, coscia  contro coscia, mano contro mano.

Guardo le tue gambe e ci vedo il sole e mi sento scaldata dall’affetto. Quello che mi dai e non mi dici e che mi lascia lì a chiedermi, poi, sudata, se è successo davvero o è solo quel che voglio, io, dare a te.

Guardo i tuoi piedi e ci vedo il cammino sull’erba fine e mi sento leggera. Ci possiamo andare senza scarpe, liberi e lievi, con la risata accanto senza zavorre inutili ad appesantire il piacere di stare.

Guardo il tuo culo e ci vedo il mondo, che vorrei far risuonare delle mie e tue risate.Sono qui a far l’amore con te, ti guardo tutto intero adesso e mi chiedo dove eri, ieri, che a ridere in due è meglio.

La buona creanza

In spiaggia fa caldo, sudo da tutti i pori che ho a disposizione. Potrei anche contarli tutti, che li sento, uno ad uno, mollare acqua dal mio corpo. Ma finirei con il dormire e lascio perdere.
Voglio prenderlo tutto questo sole e voglio godermela questa giornata.
Oggi compio 50 anni. E questo è l’unico momento di mare, con la pelle che sa di sale, che io posso concedermi quest’anno.
E’ dura vivere da precari, con contratti rinnovati ogni sei mesi, per telefonare alle signore all’ora di pranzo o alle nonne alla mattina
e proporre un viaggio di tre giorni, tutto incluso a 90 euro, a San Giovanni Rotondo per vedere il corpo di Padre Pio, per poi tornare a casa con l’ultima batteria di pentole in acciaio inox tedesco.  Questo è stato anche il mio ultimo stipendio, mi han pagato il mese con quelle. Ma sono così tante, che non so manco cosa cucinarci dentro. In frigo non ho così tanta roba.

Ad essere precari le ferie sono un ricordo, perché senza un guadagno vero non c’è quel sollievo al conto in banca, perennemente in rosso.
Non c’è serenità manco se vai a mangiare una pizza, perché il conto, poi, ti resta sullo stomaco più della pasta mal lievitata.
E allora oggi me la godo. In lontananza, verso il mare, vedo delle nubi nere, l’aria è pesante e afosa. Ho i capelli, che sembrano paglia bagnata.
Il vicino di ombrellone guarda l’orizzonte e poi si gira verso di me.
Mi sa che arriva il temporale, mi dice.
Io non mi scompongo, non muovo un muscolo.
Io resto qui, gli dico, senza manco girarmi a guardarlo. Sto bene su questa sdraio di plastica che cigola sotto il mio culo, con il libro che penzola dalla mano, l’occhiale scuro che scivola sul naso sudato.
Una goccia di sudore cade dal mento e lenta, si incammina lungo la pancia, forma una piccola pozza dentro l’ombelico.
Respiro fortemente e tiro dentro la pancia e la goccia scivola giù, a fatica, e si ferma sull’elastico dello slip.

Arrotondo tre sere la settimana servendo birre in un locale vicino casa.
E’ un lavoro noioso; io non parlo molto, che son sempre a farmi i conti in testa, e poi ci sono quelle tre ragazze slave che ballano sul palo che mi prendono in giro, che dicono che sono brutta e ho la cellulite sulla pancia.
E’ la parte di me che odio di più. A volte, sogno che con una pialla mi siedo in cucina, nuda, e tiro via tutto questo flaccidume che ho davanti e mi limo e la pancia non c’è più. E la pelle è tirata.
Io ci soffro quando quelle mi prendono in giro, perché io brutta mi vedo tutti i giorni mentre loro mi vedono solo tre volte la settimana. Devono esser stronze, dentro. Voglio vederle a 50 anni.

 Io non rispondo alle loro offese, abbasso gli occhi e pulisco il bancone.
Ma gli nego il bere sottobanco, mentre il proprietario non vede. Se chiedono, devono pagare. Come tutti.

Son immobile su questa sdraio che è la mia unica vacanza estiva e lo sento che il peso, che ho dentro e sulla pancia, potrebbe farmi cadere da un momento all’altro. E non ci sono mani, pronte a sollevarmi, che non siano quelle che muovono gli atti della buona creanza.
Sorrido, nel ricordare l’incubo di bambina che tenta di esser perfetta. Mi diceva mia madre: questo no, quello no. Non si fa e non si dice e se vuoi dirlo lo dici solo tra i quattro muri tuoi, meglio se da sola.
Mi ha educato con lo scalpello dei sensi di colpa. Comportati bene, Maria, me l’ha detto anche prima di morire. Usa la creanza, e vedrai che la vita ti sorride. Solo in Veneto potevano venirsene fuori con una parola così, la creanza, ovvero l’essere per bene. Ma solo agli occhi degli altri.
Io a 50 anni, con un lavoro che saltella e una vita stanca, un marito che mi ha mollato per una cecoslovacca, della buona creanza non so più che farmene.

L’ho data via. E  poi, a dirla tutta, sarò anche brutta e con la pancia che non so dove nasconderla, ma quando Attilio arriva a suonare alla mia porta di casa, io mi sento che non son proprio così fatta male. Dentro e fuori.
Attilio, pensionato e vedovo, l’ho incontrato al bar. Abita a due isolati da casa, mi fa compagnia tutte le sere. Si accomoda al bancone, chiede una Sambuca con la mosca e ogni tanto ci parliamo. Mi racconta la sua giornata, io finisco a volte a far i conti delle spese ad alta voce e lui mi dà una mano con le addizioni. Anche lui ha la pancia. All’inizio pensavo gli facesse schifo, ma a lui interessa altro.
E io glielo do, l’altro, e mando a quel paese tutta la più buona creanza. La prima volta che mi ha chiesto se facevo una cosa per lui, mi aspettavo che mi chiedesse soldi. Anche lui non se la passa bene.
Quella sera si era offerto di portarmi a casa in macchina e visto che nel locale c’erano dei tipi che non mi piacevano, gli ho detto di sì. E in macchina mi ha chiesto se facevo quella cosa. E io mi sono girata e gli ho tirato uno schiaffone, con tutte e cinque le dita rigide.
“Screanzato”, gli ho urlato.
Che la creanza lui non ce l’aveva mica nel domandarmi una cosa simile. A settant’anni.
“Me la fai annusare?”, ripetè, lui, tenendosi il viso. Ma lo disse con un tono di voce più profondo e forte, quasi arrabbiato.
E io rimasi a pensare a tutte le volte che avevo fatto le cose con modo, senza mai andar contro la mia condizione di figlia di cristiani che andavano la domenica a messa e mai hanno bestemmiato, in pubblico. E mai si sono sfiorati, in pubblico.
E l’ho portato dentro casa, mi sono stesa sul letto, ho tolto le mutande, ma ho lasciato la gonna e pure la cintura, quella elastica che mi serve per nasconder la pancia. E Attilio è rimasto fermo, in piedi, a fissarla. E io ho chiuso gli occhi, che avevo vergogna. E lui non si è mosso. Io allora ho riaperto gli occhi e ho pensato che guardava la pancia, da sotto la gonna alzata e invece lui guardava giù, tra le gambe. E aveva gli occhi dolci.
Mi ha detto che non era mica vecchia e brutta, pareva la vagina di una quarantenne. L’immaginava sempre umida.
Io gli ho risposto che non sapevo, francamente.
Allora Attilio ha preso la seggiola vicino al letto, si è seduto appoggiando le mani al materasso e ha guardato. E poi mi ha detto: toccati.

Erano così tanti mesi che non lo facevo, che stavo sempre a far i conti, e allora ho mosso lentamente il dito per sfiorare la clitoride e il fremito mi ha fatto tornare la vergogna. Ma ho continuato  a muovere il dito, più veloce e poi andavo a sfiorare l’ingresso, mettevo e toglievo il dito e poi l’ho lasciato, dentro  e  sentivo sobbalzare.
Ho smesso di annotare spese, bollette, scadenze, l’affitto quando Attilio si è fatto avanti e ha appoggiato il naso tra le mie gambe. E tutto l’odore se l’è preso lui e se ne è andata anche  l’ultima buona creanza che mi era rimasta.

Per ordine del partito

Avevamo organizzato tutto, per bene. La gelateria era bellissima, un posto dove i ragazzi del quartiere potevano stare ogni sera in compagnia, mentre i genitori andavano a ballare il liscio. C’era la Coca cola, due tipi di birra alla spina per i più grandi. Avevamo già dato tutti i nomi alle coppe di gelato: c’era la Berlinguer, panna e cioccolata. La Cuore, dedicata al meraviglioso inserto de L’Unità, con il melone, le fragole e il curacao, quella sostanza azzurro puffo che mai ho capito bene a cosa serviva davvero. Dicevano che era perfetta per i cocktail e allora io dissi alla Rina, la più grande del gruppo, che dovevamo anche inventarcene qualcuno per i clienti più esigenti, che anche se stavamo in campagna, ed eravamo tra compagni, ci voleva un tocco di classe.

Allora mandammo a cercare il Mirco, per il test.

Un mese prima avevamo organizzato una festa di quartiere, due giorni di musica e bar a prezzi popolari, e avevamo testato così l’organizzazione della gelateria. Solo che la festa era contro gli spacciatori e quelli arrivarono di notte a bruciarci il tendone.

Un avvertimento, dissero alla sezione “Di Vittorio”. Ma dopo un mese e con i preparativi della festa alle porte, oramai non ci pensava più nessuno agli spacciatori e alle lamiere bruciate del bar dei “ bocia”. C’era la gelateria da allestire e mio padre, segretario della sezione, girava per il tendone scuotendo la testa.

“Chi fa le notti, pure qua?”.

“Noi”, gli urlai contro mentre controllavo lo scatolone con gli ombrellini di carta per le coppe di gelato. I ragazzi applaudirono con un urlo: “Sìììììì, facciamo noi la prima notte. Saremo svegli e attenti”, urlò Dante, contento come una Pasqua.

Le notti erano i turni di guardia per presidiare l’area della festa dell’Unità, quando era chiusa. Ogni anno la sicurezza veniva aumentata, sempre senza spendere un soldo perché si lavorava gratis, per la Gloria, si diceva. E tutti a chiedersi se era figa, poi,‘sta Gloria.

Si aumentava ogni anno la sorveglianza perché dalla cucina, di notte, sparivano baccalà, pacchi di farina, il pesce custodito nelle celle frigo. Pure le damigiane si erano fregati.

“Te vai a casa con tua madre”, fu la risposta di mio padre.

Ci volle una serata di pianti a dirotto e implorazioni per convincerlo che la prima notte di guardia alla gelateria l’avremmo fatta noi ragazzi, tutti e dieci, nessuno escluso. Età media, 15 anni. La Rina, pochino di più.

“Sì, va bene. Ma dovete comportarvi bene, capito?”. Mio padre era uno dal cuore d’oro e dalla parlata ringhiosa, che andava ascoltato; sapeva farti male senza neanche far partir lo scapaccione sul culo. Solo l’idea che lo schiaffo era in arrivo, nell’etere, bastava a provocar dolore.

“Giuro che saremo bravissimi, papà”, promisi con il miglior sorriso.

Alle 18 del giorno di inaugurazione, arrivò il Mirco, giubbetto di jeans, e pantaloni stretti, in bicicletta.

“Uhe, compagni. Prossima settimana parto, vado alle Frattocchie. Compris? Sì, vado alla scuola del partito, si cucca un casino eh. E poi divento dirigente nasionale”. Mirco era un piccolo mito, per noi ragazzi della FGCI, che non era la federazione giuoco calcio, ma la federazione dei giovani comunisti. Dei figli dei comunisti. Noi eravamo rimasti intatti.

Mirco aveva vent’anni, chiamava tutti compagno e compagna, era eccentrico e alto una spanna, con la camminata da spaccone e il cuore d’oro. Amava le donne più di se stesso, e si sacrificava per la causa del partito.

Tutti lo vedevano passare e pensavano al furto, da lui ordito, alla  manifestazione studentesca dello striscione degli anti-social. Al corteo seguente, volarono pugni, finché il Mirco e lo striscione non vennero lanciati in campo San Geremia dentro l’ala controllata dagli autonomi. Lui si sacrificò, mormorando solo “Viva el Che”.

“Cosa devo fare?”, ci disse appena arrivato dentro lo stand della gelateria.

“Assaggiare. Che te ne sai”, rispose la Rina, con la shaker in mano.

E cominciò la prova generale dei cocktail da scrivere sul menù.

Paietta, rhum e cola. Poi tutti lo chiamarono Cuba libre.

Ingrao, vodka lemon.

Internazionale, curacao, southern confort e arancia.

Mirco assaggiava e diceva che andava bene, al primo colpo. Rina shakerava e aumentava le dosi. Lui gustava, di nuovo, con posa da sommelier esperto e diceva: “Aumenta un attimo ed è perfetto”.

Io, nel frattempo, gestivo la distribuzione di coppe Gelato e c’era il rosso, la teppa del quartiere, appollaiato al bancone a fissarmi senza parlare, e io mi sentivo per la prima volta femmina, non donna, che é un’altra cosa, ma allora capivo solo la sensazione, non il significato.

E la Rina mi dava di gomito, dietro il banco.

“Al rosso, cavoli se piaci”, mi diceva e io la guardavo strana: “Ma, se non mi parla”. La Rina, allora, smetteva di shakerare e mi fissava: “Sì, ma el varda. E dove xe ben”.

La prima sera scivolò via, tra errori e risate, occhiate del rosso e commenti etilici del Mirco. A mezzanotte, crollammo tutti spossati sulle seggioline dello stand. “E’ andata, adesso tutti svegli, eh, che abbiamo una notte di guardia da fare”, dissi ai ragazzi.

Il rosso andò silenzioso, come era venuto, scopato via assieme alle immondizie della chiusura.

Mirco, ubriacato dalle pozioni della Rina, stramazzò su una panchina.

Mio padre, arrivato per l’ultimo controllo, prima del rientro a casa con l’incasso della festa, lo guardò dormire e sentì dentro un moto di affetto.

“E’ stanco il compagno? Deve aver lavorato tanto”, disse.

E noi, annuimmo, trattenendo paura e risate.

Poi lo guardammo, il Mirco che dormiva con la bava alla bocca. Noi quindicenni avevamo sonno quanto lui, non capivamo mica chi ce lo faceva fare di restare tutta una notte svegli a far la guardia al campo della festa, noi eravamo bambini, figli di comunisti che le ferie le usavano per far la festa dell’Unità e dopo dieci giorni finivamo intontiti a sentir nelle orecchie solo Inti-Illimani e  liscio che non ne potevamo più, di charango e zumpapa.

Perché la notte? Per esser grandi e liberi, per sentir che contavamo. Restammo tutti e dieci e per sconfiggere il sonno, Niccolò, figlio del Gino e della Ida, lanciò l’idea. “Perché non giochiamo a rugby nel campo? Come palla, usiamo i meloni”.

E così alle due di notte, nel campo della festa dell’Unità iniziò la sfida. Ragazze, cinque. Ragazzi, cinque. Mirco, squalificato per manifesta incapacità. Obiettivo: fare meta allo stand della cucina.

Passa e corri, passa e lancia, ocio, spetta, varda mona, tira qua, tira là, ridi e scherza. A correre con il melone sotto il braccio, avanzato dopo una serata di coppe gelato con la frutta, ci sentivamo tutti bimbi felici.

Un passaggio eccessivamente veloce di Niccolò, intercettato dalla Rina, portò allo schianto del melone al suolo, con conseguente squarcio, e risate di condimento. Non avete mai visto un melone esplodere? Non potete capire. Ci ritrovammo in centro al campo, in dieci, a ridere a crepapelle, tutti sporchi di pezzi di melone e finimmo in gelateria a bere, che avevamo sete, ma l’unica cosa fresca era la birra rossa e andava giù che era una meraviglia. Era agosto e faceva caldo.

 Mettevamo ad ogni giro pure i soldi in cassa, che eravamo figli di compagni e non si mangia e non si beve a scrocco, al massimo ci si fa lo sconto. Di sete ne avevamo  così tanta che Mirco ci svegliò la mattina dopo alle otto e noi eravamo tutti stesi a terra, dentro la gelateria, abbracciati uno con l’altro. E lui urlava e noi non sentivamo. Eravamo felici dentro, ne sono sicura. Ci sentivamo compagni, figli di compagni, parte di un qualcosa di vero e che si toccava con mano, e se passava per Guccini e gli Inti-Illimani, valeva la pena.

 Quella notte rubarono tutte le costicine. Entrarono nel campo e si portarono via la carne dal frigo, mentre noi ci riposavamo dopo la partita a rugby col melone.

Nessuno di noi ammise il gioco, ma i pezzi di melone e il fusto di birra finito, ci giocarono contro.

Da quella notte, per ordine del partito, ai ragazzini le notti di guardia in festa furono vietate.

Il cuoco sa aspettare – visto da Elisa Gianola

A me gli esperimenti piacciono. Un racconto letto e interpretato da una  fotografa.

Questo è ben riuscito. 

foto di Elisa Gianolla

La carogna

Edoardo si accese una sigaretta, poi andò a cercare la coperta che teneva sulle ginocchia per tirarsela verso la pancia. Dopo una giornata caldissima era arrivato chissà da dove un venticello fresco, quasi screanzato e sentiva i brividi addosso. Era mezzanotte ma Edoardo voleva restare ancora seduto in veranda a sentir il rumore degli alberi.

Dei passi nel prato davanti casa. Edoardo girò la testa, fermò la mano che stava portando la sigaretta alla bocca. “Chi è?”, disse guardando in direzione degli alberi. Non ottenne risposta. Eppure il rumore l’aveva sentito. Passi lievi di piede leggero che cammina a piedi nudi sull’erba bagnata della sera. Passi convinti di chi non sta cercando di non farsi sentire. La camminata di chi non ha paura. “Chi è ?”, tornò a ripetere.
Ottenne solo il silenzio come risposta.
Poi sentì caldo al viso, la sensazione di una mano che sfiora guancia e capelli. “Emma, sei tu?”

Edoardo si portò le mani agli occhi, con un moto di stizza. Si stupì di ricordare ancora quel nome. Avrebbe voluto cavarli e lavarli, uno ad uno, quegli occhi che non servivano a niente.Si mise a girar la testa da un lato all’altro della veranda, come se nell’oscillazione nervosa qualcosa si potesse intravedere. Un bagliore, un movimento. Niente, c’era solo buio. E la carogna, dentro.

Si alzò di scatto dalla sedia e andò, con le mani, a cercare il bastone appoggiato alla balaustra. Cominciò a camminare su e giù per la veranda. Il bastone picchiava a terra, sul legno del terrazzo, con colpi irrequieti. Dentro gli stava montando quel fastidio, quel bisogno di distruggere. Gli sarebbe piaciuto aver in mano un bastone grosso, nodoso, e cominciar a tirar colpi al cielo, agli alberi, ai pensieri strani che gli passavano per la testa. Fino a romperli, uno per uno. Si ritrovò davanti alla sedia, la riconobbe dal suono diverso del colpo del bastone sul legno. E allora tirò un calcio, fortissimo, che fece volar a terra la sedia, con un botto rumoroso. Girò la testa verso il giardino, cercando di respirare. Doveva calmarsi. Avrebbe pagato _ pensò _ chissà che cosa per vedere un lampo di luce, un raggio di sole che gli facesse lacrimare l’occhio, un colore.

La pelle di Emma. Ancora lei. Per alcuni giorni, dopo l’incidente in moto, gli amici gli avevano portato sue notizie. L’avevano vista al mare, dal giornalaio, al bar. Gli occhi bassi, coperti dagli occhiali. Piangeva.
Ernesto lo prese in disparte: “Se vuoi vado io, le spiego tutto e la avviso che sei in ospedale. Te la porto”.
Ma Edoardo lo zittì: “Non è importante, io non ci penso. Perché dovete farlo voi?”. E così i discorsi, cadendo nel buio, finirono con l’essere dimenticati. Il buio si era portato via tutto, come quando butti la sigaretta nel cesso e tiri lo sciacquone.

Edoardo sentì la carogna agitargli le budella. Provava odio. Per tutto. Persino per il nero che gli era amico fidato. E si ritrovò a pensare che avrebbe volentieri spaccato qualsiasi cosa pur di riveder quegli occhi verdi, i capelli castani, il naso. Avrebbe buttato giù un muro a testate pur di rivedere quel culo che gli sorrideva sempre. L’aveva sognato, qualche volta, e si era eccitato anche se era solo in penombra. Per calmarsi aveva dovuto masturbarsi. Emma gli aveva fatto da subito quell’effetto. Lei gli era apparsa davanti un giorno. E lui da quel momento aveva sentito solo fame. Delle labbra di Emma, del corpo di Emma, del suo odore. La faccia in mezzo alle gambe.

“Basta”, urlò Edoardo verso gli alberi nel giardino e si mise a sbattere il bastone, una, tre, venti volte, contro la balaustra della veranda. Lei era solo un passatempo. Non era bella, non era dolce, non aveva uno sguardo che lo spaccava. Non era vero che ogni volta che la sfiorava e la sentiva ridere, si sentiva fatto di vetro e che quando lei lo stringeva forte e gli ansimava all’orecchio, lui si sentiva pane. Non aveva fame, non voleva sfamare. Non sentiva niente, non voleva niente. Portò la mano, tra le gambe, sentì la carogna gonfiargli il cazzo e fargli male. Scosse la testa velocemente. Solo il buio poteva calmarlo.