Archivio Autore: michiamomitia - Pagina 7

L’amor proprio

Cara Ludovica,

quando leggerai queste righe io sarò già bella che andata. Ho lasciato sul letto il vestito marrone, quello con le spalline strette. Usa quello per vestirmi, tanto nella cassa mi dovete mettere e allora che si faccia, almeno, una porca figura.

Per favore, evita di mettermi le calze che anche se è inverno, la mia pelle sente solo l’estate. Evita di guardarmi, tra dieci anni, quando mi tireranno fuori dalla terra, se avrai l’orribile idea di farmi seppellire, dimenticando quello che io volevo. Ci saranno solo le mie ossa dentro quella cassa e non sarà un bel vedere.

Ti ricordi nonna Pina? Io c’ero quando l’hanno riesumata per spostarla nell’ossario. Era tutta raggrinzita con quelle calze di seta pesanti, che a lei piacevano tanto, color fumo di Londra, e il reggicalze nero. Nonna diceva che una donna era femmina, solo se lo indossava ogni tanto.

Io, di nonna, ricordo ancora i denti, tutti perfetti; non si sono consumati manco dopo 25 anni, tanti ne sono passati, quella volta, prima che mi apparisse davanti ossa e calze.

E visto che mi sono sempre sentita femmina senza, prima, non vedo l’utilità, dopo.

Mia anima, per favore, scuoti il capo, se diranno cose che non voglio sentire dire, e ricorda a tutti che io ho già deciso. Evita ai tuoi occhi sia la visione del mio corpo, quando mi avranno trovato senza fiato, sia la scellerata idea di mettermi a marcire nella terra, che mi è certo congeniale, e te lo sai , che mi sei sorella. Evita l’imbarazzo di un funerale vistoso con incensi e croci, che non ci sono tunnel a chetarmi, credimi.

Fammi ardere, che almeno resto al caldo. Che ho passato la vita a scaldarmi e perdere pezzi, lasciati dentro a comodini di case spesso estranee, alla ricerca di qualcuno che avesse la voglia di ricomporre il puzzle e appenderlo in salotto, per rimirarlo intero.

Ne sono certa, mancherebbe sempre un pezzo.

Io dell’amore ho avuto così tanto rispetto che mai ho puntato i piedi e mi sono sentita niente al suo cospetto e non ho chiesto e ho lasciato che chi voleva entrare, entrasse, e chi voleva uscire, uscisse.

Stamattina, alla radio, uno psicologo, manco ricordo il nome, diceva che l’autostima si alimenta fin da piccini, con le parole dei nostri genitori. E allora mi sono messa a cercarla, dentro di me, la stima, tra il pancreas e il colon, e quella non rispondeva ai miei richiami.

O era sorda o se n’era andata.

Poi mi sono detta, che se era fuggita via, sbattendo la porta, la sorda ero io. E se si era persa nei tanti pezzi di me che ho regalato in giro, non sapeva più darsi manco un nome.

Io, bimba cresciuta, guerriera stanca, mi sono persa nel cercar l’amor proprio, tra i pezzi masticati e leccati. E la camminata è diventata corsa frenetica e ho sentito, assieme al rintocco della vena della tempia, la voce di colei che dice che sono tutta  sbagliata e la carezza, carica di pena, di Piero, che non ha mai saputo tenermi.

E, sudata e fredda di mio, ho messo un piede dentro la vasca e ho aperto l’acqua calda.

Mi sono stesa e ho preso la boccetta dei sonniferi. Per deglutire le trenta pastiglie, ho scelto un Traminer aromatico. Non si dica che mi manca lo stile.

Per sicurezza, ho tirato anche un colpo di lametta sul braccio.

Mi sono rimessa a cercare e nella corsa mi sono addormentata, guardando il rosso del mio sangue fuoriuscire da me. E’ l’ultimo pezzo che va via.

Te  lo scrivo prima, che ho tutto in testa, come un filmato visto e rivisto, e fermato in ogni frame in sala di montaggio dal regista, per capire dove migliorare.

Solo che stavolta  si va via lisci, con la telecamera fissa sul rosso.

Te  lo racconto, prima di lasciarmi andare, perché voglio evitarti di vedere. Se te lo racconto io, sembrerà solo una delle storie che mi  piace raccontarti per farti addormentare. Te ti risvegli, io no.

Ti guardo intero

Guardo i tuoi occhi e ci vedo la laguna e mi sento cullare dall’acqua. Non torno bambina, mi sento donna, e l’acqua mi passa attraverso, mi rinfresca e mi allevia, mi libera e mi placa.

Guardo il tuo collo e ci vedo il vento e mi sento che mi muovo con te. E non sono altrove, ma sono qui, presente, cosciente, a desiderare e a muovermi, coscia  contro coscia, mano contro mano.

Guardo le tue gambe e ci vedo il sole e mi sento scaldata dall’affetto. Quello che mi dai e non mi dici e che mi lascia lì a chiedermi, poi, sudata, se è successo davvero o è solo quel che voglio, io, dare a te.

Guardo i tuoi piedi e ci vedo il cammino sull’erba fine e mi sento leggera. Ci possiamo andare senza scarpe, liberi e lievi, con la risata accanto senza zavorre inutili ad appesantire il piacere di stare.

Guardo il tuo culo e ci vedo il mondo, che vorrei far risuonare delle mie e tue risate.Sono qui a far l’amore con te, ti guardo tutto intero adesso e mi chiedo dove eri, ieri, che a ridere in due è meglio.

La buona creanza

In spiaggia fa caldo, sudo da tutti i pori che ho a disposizione. Potrei anche contarli tutti, che li sento, uno ad uno, mollare acqua dal mio corpo. Ma finirei con il dormire e lascio perdere.
Voglio prenderlo tutto questo sole e voglio godermela questa giornata.
Oggi compio 50 anni. E questo è l’unico momento di mare, con la pelle che sa di sale, che io posso concedermi quest’anno.
E’ dura vivere da precari, con contratti rinnovati ogni sei mesi, per telefonare alle signore all’ora di pranzo o alle nonne alla mattina
e proporre un viaggio di tre giorni, tutto incluso a 90 euro, a San Giovanni Rotondo per vedere il corpo di Padre Pio, per poi tornare a casa con l’ultima batteria di pentole in acciaio inox tedesco.  Questo è stato anche il mio ultimo stipendio, mi han pagato il mese con quelle. Ma sono così tante, che non so manco cosa cucinarci dentro. In frigo non ho così tanta roba.

Ad essere precari le ferie sono un ricordo, perché senza un guadagno vero non c’è quel sollievo al conto in banca, perennemente in rosso.
Non c’è serenità manco se vai a mangiare una pizza, perché il conto, poi, ti resta sullo stomaco più della pasta mal lievitata.
E allora oggi me la godo. In lontananza, verso il mare, vedo delle nubi nere, l’aria è pesante e afosa. Ho i capelli, che sembrano paglia bagnata.
Il vicino di ombrellone guarda l’orizzonte e poi si gira verso di me.
Mi sa che arriva il temporale, mi dice.
Io non mi scompongo, non muovo un muscolo.
Io resto qui, gli dico, senza manco girarmi a guardarlo. Sto bene su questa sdraio di plastica che cigola sotto il mio culo, con il libro che penzola dalla mano, l’occhiale scuro che scivola sul naso sudato.
Una goccia di sudore cade dal mento e lenta, si incammina lungo la pancia, forma una piccola pozza dentro l’ombelico.
Respiro fortemente e tiro dentro la pancia e la goccia scivola giù, a fatica, e si ferma sull’elastico dello slip.

Arrotondo tre sere la settimana servendo birre in un locale vicino casa.
E’ un lavoro noioso; io non parlo molto, che son sempre a farmi i conti in testa, e poi ci sono quelle tre ragazze slave che ballano sul palo che mi prendono in giro, che dicono che sono brutta e ho la cellulite sulla pancia.
E’ la parte di me che odio di più. A volte, sogno che con una pialla mi siedo in cucina, nuda, e tiro via tutto questo flaccidume che ho davanti e mi limo e la pancia non c’è più. E la pelle è tirata.
Io ci soffro quando quelle mi prendono in giro, perché io brutta mi vedo tutti i giorni mentre loro mi vedono solo tre volte la settimana. Devono esser stronze, dentro. Voglio vederle a 50 anni.

 Io non rispondo alle loro offese, abbasso gli occhi e pulisco il bancone.
Ma gli nego il bere sottobanco, mentre il proprietario non vede. Se chiedono, devono pagare. Come tutti.

Son immobile su questa sdraio che è la mia unica vacanza estiva e lo sento che il peso, che ho dentro e sulla pancia, potrebbe farmi cadere da un momento all’altro. E non ci sono mani, pronte a sollevarmi, che non siano quelle che muovono gli atti della buona creanza.
Sorrido, nel ricordare l’incubo di bambina che tenta di esser perfetta. Mi diceva mia madre: questo no, quello no. Non si fa e non si dice e se vuoi dirlo lo dici solo tra i quattro muri tuoi, meglio se da sola.
Mi ha educato con lo scalpello dei sensi di colpa. Comportati bene, Maria, me l’ha detto anche prima di morire. Usa la creanza, e vedrai che la vita ti sorride. Solo in Veneto potevano venirsene fuori con una parola così, la creanza, ovvero l’essere per bene. Ma solo agli occhi degli altri.
Io a 50 anni, con un lavoro che saltella e una vita stanca, un marito che mi ha mollato per una cecoslovacca, della buona creanza non so più che farmene.

L’ho data via. E  poi, a dirla tutta, sarò anche brutta e con la pancia che non so dove nasconderla, ma quando Attilio arriva a suonare alla mia porta di casa, io mi sento che non son proprio così fatta male. Dentro e fuori.
Attilio, pensionato e vedovo, l’ho incontrato al bar. Abita a due isolati da casa, mi fa compagnia tutte le sere. Si accomoda al bancone, chiede una Sambuca con la mosca e ogni tanto ci parliamo. Mi racconta la sua giornata, io finisco a volte a far i conti delle spese ad alta voce e lui mi dà una mano con le addizioni. Anche lui ha la pancia. All’inizio pensavo gli facesse schifo, ma a lui interessa altro.
E io glielo do, l’altro, e mando a quel paese tutta la più buona creanza. La prima volta che mi ha chiesto se facevo una cosa per lui, mi aspettavo che mi chiedesse soldi. Anche lui non se la passa bene.
Quella sera si era offerto di portarmi a casa in macchina e visto che nel locale c’erano dei tipi che non mi piacevano, gli ho detto di sì. E in macchina mi ha chiesto se facevo quella cosa. E io mi sono girata e gli ho tirato uno schiaffone, con tutte e cinque le dita rigide.
“Screanzato”, gli ho urlato.
Che la creanza lui non ce l’aveva mica nel domandarmi una cosa simile. A settant’anni.
“Me la fai annusare?”, ripetè, lui, tenendosi il viso. Ma lo disse con un tono di voce più profondo e forte, quasi arrabbiato.
E io rimasi a pensare a tutte le volte che avevo fatto le cose con modo, senza mai andar contro la mia condizione di figlia di cristiani che andavano la domenica a messa e mai hanno bestemmiato, in pubblico. E mai si sono sfiorati, in pubblico.
E l’ho portato dentro casa, mi sono stesa sul letto, ho tolto le mutande, ma ho lasciato la gonna e pure la cintura, quella elastica che mi serve per nasconder la pancia. E Attilio è rimasto fermo, in piedi, a fissarla. E io ho chiuso gli occhi, che avevo vergogna. E lui non si è mosso. Io allora ho riaperto gli occhi e ho pensato che guardava la pancia, da sotto la gonna alzata e invece lui guardava giù, tra le gambe. E aveva gli occhi dolci.
Mi ha detto che non era mica vecchia e brutta, pareva la vagina di una quarantenne. L’immaginava sempre umida.
Io gli ho risposto che non sapevo, francamente.
Allora Attilio ha preso la seggiola vicino al letto, si è seduto appoggiando le mani al materasso e ha guardato. E poi mi ha detto: toccati.

Erano così tanti mesi che non lo facevo, che stavo sempre a far i conti, e allora ho mosso lentamente il dito per sfiorare la clitoride e il fremito mi ha fatto tornare la vergogna. Ma ho continuato  a muovere il dito, più veloce e poi andavo a sfiorare l’ingresso, mettevo e toglievo il dito e poi l’ho lasciato, dentro  e  sentivo sobbalzare.
Ho smesso di annotare spese, bollette, scadenze, l’affitto quando Attilio si è fatto avanti e ha appoggiato il naso tra le mie gambe. E tutto l’odore se l’è preso lui e se ne è andata anche  l’ultima buona creanza che mi era rimasta.

Per ordine del partito

Avevamo organizzato tutto, per bene. La gelateria era bellissima, un posto dove i ragazzi del quartiere potevano stare ogni sera in compagnia, mentre i genitori andavano a ballare il liscio. C’era la Coca cola, due tipi di birra alla spina per i più grandi. Avevamo già dato tutti i nomi alle coppe di gelato: c’era la Berlinguer, panna e cioccolata. La Cuore, dedicata al meraviglioso inserto de L’Unità, con il melone, le fragole e il curacao, quella sostanza azzurro puffo che mai ho capito bene a cosa serviva davvero. Dicevano che era perfetta per i cocktail e allora io dissi alla Rina, la più grande del gruppo, che dovevamo anche inventarcene qualcuno per i clienti più esigenti, che anche se stavamo in campagna, ed eravamo tra compagni, ci voleva un tocco di classe.

Allora mandammo a cercare il Mirco, per il test.

Un mese prima avevamo organizzato una festa di quartiere, due giorni di musica e bar a prezzi popolari, e avevamo testato così l’organizzazione della gelateria. Solo che la festa era contro gli spacciatori e quelli arrivarono di notte a bruciarci il tendone.

Un avvertimento, dissero alla sezione “Di Vittorio”. Ma dopo un mese e con i preparativi della festa alle porte, oramai non ci pensava più nessuno agli spacciatori e alle lamiere bruciate del bar dei “ bocia”. C’era la gelateria da allestire e mio padre, segretario della sezione, girava per il tendone scuotendo la testa.

“Chi fa le notti, pure qua?”.

“Noi”, gli urlai contro mentre controllavo lo scatolone con gli ombrellini di carta per le coppe di gelato. I ragazzi applaudirono con un urlo: “Sìììììì, facciamo noi la prima notte. Saremo svegli e attenti”, urlò Dante, contento come una Pasqua.

Le notti erano i turni di guardia per presidiare l’area della festa dell’Unità, quando era chiusa. Ogni anno la sicurezza veniva aumentata, sempre senza spendere un soldo perché si lavorava gratis, per la Gloria, si diceva. E tutti a chiedersi se era figa, poi,‘sta Gloria.

Si aumentava ogni anno la sorveglianza perché dalla cucina, di notte, sparivano baccalà, pacchi di farina, il pesce custodito nelle celle frigo. Pure le damigiane si erano fregati.

“Te vai a casa con tua madre”, fu la risposta di mio padre.

Ci volle una serata di pianti a dirotto e implorazioni per convincerlo che la prima notte di guardia alla gelateria l’avremmo fatta noi ragazzi, tutti e dieci, nessuno escluso. Età media, 15 anni. La Rina, pochino di più.

“Sì, va bene. Ma dovete comportarvi bene, capito?”. Mio padre era uno dal cuore d’oro e dalla parlata ringhiosa, che andava ascoltato; sapeva farti male senza neanche far partir lo scapaccione sul culo. Solo l’idea che lo schiaffo era in arrivo, nell’etere, bastava a provocar dolore.

“Giuro che saremo bravissimi, papà”, promisi con il miglior sorriso.

Alle 18 del giorno di inaugurazione, arrivò il Mirco, giubbetto di jeans, e pantaloni stretti, in bicicletta.

“Uhe, compagni. Prossima settimana parto, vado alle Frattocchie. Compris? Sì, vado alla scuola del partito, si cucca un casino eh. E poi divento dirigente nasionale”. Mirco era un piccolo mito, per noi ragazzi della FGCI, che non era la federazione giuoco calcio, ma la federazione dei giovani comunisti. Dei figli dei comunisti. Noi eravamo rimasti intatti.

Mirco aveva vent’anni, chiamava tutti compagno e compagna, era eccentrico e alto una spanna, con la camminata da spaccone e il cuore d’oro. Amava le donne più di se stesso, e si sacrificava per la causa del partito.

Tutti lo vedevano passare e pensavano al furto, da lui ordito, alla  manifestazione studentesca dello striscione degli anti-social. Al corteo seguente, volarono pugni, finché il Mirco e lo striscione non vennero lanciati in campo San Geremia dentro l’ala controllata dagli autonomi. Lui si sacrificò, mormorando solo “Viva el Che”.

“Cosa devo fare?”, ci disse appena arrivato dentro lo stand della gelateria.

“Assaggiare. Che te ne sai”, rispose la Rina, con la shaker in mano.

E cominciò la prova generale dei cocktail da scrivere sul menù.

Paietta, rhum e cola. Poi tutti lo chiamarono Cuba libre.

Ingrao, vodka lemon.

Internazionale, curacao, southern confort e arancia.

Mirco assaggiava e diceva che andava bene, al primo colpo. Rina shakerava e aumentava le dosi. Lui gustava, di nuovo, con posa da sommelier esperto e diceva: “Aumenta un attimo ed è perfetto”.

Io, nel frattempo, gestivo la distribuzione di coppe Gelato e c’era il rosso, la teppa del quartiere, appollaiato al bancone a fissarmi senza parlare, e io mi sentivo per la prima volta femmina, non donna, che é un’altra cosa, ma allora capivo solo la sensazione, non il significato.

E la Rina mi dava di gomito, dietro il banco.

“Al rosso, cavoli se piaci”, mi diceva e io la guardavo strana: “Ma, se non mi parla”. La Rina, allora, smetteva di shakerare e mi fissava: “Sì, ma el varda. E dove xe ben”.

La prima sera scivolò via, tra errori e risate, occhiate del rosso e commenti etilici del Mirco. A mezzanotte, crollammo tutti spossati sulle seggioline dello stand. “E’ andata, adesso tutti svegli, eh, che abbiamo una notte di guardia da fare”, dissi ai ragazzi.

Il rosso andò silenzioso, come era venuto, scopato via assieme alle immondizie della chiusura.

Mirco, ubriacato dalle pozioni della Rina, stramazzò su una panchina.

Mio padre, arrivato per l’ultimo controllo, prima del rientro a casa con l’incasso della festa, lo guardò dormire e sentì dentro un moto di affetto.

“E’ stanco il compagno? Deve aver lavorato tanto”, disse.

E noi, annuimmo, trattenendo paura e risate.

Poi lo guardammo, il Mirco che dormiva con la bava alla bocca. Noi quindicenni avevamo sonno quanto lui, non capivamo mica chi ce lo faceva fare di restare tutta una notte svegli a far la guardia al campo della festa, noi eravamo bambini, figli di comunisti che le ferie le usavano per far la festa dell’Unità e dopo dieci giorni finivamo intontiti a sentir nelle orecchie solo Inti-Illimani e  liscio che non ne potevamo più, di charango e zumpapa.

Perché la notte? Per esser grandi e liberi, per sentir che contavamo. Restammo tutti e dieci e per sconfiggere il sonno, Niccolò, figlio del Gino e della Ida, lanciò l’idea. “Perché non giochiamo a rugby nel campo? Come palla, usiamo i meloni”.

E così alle due di notte, nel campo della festa dell’Unità iniziò la sfida. Ragazze, cinque. Ragazzi, cinque. Mirco, squalificato per manifesta incapacità. Obiettivo: fare meta allo stand della cucina.

Passa e corri, passa e lancia, ocio, spetta, varda mona, tira qua, tira là, ridi e scherza. A correre con il melone sotto il braccio, avanzato dopo una serata di coppe gelato con la frutta, ci sentivamo tutti bimbi felici.

Un passaggio eccessivamente veloce di Niccolò, intercettato dalla Rina, portò allo schianto del melone al suolo, con conseguente squarcio, e risate di condimento. Non avete mai visto un melone esplodere? Non potete capire. Ci ritrovammo in centro al campo, in dieci, a ridere a crepapelle, tutti sporchi di pezzi di melone e finimmo in gelateria a bere, che avevamo sete, ma l’unica cosa fresca era la birra rossa e andava giù che era una meraviglia. Era agosto e faceva caldo.

 Mettevamo ad ogni giro pure i soldi in cassa, che eravamo figli di compagni e non si mangia e non si beve a scrocco, al massimo ci si fa lo sconto. Di sete ne avevamo  così tanta che Mirco ci svegliò la mattina dopo alle otto e noi eravamo tutti stesi a terra, dentro la gelateria, abbracciati uno con l’altro. E lui urlava e noi non sentivamo. Eravamo felici dentro, ne sono sicura. Ci sentivamo compagni, figli di compagni, parte di un qualcosa di vero e che si toccava con mano, e se passava per Guccini e gli Inti-Illimani, valeva la pena.

 Quella notte rubarono tutte le costicine. Entrarono nel campo e si portarono via la carne dal frigo, mentre noi ci riposavamo dopo la partita a rugby col melone.

Nessuno di noi ammise il gioco, ma i pezzi di melone e il fusto di birra finito, ci giocarono contro.

Da quella notte, per ordine del partito, ai ragazzini le notti di guardia in festa furono vietate.

Il cuoco sa aspettare – visto da Elisa Gianola

A me gli esperimenti piacciono. Un racconto letto e interpretato da una  fotografa.

Questo è ben riuscito. 

foto di Elisa Gianolla

Leggo

La Carogna la leggo pure. In questo nuovo blog, riprendendo la passione della lettura, che ha dato vita a Collettivovoci.tumblr.com leggerò anche alcuni dei miei racconti

Una pacifica agitazione

Ti guardo e le budella si mettono in movimento, il succo gastrico circola, su e giù, fa caldo dentro questa pancia.

Ti guardo camminare verso di me e dentro la testa sono solo un metro che calcola i centimetri che separano la mia pelle dalla tua.

La sentirai, tutta questa agitazione di budella, di succhi, di scossette, di fame, che ho dentro?

Lo vedrai che sto sudando, che ho caldo, che ho il cervello, che ogni centimetro che scompare, entra in una modalità fatta di sete di midollo, che ho le ossa molli?

Lo vedrai che sono qui, imbarazzata, con questa pancia brontolona, che detta i miei passi e mi incita a ridurli in fretta questi centimetri?

Mi stai davanti e mi sorridi, adesso, e questa fame dalle ossa passa a muover la bocca, le dice che c’è da fare e da dare.

Per aver pace.

La carogna

Edoardo si accese una sigaretta, poi andò a cercare la coperta che teneva sulle ginocchia per tirarsela verso la pancia. Dopo una giornata caldissima era arrivato chissà da dove un venticello fresco, quasi screanzato e sentiva i brividi addosso. Era mezzanotte ma Edoardo voleva restare ancora seduto in veranda a sentir il rumore degli alberi.

Dei passi nel prato davanti casa. Edoardo girò la testa, fermò la mano che stava portando la sigaretta alla bocca. “Chi è?”, disse guardando in direzione degli alberi. Non ottenne risposta. Eppure il rumore l’aveva sentito. Passi lievi di piede leggero che cammina a piedi nudi sull’erba bagnata della sera. Passi convinti di chi non sta cercando di non farsi sentire. La camminata di chi non ha paura. “Chi è ?”, tornò a ripetere.
Ottenne solo il silenzio come risposta.
Poi sentì caldo al viso, la sensazione di una mano che sfiora guancia e capelli. “Emma, sei tu?”

Edoardo si portò le mani agli occhi, con un moto di stizza. Si stupì di ricordare ancora quel nome. Avrebbe voluto cavarli e lavarli, uno ad uno, quegli occhi che non servivano a niente.Si mise a girar la testa da un lato all’altro della veranda, come se nell’oscillazione nervosa qualcosa si potesse intravedere. Un bagliore, un movimento. Niente, c’era solo buio. E la carogna, dentro.

Si alzò di scatto dalla sedia e andò, con le mani, a cercare il bastone appoggiato alla balaustra. Cominciò a camminare su e giù per la veranda. Il bastone picchiava a terra, sul legno del terrazzo, con colpi irrequieti. Dentro gli stava montando quel fastidio, quel bisogno di distruggere. Gli sarebbe piaciuto aver in mano un bastone grosso, nodoso, e cominciar a tirar colpi al cielo, agli alberi, ai pensieri strani che gli passavano per la testa. Fino a romperli, uno per uno. Si ritrovò davanti alla sedia, la riconobbe dal suono diverso del colpo del bastone sul legno. E allora tirò un calcio, fortissimo, che fece volar a terra la sedia, con un botto rumoroso. Girò la testa verso il giardino, cercando di respirare. Doveva calmarsi. Avrebbe pagato _ pensò _ chissà che cosa per vedere un lampo di luce, un raggio di sole che gli facesse lacrimare l’occhio, un colore.

La pelle di Emma. Ancora lei. Per alcuni giorni, dopo l’incidente in moto, gli amici gli avevano portato sue notizie. L’avevano vista al mare, dal giornalaio, al bar. Gli occhi bassi, coperti dagli occhiali. Piangeva.
Ernesto lo prese in disparte: “Se vuoi vado io, le spiego tutto e la avviso che sei in ospedale. Te la porto”.
Ma Edoardo lo zittì: “Non è importante, io non ci penso. Perché dovete farlo voi?”. E così i discorsi, cadendo nel buio, finirono con l’essere dimenticati. Il buio si era portato via tutto, come quando butti la sigaretta nel cesso e tiri lo sciacquone.

Edoardo sentì la carogna agitargli le budella. Provava odio. Per tutto. Persino per il nero che gli era amico fidato. E si ritrovò a pensare che avrebbe volentieri spaccato qualsiasi cosa pur di riveder quegli occhi verdi, i capelli castani, il naso. Avrebbe buttato giù un muro a testate pur di rivedere quel culo che gli sorrideva sempre. L’aveva sognato, qualche volta, e si era eccitato anche se era solo in penombra. Per calmarsi aveva dovuto masturbarsi. Emma gli aveva fatto da subito quell’effetto. Lei gli era apparsa davanti un giorno. E lui da quel momento aveva sentito solo fame. Delle labbra di Emma, del corpo di Emma, del suo odore. La faccia in mezzo alle gambe.

“Basta”, urlò Edoardo verso gli alberi nel giardino e si mise a sbattere il bastone, una, tre, venti volte, contro la balaustra della veranda. Lei era solo un passatempo. Non era bella, non era dolce, non aveva uno sguardo che lo spaccava. Non era vero che ogni volta che la sfiorava e la sentiva ridere, si sentiva fatto di vetro e che quando lei lo stringeva forte e gli ansimava all’orecchio, lui si sentiva pane. Non aveva fame, non voleva sfamare. Non sentiva niente, non voleva niente. Portò la mano, tra le gambe, sentì la carogna gonfiargli il cazzo e fargli male. Scosse la testa velocemente. Solo il buio poteva calmarlo.

L'incrocio

Le giuro, signor commissario, che non è come pensa lei, io quell’uomo non lo conosco.
Ah, lei sa che ci ho vissuto assieme due anni. Gliel’ha detto la vicina.
750 giorni, commissario. Abbiamo vissuto assieme due anni e venti giorni, esatti.
Ecco, io so chi è, ma quando è successa quella cosa lì, io non lo sapevo, quindi se non sapevo chi era come faceva ad esserci intenzione da parte mia?
Non mi crede, lo leggo nei suoi occhi.
E del resto, in condizioni normali farei fatica a crederci pure io,
se non fosse che è capitato proprio a me e quindi le posso testimoniare che è tutto vero.
Ho agito con dolo, lei dice.
Dolo è un paese vicino a casa mia, commissario. Ci volevo comprare casa, anni fa. Perché c’è il fiume. Mi viene da sorridere a sentir come lo pronuncia, commissario, Dolo, ma lei ha la faccia dura di chi ha deciso che io ho torto e vado punita.
Che mi vuole mandare in galera? Aspetti, non corra subito alla soluzione.
Le cose sono andate in modo diverso da come le vede lei, mi lasci almeno provare a raccontarglielo un’altra volta.
E stavolta lei mi deve seguire bene, con attenzione.
Non si fermi alle evidenze, vada oltre per una volta. Provi ad immaginarsela la scena di quella cosa lì.
Allora, io ero in macchina, ferma all’incrocio.
La radio trasmetteva “I’m on fire” di Bruce Springsteen. Bella canzone, vero?
Ah, a lei non piace Springsteen. Strano, è la prima persona che sento dire una cosa del genere. Comunque, dire
quel che ci piace o meno non ci porta diritti in galera, per ora. Niente sarcasmo, ok.
Allora, dicevo. Ero ferma al semaforo, c’era il rosso. Poi è scattato il verde. Ho girato l’occhio verso sinistra mentre facevo la curva per svoltare alla prima traversa a destra e allora ho visto quell’uomo passeggiare sull’altro lato del marciapiede con il suo cagnolino, al guinzaglio.
Chi era? Non lo so mica. Aveva una faccia anonima, di quelle che ti passano davanti tutti i giorni centinaia di volte e non ti provocano
manco un oh di interesse. Nessun effetto, glielo posso assicurare.
Perchè ho girato la faccia verso di lui, allora? Non lo so. Non riesco a darle una motivazione, è solo successo. Forse volevo vedere se la vetrina del negozio di scarpe era stata messa a posto, che la settimana prima i ladri hanno sfondato il vetro per portarsi via la cassa. L’ho letto sul giornale.
Sì, deve esser stato per quello che ho girato la testa. Ma non c’è stato un pensiero a dettare il movimento, gliel’ho detto che stavo cantando. Sì, cantavo Springsteen. Quello che a lei non piace.

Ho guardato l’uomo, poi la vetrina e niente, ho girato l’occhio verso destra e ho visto la ruota della bicicletta sulle strisce pedonali. E allora per evitare di finire contro la bicicletta, ho sterzato tutto a sinistra e il sobbalzo della ruota della macchina sul marciapiede
è arrivato subito e mi ha sorpreso per la fretta che ci ha messo e non sono riuscita a frenare, il volante vibrava tutto e io non lo tenevo.
Poi ho sbattuto contro l’angolo del negozio di scarpe ed è scoppiato l’airbag. Un paio di minuti sono rimasta con gli occhi chiusi, a sentire il mio respiro, muovendo le dita dei piedi per capire se ero viva o stavo andandomene all’aldilà.
Non c’era alcun tunnel di luce ma solo nero nei miei occhi e allora li ho aperti e ho alzato la faccia dal volante e ho visto un sacco di gente che guardava dentro dal finestrino e un signore che provava ad aprire la portiera della macchina e poi ho visto quell’uomo a terra, che urlava, che si teneva la gamba e mi urlava contro che ero
una bastarda.
Ma glielo giuro, neanche in quel momento, l’ho riconosciuto. Non vedevo altro che la bocca aperta che potevo veder l’ugola vibrare e poi il fondo nero da cui usciva quella voce rancorosa. Nessun tunnel di luce. Mi son detta che era meglio aspettare prima di scendere.

Lei continua a guardarmi con la faccia di chi non crede per niente a quello che dico, vero?
Ero dentro la macchina, mi toccavo la fronte, che era tutta sudata e fredda, e mi guardavo le gambe.
Quell’uomo invece steso sul marciapiede continuava a tenersi il ginocchio e a rotolare.
Poi è arrivata l’ambulanza, ho sentito il rumore della sirena e subito dopo era a fianco della macchina. Allora ho alzato la sicura della porta e ho fatto per scendere dalla macchina.
“Barbara sei una stronza, io ti rovino”, ha urlato quello a terra
e mi son fermata lì con una gamba giù e l’altra dentro la macchina a fissare quello sconosciuto che sapeva perfettamente come mi chiamavo. E l’ho fissato, perché volevo capire come aveva fatto a dire un nome a caso, azzeccando il mio. Ed è stato allora, che ho intuito in quel suo modo di scandire le lettere che compongono il mio nome, qualcosa di assolutamente familiare. E fastidioso.
Solo allora ho visto Paolo, l’uomo con cui ho vissuto per due anni. Son passati sette anni, commissario, non un giorno. Le persone cambiano, lui poi adesso è praticamente calvo e porta gli occhiali. Anche io sono diversa, sono dimagrita dieci chili.
E’ successo che mi sono dimenticata di lui. Sì. Questo le sto spiegando. Le pare impossibile… Anche a me pare incredibile che a lei non piaccia Springsteen, dottore.

Sette anni e non mi sono mai fermata una volta a pensare alla sua faccia. Mai una volta l’ho sognata. Lui nei miei sogni, all’
inizio, c’è capitato ma non aveva mica volto. Succede. Mi sono dimenticata di lui, della sua faccia e del suo corpo.
Del resto, non ne sento assolutamente la mancanza.
Solo la voce, quel modo fastidioso di scandire il mio nome, quello che utilizzava quando doveva rimproverarmi, e le assicuro che capitava tutti i giorni, non l’ho mai dimenticato. E solo quando mi ha urlato contro , l’ho riconosciuto.
E’ andata così.
Non c’era giorno, in quei 750, dottore, che non partisse la critica, per qualcosa che facevo o non facevo.
Non c’era volta in quei due anni e venti giorni che ho vissuto con lui, stirandogli le camicie e preparandogli la colazione, che non mi trovasse imperfetta.
750 giorni, dottore, di recriminazioni, critiche e sfottò. Per come ero, per come volevo essere.
Li ho contati, sì, i giorni che ho passato con lui.
E quindi se ricordo, lei dice, c’è stata eccome intenzionalità da parte mia. Potevo far a meno di sposarmi, eh? Ma guardi che l’anno che abbiamo passato da fidanzati, prima del matrimonio, Paolo mica era così. Anzitutto il mio nome lo sussurrava, ansimandomi sul collo e chiedendomi se gliene davo ancora…Poi era gentile, veniva a prendermi al lavoro. Si andava al cinema, poi in pizzeria e poi a far l’amore in Riviera del Brenta, in uno dei tanti punti poco illuminati della Statale. Lui preferiva farlo vicino alla villa La Malcontenta, che gli piaceva tanto. Mi diceva anche che un giorno me l’avrebbe comprata. E sussurrava il mio nome, baciandomi il collo, prima di aprir la portiera e lasciarmi davanti casa. Poi, da sposati, siamo andati a vivere assieme in un appartamentino in centro. E io mi sono accorta subito che non era mica l’uomo che veniva a prendermi al lavoro, che mi trovava irresistibile e unica. Non sapevo mica chi era quell’individuo che mi trovavo attorno. Ha cominciato a guardar tutto quello che facevo, a criticare ogni gesto. Sussurri? Manco un fiato sporco di vino. Ho resistito, gli ho dato il beneficio del dubbio; ho pensato che anche per lui, abituato a star da solo, era difficile all’inizio vivere in due.
Poi, alla fine, non ce l’ho fatta più e l’ho cancellato.
Puff, via. Sette anni di pace.

Insomma, con tutta la fretta che ho avuto di dimenticare il mio ex marito dovevo andare ad incontrarlo ad un incrocio,
mentre sterzavo per evitare di investire un ciclista. Se è successa quella cosa lì, è solo colpa della sfortuna.
Nessun dolo, nessuna intenzione. Solo sfiga.

Rida pure, dottore. Lo sfortunato è il poveretto che ho investito.
La pensi come vuole, lei che pretende di essere capito per la sua totale mancanza di orecchio musicale, visto come mi tratta
Bruce Springsteen.
Lei dice che se la passa peggio quell’uomo, con il bacino fratturato. Sicuro? A lui basterà un gesso e un pochino di fisioterapia per riprendersi.
A me, invece, ci pensi un attimo, lei che è così certo di tutto, chi è che mi ridà due anni e venti giorni di vita?

La cleptomane

La prima volta era successo con un paio di mutande, di cotone, grigie. Lui le aveva lasciate sul pavimento, a fianco del letto, e lei, che si era alzata per andare al bagno in piena notte, le aveva calpestate. Poi le aveva raccolte e annusate e ci aveva ritrovato il suo odore. Un misto di melissa e pepe bianco.
Quell’odore la lasciava senza fiato, capace solo di chiedere, a voce bassa, ancora. Spesso ci aggiungeva un per favore.
Stringeva le mutande tra le mani quando si mise a sedere sulla tazza del water e fu un gesto istintivo allungare il braccio e metterle nel primo cassetto a destra del mobile del bagno.
Due giorni dopo, cercando una forcina per i capelli, riaprì quel cassetto e ci trovò dentro le mutande grigie e si disse che era stata sicuramente colpa della sonnolenza se erano lì dentro.
Lui, alcuni giorni dopo, tornò ma lei non gli disse niente e manco gliele restituì. Fece solo finta di non ricordarsene più.
Invece, quando era sola, ogni tanto apriva il cassetto e toccava le mutande e sentiva più lieve l’assenza di lui che era sempre in viaggio e solo ogni tanto, quando poteva, tornava. Dopo le mutande di cotone, fu la volta della maglietta bianca, del fazzoletto con le iniziali ricamate, della cravatta blu e di un calzino nero. Tutti finirono nel cassetto del bagno, a farsi compagnia.
Un pezzo di cotone non fa un corpo; una cravatta non ricrea un volto che rasserena. Lei lo sapeva e si sentiva stupida a praticare questa sorta di cleptomania amorosa, ma quando arrivava la smania dell’arraffamento lei sapeva solo agire, lasciando i sensi di colpa e la vergogna ai giorni successivi. Quando era sola e apriva il cassetto, l’euforia del ritrovare intatto l’odore di lui, giustificava, man mano che la consapevolezza cresceva, il senso di vergogna per la sottrazione. Talvolta, però, il rossore le accendeva il viso quando incrociava il suo stesso sguardo allo specchio, mentre annusava la maglietta bianca di lui.
Allora doveva richiudere in fretta il cassetto e non pensarci più, alla smania.

Non aveva mai rubato niente nella sua vita, neanche una caramella dal cesto sul banco del panificio dove andava, quando era piccola, a comperare il pane. Al cesto non ci arrivava e lei lo fissava dal basso e se lo immaginava pieno di dolci succosi e grossi, da masticare lentamente, con la guancia gonfia di piacere. Un giorno, una signora urtò il cestino e le caramelle caddero a terra, spargendosi sul pavimento, e lei, incitata dalla madre, le raccolse tutte e poi le passò alla signora, affinché le mettesse a posto. Uscendo si accorse di una caramella finita vicino alla porta e la prese. Aveva una gran voglia di sentire che sapore aveva. Ma sua madre, che non la perdeva mai di vista, le ordinò di consegnare la caramella e lei subito, ubbidiente, la rimise sul pianale del bancone senza alzar lo sguardo verso il panettiere che la invitava a tenerla.

Crescendo si era sempre comportata bene, senza una marachella, una piccola follia.
Era una persona per bene. Si era laureata con il massimo dei voti, aveva trovato un posto da segretaria in una azienda e si pagava il mutuo dell’appartamento, comperato a Marcon, in quello che era un paesino destinato a diventar anonima periferia della grande città. Alla soglia dei quarant’anni si sentiva, a volte, una donna noiosa, che non aveva provato mai l’euforia di un gesto non dettato dal suo cervello fin troppo ben educato.
Si sentiva una che non aveva mai vissuto davvero, che non sapeva cosa fosse l’euforia.
La pensava così davanti al caffè della mattina, nelle giornate freneticamente noiose, che seguirono, finché non incrociò lui. Erano uno a fianco all’altra al bancone del bar davanti al tribunale. Lui beveva un cappuccino, lei il secondo caffè della mattina. Lui la fissò per un attimo, lei si sentì osservata e girando lo sguardo lo vide sorridere prima di andarsene.
Lei sentì il cervello spegnersi, e qualcos’altro tirare, dentro, come un filo che imponeva un sussulto, ritmico, dalla vagina fino alla pancia, e si mise a camminargli dietro, seguendo i suoi passi e conteggiando il numero di strattoni interni, finché non vide dove lui lavorava. E poi tornò indietro da sola, pensando nei giorni seguenti spesso a quel sorriso, e ritornò altrettante volte sui passi compiuti, frenetici ma non più noiosi, finché non lo incrociò di nuovo, per strada e lui le sorrise ancora, passandole a fianco e poi si girò chiedendole se aveva bisogno di aiuto. E a quella domanda, gli strattoni interni tornarono a farsi sentire e lei si udì perfettamente dire: “ Cercavo te, in verità”.
Quei sussulti interni tornarono, poi, ogni volta che lo vedeva, lo sfiorava e chiudeva gli occhi. Duravano, fin quando, sfinita, gli si addormentava a fianco dopo avergli chiesto ancora, per favore. Ora resistevano anche all’oblio della sua partenza, al corpo che si fredda e rallenta il sussulto mentre il cervello cerca di riguadagnarsi lo spazio che conviene.
Bastava aprire il cassetto, ammirare il bottino, annusarne il profumo e il ritmo tornava, tra vagina e pancia, a scandire le ore.