La prima volta era successo con un paio di mutande, di cotone, grigie. Lui le aveva lasciate sul pavimento, a fianco del letto, e lei, che si era alzata per andare al bagno in piena notte, le aveva calpestate. Poi le aveva raccolte e annusate e ci aveva ritrovato il suo odore. Un misto di melissa e pepe bianco.
Quell’odore la lasciava senza fiato, capace solo di chiedere, a voce bassa, ancora. Spesso ci aggiungeva un per favore.
Stringeva le mutande tra le mani quando si mise a sedere sulla tazza del water e fu un gesto istintivo allungare il braccio e metterle nel primo cassetto a destra del mobile del bagno.
Due giorni dopo, cercando una forcina per i capelli, riaprì quel cassetto e ci trovò dentro le mutande grigie e si disse che era stata sicuramente colpa della sonnolenza se erano lì dentro.
Lui, alcuni giorni dopo, tornò ma lei non gli disse niente e manco gliele restituì. Fece solo finta di non ricordarsene più.
Invece, quando era sola, ogni tanto apriva il cassetto e toccava le mutande e sentiva più lieve l’assenza di lui che era sempre in viaggio e solo ogni tanto, quando poteva, tornava. Dopo le mutande di cotone, fu la volta della maglietta bianca, del fazzoletto con le iniziali ricamate, della cravatta blu e di un calzino nero. Tutti finirono nel cassetto del bagno, a farsi compagnia.
Un pezzo di cotone non fa un corpo; una cravatta non ricrea un volto che rasserena. Lei lo sapeva e si sentiva stupida a praticare questa sorta di cleptomania amorosa, ma quando arrivava la smania dell’arraffamento lei sapeva solo agire, lasciando i sensi di colpa e la vergogna ai giorni successivi. Quando era sola e apriva il cassetto, l’euforia del ritrovare intatto l’odore di lui, giustificava, man mano che la consapevolezza cresceva, il senso di vergogna per la sottrazione. Talvolta, però, il rossore le accendeva il viso quando incrociava il suo stesso sguardo allo specchio, mentre annusava la maglietta bianca di lui.
Allora doveva richiudere in fretta il cassetto e non pensarci più, alla smania.
Non aveva mai rubato niente nella sua vita, neanche una caramella dal cesto sul banco del panificio dove andava, quando era piccola, a comperare il pane. Al cesto non ci arrivava e lei lo fissava dal basso e se lo immaginava pieno di dolci succosi e grossi, da masticare lentamente, con la guancia gonfia di piacere. Un giorno, una signora urtò il cestino e le caramelle caddero a terra, spargendosi sul pavimento, e lei, incitata dalla madre, le raccolse tutte e poi le passò alla signora, affinché le mettesse a posto. Uscendo si accorse di una caramella finita vicino alla porta e la prese. Aveva una gran voglia di sentire che sapore aveva. Ma sua madre, che non la perdeva mai di vista, le ordinò di consegnare la caramella e lei subito, ubbidiente, la rimise sul pianale del bancone senza alzar lo sguardo verso il panettiere che la invitava a tenerla.
Crescendo si era sempre comportata bene, senza una marachella, una piccola follia.
Era una persona per bene. Si era laureata con il massimo dei voti, aveva trovato un posto da segretaria in una azienda e si pagava il mutuo dell’appartamento, comperato a Marcon, in quello che era un paesino destinato a diventar anonima periferia della grande città. Alla soglia dei quarant’anni si sentiva, a volte, una donna noiosa, che non aveva provato mai l’euforia di un gesto non dettato dal suo cervello fin troppo ben educato.
Si sentiva una che non aveva mai vissuto davvero, che non sapeva cosa fosse l’euforia.
La pensava così davanti al caffè della mattina, nelle giornate freneticamente noiose, che seguirono, finché non incrociò lui. Erano uno a fianco all’altra al bancone del bar davanti al tribunale. Lui beveva un cappuccino, lei il secondo caffè della mattina. Lui la fissò per un attimo, lei si sentì osservata e girando lo sguardo lo vide sorridere prima di andarsene.
Lei sentì il cervello spegnersi, e qualcos’altro tirare, dentro, come un filo che imponeva un sussulto, ritmico, dalla vagina fino alla pancia, e si mise a camminargli dietro, seguendo i suoi passi e conteggiando il numero di strattoni interni, finché non vide dove lui lavorava. E poi tornò indietro da sola, pensando nei giorni seguenti spesso a quel sorriso, e ritornò altrettante volte sui passi compiuti, frenetici ma non più noiosi, finché non lo incrociò di nuovo, per strada e lui le sorrise ancora, passandole a fianco e poi si girò chiedendole se aveva bisogno di aiuto. E a quella domanda, gli strattoni interni tornarono a farsi sentire e lei si udì perfettamente dire: “ Cercavo te, in verità”.
Quei sussulti interni tornarono, poi, ogni volta che lo vedeva, lo sfiorava e chiudeva gli occhi. Duravano, fin quando, sfinita, gli si addormentava a fianco dopo avergli chiesto ancora, per favore. Ora resistevano anche all’oblio della sua partenza, al corpo che si fredda e rallenta il sussulto mentre il cervello cerca di riguadagnarsi lo spazio che conviene.
Bastava aprire il cassetto, ammirare il bottino, annusarne il profumo e il ritmo tornava, tra vagina e pancia, a scandire le ore.
È bella, mi piace questa storia.
il ritmo tra vagina e pancia … superbe!!!
mitia mi emoziono sempre tanto quando leggo le tue storie. le storie di queste donne mi fanno sentire meno sola 😀
grazie claire sei sempre gentile con me, smack
la storia è bellissima. Commento in ritardo, lo so, ma è bellissima.