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Ottanta lettere

Le aveva scritto 80 lettere d’amore, ognuna per ciascun giorno che seguì l’unica notte che lei comparve alla porta di casa sua e chiese di entrare.
Andò diritta verso la camera da letto e si stese sul lenzuolo, vestita, e gli disse che sentiva un dolore, strano, che non sapeva spiegare.
E allora lui si stese accanto a lei ed era così agitato per la sua presenza, lì vicino, che si mise a chiederle, con insistenza, dove era che sentiva male. E lei gli prese la mano e la appoggio alla pancia e gli spiegò che era proprio quello il punto in cui sentiva quel vuoto che voleva portar via tutto. Lui, agitato, pensò di fare l’unica cosa possibile. Tenne la mano bella larga a fermar quel vento che voleva venir fuori dalla pancia di lei. E ci rimase così fino al mattino, anche se la mano gli faceva male, la sentiva pesante e la circolazione rallentava. Anche se sentiva il suo respiro silenzioso e avrebbe preferito con quella mano accarezzarle i capelli biondi, per ore.

All’alba lei riaprì gli occhi e lo ringraziò con un bacio. Poi gli disse che il vuoto era scomparso, e con lui il vortice cattivo. Era fortunata di poter contare su qualcuno come lui, che la ascoltava in silenzio e le metteva la mano per fermare il dolore, quando serviva. Lui le disse che, se lei voleva, lo avrebbe fatto ancora.
Ma lei si alzò dal letto, andò in cucina a preparare il caffè e poi a lavarsi il viso nel bagno di casa mentre lui era ancora a letto a sfiorarsi le labbra calde per quel bacio inatteso e pure così sperato. Quando la moka brontolò sul fuoco, annunciando che il caffè era pronto, lei se ne era già andata senza un saluto, senza una parola.
Lui sentì il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva mentre si alzava dal letto per andare a spegnere il fuoco. Era rimasto da solo, con la mano indolenzita e un mal di stomaco che montava, dentro, come se avesse mangiato della spugna espansa. Lasciò il caffè dentro la moka a freddare e cominciò a scrivere su un tovagliolo di carta.
Le scrisse che quel bacio gli aveva aperto un buco nella pancia e che non sapeva adesso come riempirlo, quel vuoto, senza la sua mano appoggiata al suo addome. Le scrisse che quel bacio, inatteso eppure così sperato, gli aveva messo dentro una fame che nessuna pietanza poteva placare. Poi prese il tovagliolo di carta e lo infilò dentro la fotocopiatrice, per copiarlo sul cartoncino giallo che usava per scrivere ai clienti. Infilò il foglio in una busta e uscì sul pianerottolo di casa. L’appartamento di lei era giusto davanti al suo. Si erano incontrati per giorni e giorni solo al mattino, per uscire e andare al lavoro. E si erano detti per giorni solo Buongiorno, come va? Visto che pioggia che c’è?
Erano andati avanti così fino a quella sera, quando lei scelse di bussare alla sua porta e entrare. Da allora tutte le mattine, al risveglio, dopo averla sognata, lui le scriveva una lettera e la infilava sotto lo zerbino davanti alla sua porta. Poi rientrava e si preparava il caffè. Caldo, solo così aveva ragione d’essere.
Lui aveva costantemente quella fame addosso che nessun cibo riusciva a placare e solo scriverle lettere d’amore, in cui le raccontava le ore notturne passate a sognarla, i giochi, i baci e la sua vita prima di sfiorarla, quella notte, sembravano chetarlo un pochino.
Passarono ottanta giorni, ottanta lettere sotto lo zerbino, senza che lei mai una volta tornasse a bussare alla sua porta. O gli dicesse qualcosa, oltre al buongiorno mattutino, quando si incrociavano per le scale.
Era come se non fosse accaduto nulla, come se quella notte non ci fosse stata e come se non ci fossero state quelle lettere.
Arrabbiato, pensò che l’indifferenza era figlia solo di un impeto di fantasia, che l’amore era solo inventato.
Allora, in preda ai dolori per la fame e con lo spasmo dello stomaco che sembrava urlare come la bora, lui prese tutti gli ottanta tovaglioli di carta che aveva raccolto dentro una scatola da scarpe. Infilò il berretto in testa, indossò il giubbotto e uscì. E andò in quel ramo del canale vicino a casa, dove da piccolo suo padre non lo lasciava mai andare perché la gente del paese diceva che lì, sul fondo del canale, c’erano alghe così lunghe e così fitte, che arrivavano a misurare decine di metri e se ci cadevi dentro era impossibile uscirne vivo. Solo le anguille potevano sopravvivere.
E visto che era tutta una fantasia, lì avrebbe fatto morire la sua.
Prese la scatola da scarpe, tolse il coperchio e lanciò dentro l’acqua gli ottanta tovaglioli di carta e li guardò galleggiare per un pochino e poi, gonfi di acqua li vide scendere giù verso il fondo scuro. La rabbia lasciò il posto alla tristezza.
Lui se ne tornò a casa e se ne andò a letto, sentiva dolori ovunque e dormì fino a sera, nascondendo la testa sotto le coperte, perché quella casa gli sembrava così fredda, senza più parole d’amore.
Fuori fischiava la bora, fredda e vendicativa.
Il giorno dopo un pescatore che era andato a controllare la sua barca, per trainarla sulla riva del canale, lanciò l’allarme. In mezzo al canale era spuntato un albero, enorme e brutto. Le alghe si erano intrecciate una all’altra e le vesciche, dopo aver cercato invano uno spiraglio di luce, sotto la coltre di tovaglioli di carta sciolti dall’acqua, appena sotto la superficie, avevano puntato diritte al cielo per farsi strada per più di cinque metri, portandosi dietro le sorelle più piccole e verdi e quelle più vecchie e marroni e le parole dai tovaglioli avevano finito con il passare su ogni alga, come tatuaggi scuri.
Ora l’albero così strano e brutto a vedersi, si stagliava nel mezzo del canale e bloccava il passaggio a tutte le barche e c’era la processione di gente curiosa che voleva vedere. C’era chi passava tutto il pomeriggio a decifrare le parole, nere, che si mescolavano seguendo gli intrecci delle alghe marroni e verdi. E c’era chi diceva che se le leggende erano tali era perché c’è sempre un fondo di verità e anche se lì le anguille non erano mai arrivate, i Sargassi esistevano, pure in città.
Anche lui andò a vedere e riconobbe ogni sua parola, marchiata sulle alghe, e pensò che erano potenti come le anguille.
Rientrato a casa, gettò uno sguardo allo zerbino davanti alla porta di casa della vicina e notò il rigonfiamento. Sollevò il tappeto e ritrovò tutte le sue lettere. Ottanta, mai aperte, in mezzo alla polvere. Le raccolse da terra e le portò in casa e poi piano piano aprì ogni busta.
Erano tutte vuote.

Orecchie spente (una favoletta di dopodomani)

Aveva cominciato senza accorgersene. Era sceso dall’autobus che da Marghera lo aveva portato a piazzale Roma e aspettava il vaporetto per Rialto. Era una mattina di quelle che avresti sbagliato fermata apposta per andare al Lido a passeggiare. Che non era ancora caldo abbastanza per spogliarsi e andare in spiaggia, ma c’era il tepore giusto per camminare e godersi il sole. E in autobus prima e in vaporetto poi, Giovanni, aveva dovuto infilare le cuffiette a volume spento, per non sentire il cicaleccio degli altri viaggiatori che lo disturbava.
Parlavano di cose che non lo interessavano.
Discutevano dell’ultimo libro di cucina in vetta alle classifiche; del disco del nipote del premier che aveva vinto il festival delle voci giovani della nazione; del politico in mutande finito in copertina del giornale del partito di governo. Gli altri quotidiani erano falliti per le cause intentate contro di loro da questo o quel politico del partito unico di governo, quel grande patto di salvezza nazionale che aveva messo assieme i principali partiti ed era salito al potere per salvare l’Italia che era in emergenza. Nel 2020, otto anni dopo, pareva non fosse cambiato niente. Ma nelle librerie si trovavano solo libri di cucina, gli unici che vendevano migliaia di copie.
Se cercavi un romanzo, un libro di racconti, un classico della letteratura italiana e straniera dovevi andare alle biblioteche comunali, pagare una tassa di iscrizione di 50 euro l’anno e versare 5 euro a libro preso in prestito. Giovanni per studiare italiano, faceva così.
Andava alla biblioteca civica e si faceva prestare un libro. Cinque euro alla volta. E per leggere senza esser disturbato dai discorsi stanchi degli altri pendolari, infilava nelle orecchie le cuffiette dell’Ipod ma non lo accendeva. Gli bastava il gesto per procurarsi attorno alla testa quel giusto grado di silenzio che lo aiutava a leggere in santa pace. Giovanni era arrivato in Italia venti anni fa e per sostenere l’esame per il permesso di soggiorno di lunga durata, l’ennesima novità del governo, leggeva. Giovanni aveva sentito in tv che il prossimo anno avrebbero potuto far l’esame gli stranieri in Italia da ventuno anni ( ogni anno il governo alzava l’asticella del periodo minimo di residenza) e lui si sentiva oramai pronto ma leggeva sempre e di tutto e ovunque, nei bar come in vaporetto.
Quel giorno andò diversamente dal solito. Con le orecchie spente, non si era manco accorto che leggeva a voce alta. Glielo aveva insegnato suo nonno, che in Moldavia, a casa sua, ci era morto tre anni fa.

“Se non vuoi sentire e stare male, spegni le orecchie”, gli aveva detto una mattina che l’aveva trovato in camera a piangere mentre in cucina suo padre litigava con sua madre e volavano schiaffi come piatti affilati.
E così Giovanni che sapeva spegnere le orecchie, leggendo la “ trilogia della città di K” si era coinvolto così tanto che con tutto quel silenzio attorno e il sole che gli grattava la fronte dal vetro del vaporetto, si era messo a leggere a voce alta.
E si era accorto di quel che faceva e degli sguardi degli altri, che lo fissavano come se si fosse messo quel giorno le mutande in testa, solo quando alzò gli occhi dal libro e vide la tabella dell’imbarcadero di calle Vallaresso e non quella di Rialto.
Rosso in faccia, davanti a tutti quegli sguardi indagatori, si affrettò a scendere per non perder anche quella fermata e si sentì poi uno che camminava con le mutande in testa e si mise a sistemare i capelli, la giacca, il nodo della cravatta per non sentirsi strano.
E passava davanti alle vetrine e si guardava per capire cosa non andava.
Mentre camminava a passo svelto per tornare verso Rialto, oramai certo di arrivare in ritardo al negozio dove lavorava come commesso, un signore gli si affiancò e gli sorrise.
“Lei ha una bella voce, lo sa?”, gli disse l’uomo. Giovanni non ricambiò il sorriso ma alzò la testa di scatto come per dire che aveva capito.
“E’ tanto che non sentivo leggere. Che libro è quello?”, continuò a chiedergli il tipo.
Sarà un poliziotto, pensò Giovanni, e gli mostrò la copertina della “Trilogia”, che teneva sotto il braccio.

“Ho capito. Volevo solo dirle grazie che ha letto per noi”, disse il signore sfiorando la copertina del libro con un dito. “E’ tanto che non ne vedo uno”, si lasciò scappare poi. E se ne andò dalla parte opposta. Senza aggiungere altro.
Giovanni si era fermato a guardare lo sconosciuto che se ne andava di nuovo verso San Marco e pensò che viveva in un posto davvero strano se leggere un libro era diventata una azione così stupefacente. Per cosa è famosa la Moldavia? Forse solo per i lavoratori in nero. L’Italia invece la conoscono tutti, per Leonardo Da Vinci, Dante, l’architettura, l’arte, Baggio e Vasco Rossi. Un sacco di cose.
E questi non hanno detto una parola quando le librerie hanno smesso di vendere libri e si sono dimenticati delle biblioteche. Gente strana gli italiani, che si lamentano in un cicaleccio continuo di dolori, malcontenti e tristezze, ma gli va bene tutto.
Ecco, era cominciato così.
Spegnendo le orecchie e lasciando andar la voce al passo dell’occhio. Giovanni il giorno dopo era risalito sul bus e poi sul vaporetto, aveva indossato le cuffiette dell’Ipod, e aveva aperto il libro. E si era messo a leggere, a voce alta, nel suo silenzio.
E man mano che i giorni passavano, neanche gli serviva più spegnere le orecchie perché in vaporetto, si era accorto, quando saliva lui a piazzale Roma, tutti facevano silenzio e stavano a sentire quel che la sua bocca diceva. E il signore che l’aveva ringraziato quel giorno, gli teneva sempre il posto e gli toccava la spalla quando stavano per arrivare a Rialto. E lo sconosciuto e Giovanni, man mano che passavano i giorni, si salutavano con la mano, in salita e in discesa.
Così Giovanni non aveva più saltato una fermata. E ogni mattina alle 7.30 saliva sul vaporetto e leggeva la “Trilogia”.
Tre, quattro pagine a viaggio.
Solo la mattina in cui era alle ultime pagine, ne mancavano cinque, e lui voleva finire quel libro così strano, capire cosa succedeva, e la gente attorno a lui pure, tutti saltarono la fermata di Rialto e finirono diritti fino all’imbarcadero del Lido, a Santa Maria Elisabetta.
Giovanni prese fiato. Gli mancavano poche parole: “Il treno è una buona idea”.
In cento lo applaudirono mentre chiudeva il libro. Poi se ne andarono tutti assieme a passeggiare verso la spiaggia, che c’era finalmente il caldo giusto per andare a fare il bagno in mare. Da allora, non smisero più di leggere, assieme.

Senza rancore

Mi dispiace di svegliarti
forse un uomo non sarò
ma d’un tratto so che devo lasciarti
fra un minuto me ne andrò.

Già il fatto che uno si fa chiamare Dodi dovrebbe essere la spia che ti mette in guardia. Sentire le mie amiche che chiamano il loro uomo “ciccino” mi provoca una semiparesi alla mascella destra e resto giorni interi alle prese coi dolori; figurati se devo andarlo a presentare alle mie amiche uno che si fa chiamare così.
“Tesoro, ti presento Dodi, il mio ciccino”.
Oddio, no.
Non fatemi ridere che resto con la paresi un mese. Non posso farlo perché ho un compito. Cancellare questa canzone dalla faccia della terra. E far dimenticare le parole di uno stronzo.

E non dici una parola
sei più piccola che mai
in silenzio morderai le lenzuola
so che non perdonerai.

E ti credo bene che non ti perdona, brutto invertebrato. Non l’ha mai fatto, specie dopo che hai inciso. Ecco.
Dodi, potrebbe esser il nome giusto di uno stercorario da salotto. Uno di quegli scarabei che trasportano le palline di merda per farsi capanna e seguono solo una linea retta.
Cascasse il mondo non deviano, loro. Via diritti e se c’è una salita, arrancano, ma procedono. Passano sopra a tutto.

Mi dispiace devo andare
il mio posto e là
il mio amore si potrebbe svegliare
chi la scalderà.
Strana amica di una sera
io ringrazierò
la tua pelle sconosciuta e sincera
ma nella mente c’è tanta, tanta voglia di lei.

Ho un compito: far dimenticare al mondo che questa canzone esiste. Era il 1971 quando i Pooh dopo tre anni di oblio, che potevano esser sufficienti per farli finire nel dimenticatoio delle cose vecchie, se ne sono usciti con questo singolo.
Io ero nata da due anni, allora. Questo significa che, senza rendermene conto, a due anni mentre giocavo sotto casa coi ragazzini della via, e si imparava la differenza tra maschi e femmine, questa canzone, trasmessa dalla radio, faceva i suoi terribili danni. Loro, i bimbi, la ascoltavano. E pure io. E molti di loro l’hanno cantata poi, da grandi, alle sagre e ai karaoke. E si sentivano romantici nello sforzare l’ugola per azzeccare la giusta intonazione. E metterci pathos. Perché si canta con la gola e la pancia. Il diaframma mica è cosa statica.
E se vuoi sembrare il Dodi che canta, ti devi immedesimare.
E loro, i maschi, cantano. Pensando che raccontar, con l’ugola e la faccia, sta canzone li renda uomini capaci di amare.

Se non l’avete capito, questa canzone non parla di amore. Semmai è il racconto di un pentimento. E’ un inno all’ipocrisia. Se incontro un uomo e mi canta questa canzone, io lo sputo e me ne vado. Non mi fido.
Non perché tradisce, ma perché si pente. E se si pente quando devia dalle sue personali regole e non procede diritto come lo stercorario, significa che lo fa per prurito.
Che è cosa ben diversa dalla voglia. E con uno così, che poi si pente, è meglio farci una partita a tressette che condividere cose importanti come le carezze, i baci, i fluidi e i pensieri.
No. Un uomo che ama la sua donna e se ne accorge solo quando sta nel caldo letto di un’altra, cosa è se non uno stanco e deluso. Uno che non sa che doni tiene tra le mani.
Perché le persone, le donne in questo caso, non sono oggetti che sposti e nascondi e tiri fuori alla bisogna.
E io non parlo mica di quella che è a casa, ignara e amata. Io agisco per vendicare la sincera sconosciuta, quella che canta il re ipocrita che finge un affetto che non c’è mai.
Vendico la cretina che da quarant’anni ascolta quella canzone e si sente una che se non c’era era uguale.

Lei si muove e la sua mano
dolcemente cerca me
e nel sonno sta abbracciando pian piano
il suo uomo che non c’è.
Mi dispiace devo andare
il mio posto e là
il mio amore si potrebbe svegliare
chi la scalderà.
….nella mente c’è tanta, tanta voglia di lei.

Io entro nelle case degli uomini, entro nelle loro macchine, nei loro bar, scruto nei loro mp3, nelle selezioni del Mac.
Vago nelle loro discografie e cerco quel titolo. E quando lo trovo, cancello.
Finora sono arrivata a quota 1.321. So perfettamente che sarà un lavoro lungo, ma io non dimentico. E procedo. Oramai non ci faccio più caso. E’ automatico, come l’odore che percepisce il cane da tartufi.
Cd, file, vecchi lp. Se la trovo, la faccio sparire. Non serve che io con questi uomini abbia qualcosa da spartire. Basta una educata conoscenza. Se mi aprono le porte di casa e io trovo una traccia di “Tanta voglia di lei”, è matematico che il modo lo trovo per far dimenticare Dodi, la sua ipocrisia e quella cretina, che quarant’anni dopo, ha tutto il diritto di sentirsi una che non è passata per caso.
Se la cantano, invece, quegli uomini che incrocio possono scordar la mia faccia. Sono cause perse.

Per fortuna, il 1971 non fu solo una corsa diritta per gli stercorari. Fu l’anno di “Starway to heaven” dei Led Zeppelin e di “Imagine” di John Lennon. E fu l’anno di Battisti che cantava anche Endrigo , nel volume quattro. Quello che diceva

il mio pensiero ti seguira’
saro’ con te dove andrai
senza di me
tu partirai per altri mondi
ti perderai
tra gente e strade sconosciute
non ci saro’
quando qualcuno mi rubera’
gli occhi tuoi.

E dicevano che era triste.

Ciccia e brufoli

“Ma non è che adesso mi diventi tutta ciccia e brufoli?”.
Marco si sta facendo la barba. Livia è seduta al tavolo della cucina e imburra una fetta di pane. Lei stamattina si è alzata bene, con il sorriso. Non capitava da otto mesi. Livia oggi ha deciso di ascoltare la dottoressa e di provare a mangiare. E’ la prima vera colazione dopo otto mesi di insalatine e pianti nascosti, di scuse e mal di testa per evitare di cenare tutti assieme, e quando le scuse non bastano ci sono gli attacchi di vomito, che arrivano rigorosamente di notte. Marco dorme di là, nella camera da letto, e non sente. In otto mesi Livia ha abbracciato di più la tazza del water che le sue amiche. Loro si sono accorte di tutto e glielo hanno detto.
“Livia, che cazzo stai facendo? Quanti chili hai perso?”
Quindici.
A Marco lo hanno dovuto spiegare loro, Franca e Giulia, che Livia aveva qualcosa che non andava.
“A me lei piace anche così”, si erano schernito lui quando le amiche lo avevano invitato al bar per parlare. Non si era accorto di niente. Mica aveva notato che lei non mangiava più. Sapeva che era a dieta.
“ Ma le donne lo sono sempre, vero?”
Marco e Livia vivono assieme da sei mesi. E il fatto che lei abbia perso in fretta dieci chili, disse lui alle sue amiche quel giorno, per lui era solo un segno di rispetto per se stessa.
“Sono quindici? Non me lo ha detto. Io la vedo bellissima. Non è che voi state esagerando?”, si schernì quando Franca e Giulia passarono ai dettagli.
Livia al pub era considerata da tutti gli amici una sorta di modella dal fisico perfetto calata in un paesino alla periferia di Padova. Per loro vederla entrare al bar era come avere a portata di mano una di quelle belle donne che di solito vedi solo su qualche cartellone pubblicitario. Marco era orgoglioso.
“Le mestruazioni? Boh, robe sue”, ribatté lui quando Franca e Giulia precisarono che non era tutto così perfetto.
“Livia ama i jeans stretti, le magliette aderenti, gli stivali anche d’estate. In discoteca d’estate io lei saliamo assieme sul cubo e balliamo ore. Siamo bellissimi. E’ normale che ci tenga al suo fisico”. Ma l’obiezione venne sommersa da altri particolari.
“A me basta che stia bene”, fu la sua ultima parola.
E le amiche pensarono, quel giorno, che aveva capito tutto. E fissarono l’appuntamento per Livia dalla dottoressa.
“Il suo compagno che dice?”, chiese la psicologa a Livia al termine della quinta seduta.
“Dice che mi ama, così come sono”, rispose lei.

Due mesi dopo, Livia si è alzata e ha deciso di fare colazione, come tutti.
Si sente meno stanca del solito. E sorride. Le piacevano le colazioni con il burro e la marmellata a casa della nonna. Il pane era caldo, appena fatto.
Marco si sta facendo la barba in bagno.
“Fai colazione?”, le chiede lui.
“Sì. Pane, burro e marmellata”, risponde lei.
“Non è che adesso mi diventi tutta ciccia e brufoli?”.
Marco poi scoppia a ridere. Livia lo ascolta e ferma la mano.
Posa sul piatto il coltello con il pezzo di burro, scansa il pane e pure il vaso di marmellata. Chiude il barattolo dello zucchero.
“Mi ameresti lo stesso, vero Marco? Se fossi grassa?”.
Livia glielo chiede, alzando la voce, mentre va a spegnere il caffè che brontola dentro la moka sul fuoco.
“Ti amo. Così come sei”.

Il colpo della strega

“Ancora cinque minuti”, gli ho detto, mentre stringevo il cuscino sulla sua faccia. Lui mi ha sentito e ha disteso le braccia sul materasso. Un segno di resa, lo aspettavo. Dopo tanto dibattersi e trattenere e sudare, ho campo libero e non posso aspettare oltre.
Ho ripreso a premere il cuscino bianco con tutte e due le mani. Di lui vedo solo solo le braccia distese, le dita delle mani chiuse a pugno. Non la faccia, nascosta dalla fodera. Non le gambe e il petto, su cui mi sono seduto a cavalcioni, per farmi forza e spingere di più.
Che a morire ci vuole forza e calma. E anche per far morire.
Ho continuato a premere il cuscino, finché le dita di Alvaro hanno mollato la posizione a pugno e le mani si sono aperte come artigli. E mi sono venute a cercare. Per fermarmi.
Una mossa inattesa. E io davanti a quelle dita che si sono fermate ad un centimetro dalla mia faccia sono stato colto dalla sorpresa e ho reagito tirando indietro la testa e la schiena. Poi ho finito quel che dovevo finire. E sono andato a farmi la doccia, nella stanza accanto, che ero tutto sudato.
E’ successo tutto lì, in quel movimento improvviso per allontanare la mia faccia dalle sue dita. Il colpo della strega. Sono quattro giorni che cammino con questo maledetto mal di schiena. Solo oggi sono andato dal dottore.
“Ha fatto qualche movimento strano?”, mi ha chiesto senza mai guardarmi, gli occhi fissi sul computer nella sala visite dell’ambulatorio.
“No, dottore. Ho solo evitato un ostacolo improvviso”.
“Ecco, è come le dicevo io. Il colpo della strega è spesso conseguenza di movimenti forzati o mal controllati. Adesso le prescrivo un antinfiammatorio”, ha continuato a spiegarmi il dottore.
“E si riposi”.
Ho preso la ricetta che il dottore mi ha posato davanti, mi sono appoggiato al tavolo, con le mani, per alzarmi senza sforzare troppo la schiena. Ho detto “Grazie, dottore. Vedrò di farlo” e me ne sono andato fuori, alla ricerca di una farmacia. Ho cominciato a camminare e ho ripensato a quel “Si riposi”.
Come se fosse facile chiudersi in casa una settimana, spegnere il cellulare. E non farsi trovare dai clienti e dai capi. Il lavoro arriva quando vuole e va fatto in fretta, con calma e forza.

Camminando lentamente verso la farmacia, un passo per volta, il dolore alla schiena, fortissimo, ha cominciato a pulsare meno. C’è, lo sento, ma non è più un coltello che mi gira dentro. Piuttosto è un peso sui lombi, dalla pressione costante. La stessa che ho impresso sul cuscino, con calma, per bloccare la faccia di Alvaro. Quattro giorni fa, quando l’ho soffocato in una stanza d’albergo alla periferia di Milano.
Sua moglie ha pagato 30 mila euro per farlo fuori. In una camera d’albergo, la 313, dove lui solitamente incontrava Martina, una prostituta che faceva arrivare dal lago di Garda. Le pagava pure il taxi, andata e ritorno una volta al mese. Stavano assieme fino all’alba. Lei doveva arrivare alle 21.30 spaccate. Non un minuto dopo. Facevano sempre le stesse cose. Prima un inizio di pompino, poi lei si faceva leccare. Ma durava poco. Poi lui la penetrava da dietro e durava il giusto.
Un rito. Ho pensato a quello quando Martina mi ha raccontato dei loro incontri al bar di Peschiera dove sono andato a cercarla. Le ho pagato la colazione dopo averla attesa all’uscita di casa, fingendomi un investigatore a caccia di informazioni. Per lei Alvaro era un cliente come tanti. Lo ha riconosciuto solo dalla foto che le ho mostrato. “Alvaro chi? Ahhhh, il noioso!”, mi disse quando gliel’ho mostrata.
Pretendeva sempre le stesse cose _ mi ha raccontato Martina _ mai un dettaglio diverso. Anche il completino intimo doveva essere sempre bianco, in pizzo, di una marca precisa. Alvaro la attendeva sulla porta della stanza 313, la faceva entrare, le toglieva il cappotto. Lei sotto era già in reggiseno e tanga, come voleva lui. Fresca di doccia e senza alcun profumo.
Alvaro le accarezzava il viso, poggiava i soldi sul mobiletto vicino all’ingresso, la spingeva contro il muro, le infilava un dito in bocca e poi con lo stesso dito toccava prima il mento e poi il collo e scendeva fino all’attaccatura del tanga, Là il dito lasciava il posto all’intera mano.
Mai niente di diverso. Martina disse, ridendo _ forse voleva risultare simpatica _ che persino i gemiti alla fine erano sempre identici.
Adesso che ci penso, mentre stavo sopra il petto di Alvaro e gli tenevo premuto il cuscino sulla faccia, per otto, dieci minuti, ( quanto sarà durato? ) Alvaro non ha mai mollato un gemito, una bestemmia, un lamento. L’urlo l’ho cacciato io quando mi sono trovato le sue dita quasi addosso alla faccia. E ho tirato la testa e la schiena indietro. E la strega si è attaccata.
Io premevo e intanto pensavo ad altro. Lo faccio sempre quando lavoro. Non penso mai a chi sto ammazzando. Penso alla vita mia, quando non lavoro e posso far quello che voglio. Alzarmi tardi, non guardare il cellulare, mettermi la camicia colorata e andare a mangiare una pasta dalla Rina che è la mia donna, anche se non viviamo assieme. Non bisogna viverci con una donna se si fa il mio lavoro. Perché lei la sente la puzza, che ti porti dietro. Mica è scema, la donna che si ama. Lei sa. E allora io con la Rina, che ogni volta che la voglio ha un completino di un colore diverso, io non parlo mai del lavoro. E manco ci dormo assieme. Se resto da lei mi sveglio all’alba e me ne vado. Con una scusa. Se devo lavorare non la vedo per giorni, perché devo togliermi la puzza di dosso, prima.
E’ solo lavoro, niente di personale, neanche godimento. Serve calma e forza, per far morire. Quelle cose lì le uso anche per amare Rina. Lei pensa alla fantasia. E ogni volta non c’è mai un gemito uguale. Se mi dicesse che sono noioso, tirerei fuori la pistola. E la girerei verso di me.

In farmacia mi danno gli antinfiammatori. Prendo una pastiglia direttamente al bancone, davanti alla commessa che mi guarda con la faccia indifferente di chi ha visto troppi tossici.
Esco fuori e suona il cellulare. So chi è, so cosa vuole. Ma non rispondo. Che c’ho la strega aggrappata ai lombi e mi sto incazzando.

1985

Io lo so che lei se lo chiede. Lo so, che ogni volta che le metto i 50 euro dentro la fessura, tra le tette, e sistemo la banconota tra le stecche del reggiseno, con cura, lei, se lo chiede.
Spendo cento euro la settimana per vederla ballare davanti a me, sul palo della lap dance. Lei ha imparato a salutarmi con gli occhi, li abbassa per un attimo ogni volta che mi vede seduto al tavolino accanto alla pedana. Mi sorride.
All’inizio aveva provato a parlarmi, lo faceva sicuramente perché il padrone del locale le aveva detto di far così.
“Vai là, gli sorridi, gli dici ciao bello e ci parli. Gli chiedi cosa vuole. E te fai e lui paga”.

Solo che io le ho risposto che bevevo da solo e che mi bastava vederla ballare, anche due volte di seguito davanti a me. Sempre la stessa canzone. Andava benissimo.
Dalla pensione tolgo quattrocento euro al mese, che io ho diritto anche di pensar un pochino al mio bene. Il resto va via per le bollette, la spesa mensile, i fiori da portare in cimitero e i desideri dei miei nipotini. Quattrocento euro ce la faccio a metterli via ogni mese e poi il sabato vado in quel bar. Cinquanta euro finiscono tra le stecche del reggiseno della Olga e son due balli assicurati, il resto va via in gin tonic. Quel che avanza, lo metto da parte. Metti che mi decido a offrirle una cena di pesce in quel localino, fronte porto. Metti.

Ma non mi decido. Per ora mi basta guardarla Olga. Mi sta davanti in reggiseno e tanga bianchi, i capelli biondi lucidi, le labbra rosse, la pelle così chiara. Secondo me, mangia poco. Se fosse a casa mia, qualche bistecca la obbligherei a mangiarla.
La vedo muoversi al ritmo di “Slave to love”. E io mi ripeto in testa le parole della canzone.

“Posso sentire la tua risata
Posso vedere il tuo sorriso
No, non posso scappare
Sono uno schiavo d’amore”.

Brian Ferry la cantava e a Marta, mia moglie, piaceva. Lei aveva la passione della musica e quando la sentiva per radio, era il 1985, lei ballava sempre e io seduto al tavolo della cucina la vedevo ancheggiare con la vestaglia addosso e allora sorridevo, allargavo le gambe, mi mettevo a fissarla e lei ballava e rideva. E io non potevo mica star fermo sulla seggiola con le gambe larghe. Dovevo alzarmi e andare a sfiorarle i fianchi, mentre lei si muoveva e quando si girava verso di me e mi abbracciava, sentivo quella pressione addosso. Ogni abbraccio di Marta era come se un improvviso vuoto pneumatico mi tirasse fuori nervi, sangue, linfa. Tutti, allo scoperto.
Dovevo prenderla e portarla in camera. Erano anni belli, i figli erano al liceo, io cominciavo a lavorare verso le dieci e la mattina a colazione, complice la radio e i Roxy Music, noi ci abbracciavamo e partiva quel risucchio. Facevamo l’amore e se scappava che urlavamo come ragazzini, quello restava un segreto nostro.
E la sera a cena davanti ai ragazzi, non ci abbracciavamo mai, che era pericoloso sempre per la storia del risucchio. Ci guardavamo e ci lanciavamo un’occhiata che voleva dire “Grazie, che mi fai godere”.

Adesso io sto fermo. Sto in questo bar con lap dance nel retrobottega, aperta ogni fine settimana. Ci sono capitato per caso sei mesi fa. C’era quell’insegna, “Roxy”, che mi ha ricordato la canzone che piaceva a Marta. E sono entrato.
Non cercavo niente ma è arrivata Olga, bionda, in reggiseno e tanga bianchi, le labbra rosse, la pelle chiara e mi ha detto “Ciao, se vuoi ballo per te”. E io le ho risposto: “Ok balla, ma non mi serve altro”.
E lei ha ballato, illuminata dal faretto, avvinghiata a quell’insulso palo e intanto si toglieva il reggiseno e le chiappe si muovevano, lente, mentre Brian Ferry cantava che era schiavo d’amore e io mi sono messo a fissare con attenzione quel culo.
Latteo, pareva una burrata gigante, con i piccoli solchi della cellulite che spuntavano ad ogni ancheggio.
Mi son commosso. E ho allargato le gambe.
Il culo di Olga è il gemello di quello di Marta.
E ogni volta che lo guardo io torno al 1985. Prima dei giramenti di testa. Prima della stanchezza che ha tolto a Marta la voglia di ballare. Prima della voce del dottore che diceva che c’era una speranza, piccola, ma c’era.
E invece no.

E così io adesso sono qua al “Roxy” a guardar la Olga sorridermi, abbassare gli occhi, girarsi e ancheggiare, cosciente di portarmi fino alla commozione. Lei pensa che a me escono le lacrime mentre le fisso il culo perché è bella. Io, mentre allargo le gambe, penso che manco sa di averlo un inno alla vita, dietro.

Lo so che Olga ha voglia di chiedere. Perché non pago per andare mezz’ora nel camerino, dopo lo spettacolo? Lei ci verrebbe a casa mia a mangiare una bistecca. Lo so.
Ma a lei manca la coscienza di esser tutto, di aver un inno alla vita incorporato, ad ogni passo. Marta, invece, lo sapeva perfettamente.
E io me vado, con la voce di Brian Ferry in testa.

“Dille che aspetterò
Al solito posto
Con gli stanchi ed estenuati
Non c’è scampo
Al bisogno di una donna
Devi sapere
Come chi è forte diventa debole
E il ricco diventa povero
Stai correndo con me
Non toccare la terra
Siamo quelli dai cuori senza riposo”

Il coccolatore

Che lavoro faccio? Io faccio il coccolatore di sogni, signora.
Non rida, per favore, che è una cosa seria. Sorrida piuttosto, che mi pare un’azione più complice dell’allargar la bocca così. Quando ride, signora, lei ha una espressione sguaiata, volgare. Sarà colpa del rossetto viola che porta, che non le sta bene.
(continua…)


Se lo volete leggere tutto dovete andare qui e scaricare il “Post sotto l’albero 2010” del Sir. ( a lui un ennesimo grazie)

http://www.blogsquonk.it/PostSottoAlbero2010.pdf

Ansia

Secondo me la cosa più difficile quando condividi quello spazio di vita che è il letto, con un uomo, non è farlo godere, ma dormirci accanto. Dormire, dico, mica vegliare.

Intendo proprio il lasciarsi andare al sonno, alla voglia di tepore, alla stanchezza. Raggomitolarsi al suo fianco, senza toccarlo. Sentirne il calore a lieve distanza.  E dormire. Senza controllare nulla del corpo. Risvegliarsi poi come se ci fossi solo tu, ma il tuo io è doppio. Doppio corpo, doppio calore, doppio sonno che si avvita.

Ho sempre pensato che per le donne, dopo secoli di fissazioni, pare, costrizioni mentali, con cui siamo cresciute, senza manco rendercene conto spesso, ed è questo il peggio, ci sia come primo impegno il far i conti con l’atavica paura dell’abbandonarci ad un corpo altrui.

Abbiamo paura di lasciarci andare, in quella cosa così intima che è il sonno. Il sesso? Certo, è intimo, ma come  tutti i giochi, quelle cose fondamentali che svelano chi sei, noi giochiamo e ci piace, perché lo sappiamo che possiamo essere, ogni volta, quello che vogliamo, quello che sogniamo.

Bimbe. Puttane. Esperte. Inesperte. Fredde. Aggressive.

Poi, finito il gioco, si va oltre. L’intimità diventa la condivisione del tepore. Col corpo, stanco e appagato, che reclama silenzio.

Allora spesso si finisce col vegliare. Gli uomini sono come noi. Fragili, pieni di pare. Ma sono abituati a non dirlo e a dormire.

Comunque. Ovunque. Noi, il più delle volte, no.  Li fissiamo al ritmo di risvegli frequenti ogni loro respiro profondo. Giriamo la testa nel buio della camera da letto e li guardiamo. E li troviamo così diversi da quelli che conoscevamo.

Sarà che mia madre dorme pochissimo e si addormenta solo con la tv accesa. Ma si tiene in forma con il suo personale brain training:  individua ogni giorno un difetto nel mio corpo, nel mio aspetto, nel mio modo di essere. Io come reagisco? Rido e me ne vado.

Io da sola dormo benissimo, mai ho sofferto di insonnia. Se divido il letto con un uomo, che ha voglia di restarci tra quelle coperte fino al mattino dopo, che mica è scontato, finisce che lo veglio.

Cado in un sonno leggero. Mi pare di esser andata,  ma in realtà sono sempre lì, aggrappata al cuscino, la pancia trattenuta dal diaframma.

Non si sta male ma non è dormire. E’ come far le vedette sulla collina, lo schioppo in mano e il sonno che bussa e te che ti dici, dentro la testa, io devo star attenta. E controlli. Non lui, ma te. La posizione del piede, della gamba, il respiro…Ti giri e lo guardi dormire, lui, beato, la bocca aperta, le braccia distese sul materasso. E te lo chiedi.

“Ma come cazzo fai a dormire, così, come se non ci fosse  un domani, che son tre ore che mi sei stato sopra e sotto e adesso non senti che ci sono…Che non dormo? Io ci sono, o no?”

E te lo chiedi se stai emanando tepore o se in realtà non ci sei perché sei fuffa, che ne hai piena la testa, e te lo chiedi se la sai la differenza tra l’esser donna e femmina.

Che aver le mestruazioni non basta. Aver il tanga spostato di lato, nemmeno. Succhiargli le palle bene,  non ti rende unica. Hai la pancia e la devi tener indietro. E quando cammini, per strada, te lo chiedi se la gente ti vede normale o grassa. Se ne accorgono gli altri della cellulite.

E pensi che c’è davvero chi li usa quegli occhiali, che li metti e vedi le persone nude, come sono davvero. Esaltatori di difetti. E vorresti uscire di casa con un barattolino di bianchetto in tasca, e cancellarne uno al giorno, di difetti, per 365 giorni. E se hai culo, in un anno ti sei cancellata. 

Sei una che una foto non dovrebbe farsela fare mai, tanto è sfuocata.

 No, non è difficile far godere un uomo, il difficile è dormirci accanto.

Della pioggia metropolitana

Alla fine, bisogna farsela piacere la pioggia. Che sono quattro settimane che piove di continuo, mattina e sera. Non smette, solo cambia di intensità. Prima piove che sembra solo uno spruzzo dall’alto. Poco dopo, guardi dalla finestra e vedi una cascata d’acqua. Fastidiosa, fredda, rumorosa.

Per me l’ombrello non serve, comunque. Mi calco in testa il cappello e me ne vado a camminare. Altrimenti come potrei piangere sotto la pioggia? La pioggia per un uomo è l’unico modo per piangere con dignità, senza passare per un morto di fame a cui la vita toglie qualsiasi gioia.

Gli uomini non piangono, mi diceva sempre mio padre. E quando ero piccolo e mi sgridava, e lo faceva spesso, io speravo che ci fosse, fuori, la pioggia per correre in giardino a piangere. Che la pioggia cadendo sui miei capelli e sulla mia faccia si portava via le mie lacrime e io non facevo la figura di quello che non era uomo, perché piangeva. Crescendo non ho perso l’abitudine. Sarà che di schiaffi lui me ne ha dati tanti, ma io ho imparato che quando piove, ne approfitto, esco solo, con il cappello calcato in testa, e mi metto a camminare. E se ho voglia, piango.

Nessuno se ne accorge perché ho la faccia bagnata completamente dalla pioggia e non si notano le differenze tra gocce. Cammino per le vie del centro, guardo le vetrine, e intanto lascio andar fuori tutto, e se qualcuno mi ferma, mentre passeggio, e mi dice “Ragioniere, ma che occhi rossi ha?…”, tiro fuori la scusa che mi sono raffreddato.

“Sa, sono senza ombrello, mi prenderò un malanno, lo so”, rispondo. Piccole ipocrisie metropolitane, che non fanno male a chi le dice e a chi le sente. Che poi, a pensarci bene, se uno ti chiede se stai male, e magari hai , sotto il cappotto, il fianco trafitto da un colpo di katana, te lo dice così per non passar per insensibile, ma in realtà a lui cosa gliene frega del fianco trafitto. E allora, meglio non scaricare su altri i propri problemi. C’è una piccola scusa e tutti stiamo a posto. Così è per le lacrime, solo la pioggia le rende dignitose. Se lo sapesse mio padre, che quando piove, io approfitto ed esco a buttar fuori i pianti che mi porto dietro per mesi, mi darebbe del coglione. Ma poi apprezzerebbe, ne sono sicuro, che ho scelto un modo elegante, per smettere di essere uomo.

Piove da quattro settimane. Mi sveglio la mattina ed è là che mi aspetta. Rientro a casa la sera tardi, con il passo incerto di chi ha bevuto un pochino troppo, e trovo la pioggia intenta a bussare ai vetri della mia macchina. Mi infastidisce: in questo periodo ho esaurito le lacrime e allora tutta questa acqua mi pare superflua, mi irrita. Odio gli sprechi.

Ho provato a vedere il lato positivo della pioggia. Mi sono detto che lava via tutto, le polveri sottili che si incastrano nell’asfalto nero e pure le cicche buttate a terra che galleggiano fino ai tombini. L’aria pare meno pesante, cambia anche la luce dei lampioni, che diventano meno fastidiosi. Ma è tutto questo grigio che c’è attorno, questo fango che schizza dalle pozzanghere e macchia i cappotti, quest’acqua grigia che infradicia le scarpe, che rende tutto più sporco. Irritante.

La pioggia non mi è amica. Perché io quando piove non ho donne che mi abbraccino. L’unica che ho baciato sotto la pioggia, l’ho sposata e adesso mi attende a casa ogni sera, fastidiosa, fredda, rumorosa. Lei è una primatista dell’arte sottile dell’ipocrisia. Che un marito ed una casa li ha. E le basta poco altro, oltre alla carta di credito con cui fare shopping a metà mese. Ha due passioni, il bridge e la vodka. Quando le prende quella passione lì, quella bianca che pare proprio pioggia, allora fa come mio padre e mi urla contro e mi percuote mentre sono sul divano a guardare l’ultimo tg della notte. Gli schiaffi non mi fanno male. Mi fa male quando mi urla addosso che non sono un uomo. O almeno non sono quello che vorrebbe lei. Come con mio padre ho imparato a stare zitto, a non ribattere. Aspetto che se ne vada, come questa pioggia, che pure lei mi perseguita. Ma sono passate ben più di quattro settimane.

Io la odio la pioggia. Perché c’è Graciela e lei la posso vedere solo quando non piove. E’ una regola che potrà sembrare stupida, lo so, ma l’unica volta che ho baciato e ho pensato che era amore, ho sbagliato tutto. E c’era un temporale pazzesco. E allora se devo amare una donna voglio che non ci sia mai pioggia. Fastidiosa, fredda, rumorosa.

Graciela lo sa, non fa troppe storie. So perfettamente che le manco. Lo vedo da come mi accoglie quando vado a casa sua, che il grigio lascia il posto all’azzurro nel cielo. Io salgo, lei accende la radio e si mette a cantare e mi bacia sull’uscio della porta e mi toglie il cappotto, butta per terra il cappello, e si mette a scherzarmi. “Ragioniere, vuoi che ti faccio contento?”, mi dice. E io ogni volta mi limito ad annuire, la seguo lungo il corridoio fino alla camera da letto, mi siedo sulla seggiola vicino al letto per togliermi i pantaloni e la guardo che si spoglia e poi viene verso di me, per toccarmi. Ed è calda e umida, la Graciela, con quella bocca che pare una caverna. “Che uomo che sei”, lei me lo dice mentre mi sfiora le spalle e mi lecca la schiena e poi cerca con le dita il varco, per farsi strada dentro di me.

 

 

Baltico

Ho fermato la mano. Non le ho consentito di venirti a sfiorare il naso.

Siamo sull’autobus delle sette e mezza. Io e te, che sei seduta al mio fianco. Davanti a noi c’è un pensionato con la sporta delle spese, che ci dà le spalle e pensa a leggere di sottecchi i titoli del giornale del vicino. Due sedie più in là, due studenti si raccontano, nelle orecchie le cuffiette dell’Ipod. Sono accesi quei cosi, mi chiedo. E se sono accesi, come si sentono quei due mentre si parlano? Mica urlano, anzi si sorridono e parlano piano piano. Forse è l’intesa che non li rende sordi.

Io e te, invece, siamo qua su questi seggiolini, che sobbalzano sulle rotaie del tram; stiamo zitti e non parliamo. Manco ci guardiamo. O meglio te non mi guardi. Io, invece, sì, ti sbircio di nascosto. Non c’è intesa, manco sappiamo come ci chiamiamo.

I nostri occhi però si conoscono; ci vediamo da settimane sempre alla stessa ora sullo stesso bus. E allora penso, mentre tengo a bada la mano, che io ad una donna come te lascerei anche il vezzo di darmi il nome che vuoi. Mi chiamo Mario, io, ma se te vuoi mi puoi anche chiamare Vittorio o Giulio o Salvatore. Potresti chiamarmi come l’oceano, Atlantico. O come il mare, Baltico.

Forse senti quello che ti sto dicendo, perché mi lanci uno sguardo con la coda dell’occhio e poi torni a leggere. Non è male Baltico, si intona con il freddo di questa mano che blocca la sorella che ha voglia di venirti a sfiorare la linea del naso  e scendere giù di lato per accarezzarti il viso, piano.

Ma  non sta bene. Non c’è intesa e manco una conoscenza tale da consentire un contatto che non sia casuale, uno sfioro non voluto, salendo o scendendo dal bus o sistemandosi sul seggiolino.

Io voglio un contatto diverso e mi trattengo e fermo questa mano e la tengo stretta sotto il braccio per impedirle di muoversi verso di te. Che non so che nome hai…ma non importa.

Te che hai guance che bacerei volentieri e leggi libri che io ho già letto e le parole le conosco a memoria e potrei sussurrartele dal tramonto fino al mezzogiorno, senza stancarmi. Mi basterebbe in cambio un tuo sguardo, silenzioso. Un alzarsi lieve dell’angolo della bocca. Non serve che mi parli, mi basta che mi riconosci. Spero tu abbia un nome lieve e corto, come Anna o Agata. Mi piace tanto Agata. Avrei chiamato mia figlia così se solo ci fosse stata una figlia, pronta ad uscire con me da letti sfatti e diventati troppo in fretta freddi. 

No te fredda non lo sei, Agata, ma toccarti mi è vietato. Parlarti? Non saprei da dove cominciare. Per dirti cosa poi? Che hai un naso bellissimo e uno sguardo dolce, che pare perso nel cielo? Che hai una mano gentile? Che non ti servono le unghie laccate, per esser elegante? Che quando mi respiri qui a fianco, io, mi sento in pace? E quando te ne vai e io sto qui a respirare, da solo, la mia mano, quella che ora nascondo sotto questo braccio, si agita e non si abitua al fatto che non ci sei più.

Come faccio a dirtelo che la mia mano ti ama?