Prendeva trecentomila lire al mese e ne arrivava ad ospitare anche venti per volta. Che facevano sei milioni al mese. Un angolo dove posare il tappeto per pregare veniva diecimila lire al giorno. Tanto spazio ce n’era, la sua casa era grande. Su due piani, con grandi finestre. Riscaldamento? No, che si arrangiassero quei quattro “onti”. Per quei soldi, all’hotel dei diseredati, mica c’era spazio anche per un degno riscaldamento. I materassi li metteva a disposizione lui, venti o di più se c’era richiesta, gettati direttamente a terra senza troppi problemi. Le preghiere erano permesse solo nella sala al pianterreno e ogni problema andava risolto con il custode. Per i bagni, si faceva a turno. Chi prima arrivava, era contento. Unica regola, alle 7 di mattina, tutti fuori. Anche se nevicava, anche se un lavoro non lo avevi o eri in preda alla febbre e alla diarrea, entro le sette dovevi esser fuori, con il tuo sacchetto pieno di stracci. “Nde a lavorar, onti”, era il richiamo. Ogni mattina via Wagner ospitava così il lento pellegrinaggio dei clandestini che lasciavano il loro hotel. Marocchini, albanesi, romeni, tanti nordafricani. Quelli che erano di religione islamica facevano in tempo a far la prima preghiera, poi si arrangiavano sul posto di lavoro o per strada, visto che dietro avevano tutto, anche il loro tappetino. Nulla si poteva lasciare nella casa, e quando rientravi la sera, rigorosamente dopo il tramonto per non dare nell’occhio – questa era una delle altre regole dell’hotel – ti cercavi il primo materasso libero, senza chiedere di tornare al posto dove avevi dormito la sera prima. Un martedì nel tardo pomeriggio il piccolo corteo di clandestini arrivò all’inizio della strada e trovò le luci delle sirene della polizia. E il custode, un ex pugile in pensione, zitto e stralunato fermo davanti al cancello. Un poliziotto di spalle gli parlava, con un tono della voce alto. Urlava quasi. Il vecchio pugile, Dante, stava zitto ma con gli occhi cercava di far segno al gruppetto che sopraggiungeva di andarsene, sparire. Erano bastate le luci delle volanti terrestri a metter nel panico i clandestini, che girarono subito i tacchi e se ne tornarono in strada, a passo veloce, per non farsi notare. Dante si rilassò e cominciò a ripetere al poliziotto con voce sommessa che lui era solo il custode della casa, che quella gente non la conosceva, e non sapeva quanto pagavano. Maria Ponchioni, che abitava in una casetta bassa davanti alla villa, ascoltava, con le braccia appoggiate al cancello della sua casa, e scuoteva la testa. “Lo sa quanti soldi prende il padrone, lo sa bene”, mi disse quando le arrivai accanto. “Quanto?”, le chiesi. “A mi no so, i dise trecentomila lire , dottoressa. Al mese. I xe schei sa e li ciama sempre onti”. Erano tanti soldi, sei milioni almeno al mese. Per dar da dormire abusivamente a clandestini. Un reato. Ma io volevo vedere in faccia chi era questo proprietario così prodigo nell’assistenzialismo, a caro prezzo. E così aspettai che la retata finisse, che le luci delle sirene si spegnessero e che Dante se ne andasse. Lo seguii fino al bar fuori della strada, aperto 24 ore su 24. Si accomodò al banco, bianco in volto e chiese un bicchiere di vino bianco. “L’ombra gliela offro io”, dissi, arrivandogli alle spalle. “Dottoressa cossa a vol ancora…”, fu la risposta dell’ex pugile. Gli dissi cosa volevo: il nome e l’indirizzo. E dopo la prima “ombra”, pagai tutta la bottiglia di prosecco che finì a fianco di Dante. Il sopracciglio con la cicatrice, forse un ricordo di vecchie botte, si alzò. Dante sorrideva. Gli piaceva bere, avevo colto nel segno e il regalo era ben gradito. Mi disse il nome quando era arrivato a metà della bottiglia, dopo aver raccontato che lui non c’entrava, era solo un custode. Prendeva 100 mila lire al mese e a lui bastavano. Me ne andai contenta, salii in macchina e presi la strada del Terraglio, direzione Preganziol. Arrivai all’indirizzo indicato, c’era un’altra villa, ancora più grande. Chiusa. Al campanello non rispondeva nessuno. Accanto c’era un albergo con una piccola trattoria. Entrai, non c’era nessuno al bancone. Urlai il nome del titolare. Arrivò dopo 5 minuti, era spuntato da una tenda blu di velluto pesante e si stava sistemando la patta dei pantaloni. Prima i convenevoli di rito, il suo sguardo che finisce sulla mia scollatura, la sua risata e la battuta. “Finalmente una bella signora, in questo posto di uomini e onti”. Sorrisi. Poi partì la domanda . “E’ sua la casa di via Wagner, vero?”. Vincenzino, questo era il suo nome, smise di ridere. “Sì, perché. La vuole comperare? “. No, gli risposi, pronta, volevo vedere le ricevute dell’hotel. “Quali ricevute, quale hotel, Lì c’è casa mia”, ribatté infastidito Vincenzino. Gli spiegai della retata, della casa sotto sequestro, dei 25 materassi trovati e dei racconti del vicinato. “Lei guadagna sulla pelle di poveri disgraziati. Sei milioni al mese. Quindi, cacci fuori le ricevute”. Vincenzino posò il bicchiere d’acqua che stava bevendo e passò dall’altra parte del bancone, con passo deciso, e urlandomi che mi voleva fuori dal suo locale in un secondo. Altrimenti, chiamava la polizia. Lo osservai meglio: capelli neri con evidenti tracce di forfora, due denti d’oro, tarchiato e basso. Una lunga catena d’oro che scendeva sul petto, visibile dalla camicia aperta. La collana sosteneva un enorme crocefisso d’oro e madreperla. Nella tasca dei pantaloni, c’era qualcosa. Forse un coltello a serramanico. Feci finta di non notarlo, ma feci un passo indietro e mi ricordai, che come al solito avevo lasciato la pistola in ufficio. “Per sua sfortuna, Vincenzino, la polizia sono io”, ribattei pronta, mostrandogli il distintivo che tenevo sulla tasca della camicia, sotto la giacca. Lui si fermò, evidentemente sorpreso, e tornò a sorridermi. E mi spiegò che aveva cominciato per dar una mano a quei poveri ragazzi, che lui aveva origini libiche e sapeva cosa era la fame. Ma che la casa era grande e quei poveri ragazzi dovevano in qualche modo concorrere alle spese del riscaldamento. E poi lui era buono, ogni mattina c’era caffè e latte per tutti e le brioches comperate al supermercato, quelle nel sacchetto di cellophane. E Dante, il custode, teneva pulito tutto. C’era persino sempre lo shampoo. Balle, un fiume di balle, raccontate da Vincenzino, per evitare guai.
Chiamò anche suo padre, don Mario, che arrivò tutto vestito di nero, con un bastone da passeggio. Vecchissimo, aveva la camminata di un ragazzino e l’occhio furbetto. “Piacere, don Mario. Mago per diletto”. Si presentò così e io scoppiai a ridergli in faccia. Era lui il mago di cui mi aveva parlato Dante, quello che faceva paura anche agli arabi perché rischiavi una fattura seduta stante , se non facevi quello che voleva lui. “Bella signora, siamo brava gente”, mi ripeteva Vincenzino, oramai spavaldo perché erano in due contro una donna. Senza pistola, mi dissi io, ma loro non lo sapevano. “Fuori ricevute e i soldi”, ripetei serissima e per confermare che non scherzavo, superai don Mario, dribblai il braccio teso di Vincenzino e mi diressi alla cassa dietro al bancone. Dove c’erano dei libri contabili, avevo visto poco prima. Mi misi a sfogliarne uno, poi un secondo. Trovai l’elenco delle visite all’hotel dei diseredati, evidentemente Vincenzino prima di andarsene al bagno, stava sistemando i conti del giorno. C’erano 5 milioni e 500 mila lire in una busta, la scritta con la cifra forse era quella di Dante tanto la calligrafia era stentata. C’era l’elenco degli “onti” del giorno, venti esatti. I soldi erano meno di quanto previsto, forse qualcuno non aveva pagato. Mentre guardavo, Vincenzino avanzava lentamente verso di me, chiedendomi di lasciar perdere o sarebbero stati guai seri. Che lui aveva amici importanti ed io non ero nessuno, ero solo una commissaria arrivata ieri con decorrenza “ancuo”, ripeté più volte. Lo squillo del telefonino ci colse entrambi impreparati. Era il mio e mi precipitai a rispondere . Era Otello, il capo pattuglia. Io neanche aspettai finisse di dirmi ciao: “Allora ispettore, siete qui fuori? Aspettate da tanto? Ah, non vedeva la mia auto. Ok, aspettate il mio segnale”. Otello non era scemo e aveva capito che era una richiesta di aiuto. “Avete fatto il controllo al terminale? Non risulta? Impossibile, si chiama locanda Antico Grappolo, non all’Antico Grappolo. Dai, ragazzi, è tardi per tutti, eh….sveglia!”. L’indicazione l’aveva avuta, massimo in 5 minuti le volanti sarebbero arrivate. Continuai a far finta di parlare al telefono anche se Otello aveva messo già giù. Presi il librone sotto braccio e la busta con i soldi e mi diressi alla porta, scansando un Vincenzino che si era accoccolato per lo spavento su una sedia. Don Mario alzò il bastone in aria, maledicendomi, quasi volesse colpirmi. Io mi diressi senza guardarmi alle spalle verso la macchina e accesi il motore. Buttai il telefonino sul sedile del passeggero e misi in moto, partendo a tutta velocità, inseguita dalle bestemmie di padre e figlio. Imboccai il Terraglio, direzione stazione e incrociai l’auto di Otello che a tutta velocità si dirigeva verso la locanda. Lo chiamai al cellulare. “Sono padre e figlio, Vincenzino e don Mario Capatone. Finisci tu il lavoro che io ho da fare”. Tornai al bar vicino a via Wagner e trovai Dante, oramai ubriaco, seduto su una sedia. Lo costrinsi a seguirmi e andai in stazione. Chi non ha da dormire finisce qui, specie da dicembre quando il Comune ha ottenuto che la sala d’aspetto sia aperta di notte per i senza tetto. Dante mi seguiva , con la faccia bassa. Mi misi in mezzo alla sala d’attesa, era piena di uomini e ragazzi, e cominciai a scandire i vari nomi che avevo trovato sull’elenco di Vincenzino. All’inizio nessuno mi rispondeva, poi un ragazzo, Ahmed, quando pronunciai il suo nome mi rispose con un cenno. Andai da lui e gli misi in mano trecentomila lire prese dalla busta dei soldi. Andò avanti così per due ore. Poi, a notte fonda, portai a casa Dante. Oramai aveva smaltito la sbornia. “Ha fatto bene dottoressa a ridargli i soldi, sono bravi fioi in fondo”, mi disse salutandomi con la mano. Non gli risposi niente, ripresi a guidare fino in Questura. Aveva collaborato, ma una denuncia se la sarebbe presa comunque. Nel corridoio mi aspettavano, seduti come due bambini in castigo, Vincenzino e don Mario. Mi guardarono con odio. Passai oltre, salutandoli sorridendo e facendo ciao ciao con la mano. “Buonanotte, onti”.
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L'hotel degli onti
Mattio
A me stava simpatico. Quando andavo al mercato con mia madre, lui c’era sempre. In un angolo della strada in mezzo ai banchi degli ambulanti, non mancava mai. Impossibile, non sentirlo. Lui cantava. Vestito di tutto punto, giacca e cravatta, pantaloni classici. Anche se l’abbigliamento era un pochino consunto, era ben vestito e pettinato come quei cantanti che vedevi nei documentari di Sanremo in bianco e nero.
Leccato, con la riga in parte, si dice dalla mie parti. Un foglio di giornale arrotolato oppure uno stecco di legno erano il suo microfono, tenuto stretto con forza nella mano chiusa a pugno. Lui cantava e basta, non chiedeva niente. Soldi sicuramente qualcuno glieli dava, forse nella speranza di farlo smettere. Perché, vi assicuro, l’intonazione non era granché. Io avevo capito che era uno dei tanti che chiedevano l’elemosina. Un pochino bizzarro certo, rispetto alla media di accattoni rannicchiati a testa bassa con accanto il cartello con scritto “Ho fame”.
“El xe mato, ma almanco qualcossa el fa”, diceva mia madre, sorridendogli quando gli passavamo davanti. L’ho rivisto anni dopo. Passavo in bus per via Pascoli e alla fermata a fianco della fontana del piazzale, l’ho visto. Era nudo dentro la fontana a farsi il bagno. Con tanto di bagnoschiuma. La schiuma, soffice come una gigantesca panna montata, aveva riempito tutta la vasca e lui ci sguazzava dentro, completamente nudo, ridendo come un bambino. Sembrava un principe nella Jacuzzi. Solo che la improvvisata Jacuzzi non era in una sontuosa villa ma a fianco di una strada frequentatissima del centro. In pochi minuti arrivò la polizia. Evidentemente qualcuno aveva segnalato che c’era un matto che si faceva il bagno in strada. Lui alla vista dei poliziotti cominciò a piangere, ad urlare, pregando che lo lasciassero lì. Arrivò anche l’ambulanza e se lo portarono via a fatica, tutto nudo. Provò anche a resistere ma erano cinque contro uno e alla fine dovette desistere. Lo sottoposero ad un Tso. Sigla che sta per trattamento sanitario obbligatorio. Ovvero sei così matto che ti ricoverano e ti imbottiscono di psicofarmaci al punto che sei talmente drogato che manco sai chi sei più. Lui, lo scoprii poi, si era dimenticato chi era già da tempo, da quando cantava al mercato canzoni struggenti d’amore anni Settanta. Mattio, così si chiamava o almeno lo chiamavano, era impazzito per amore. Questa è la leggenda: Mattio che si innamora a tal punto di una ragazza da reagire al suo No cantando in strada. Prima un’ora, poi due, poi dieci ore. Finché si dimentica che ha dei genitori, una casa, degli amici. Finché non dimentica chi è e si ritrova a vivere in strada, cantando 24 ore su 24. Cantava anche quando si faceva il bagno nella fontana di via Pascoli. Per la cronaca, la schiuma l’avevano messa la notte prima dei ragazzini: era stato il classico scherzo di adolescenti. Mattio alla mattina seguente, uscito dalla mensa dei Cappuccini aveva camminato fino a via Pascoli, aveva visto quella montagna di schiuma e ci si era tuffato dentro, trasformandosi in un re che si diletta con acqua e profumi. Cantava a squarciagola “La prima cosa bella che ho avuto dalla vita…”. Pensava ancora a lei, alla sua Dulcinea, che gli aveva spaccato il cuore in mille pezzettini con il suo no. Racconta la storia che passa di bocca in bocca, finché non sai più chi l’ha raccontata per primo, è che dopo la notte in ospedale, Mattio abbia smesso definitivamente di cantare. Silenzioso, girava per la città elemosinando come tutti gli altri. La barba lunghissima, i vestiti sporchi, i capelli arruffati. L’occhio annebbiato da fiumi di alcol: beveva di tutto, bastava fosse alcolico. E quando stava male, e questo capitava poi tutti i giorni, urlava in un modo così straziante che capivi che stava buttando fuori così tutto il dolore che non riusciva più a cantare. Era così intrattabile che non lo accettavano più nei ricoveri notturni e alle mense dei poveri. Era pericoloso, dicevano. Mattio, era diventato il matto cattivo. La canzone era morta nel suo cervello. Lui ci provava ma usciva solo quell’urlo straziante. Poi all’improvviso è sparito. Dicono sia morto, ma io mica ci credo. Secondo me è solo andato ad urlare altrove.
La stella alpina
Anzi, Marta pensò bene anche di girargli le spalle, ficcando la testa sotto il cuscino e mettendosi a guardar la porta della stanza. Senza rispondere.
Davide, stanco, fece altrettanto. Il sonno li avrebbe ammansiti tra poco, pensò, e domattina avrebbero visto tutto in maniera diversa. Non ci credeva ma voleva crederlo. Marta invece aveva la testa a centinaia di chilometri da quel letto sfatto. Dove? Mica lo sapeva Si tirò addosso le coperte. Aveva freddo e non aveva nessuna voglia di parlare e soprattutto di spiegare perché si ritrovava nel letto di uno che conosceva da poche ore e di cui in pratica sapeva solo nome, età, professione, indirizzo di casa. Lei sapeva che mentre baciava, toccava, sfiorava il corpo di Davide in realtà non pensava affatto a lui, ma a Samuele, che se ne era andato la settimana prima senza un motivo apparente: improrogabili impegni di lavoro. Samuele l’aveva chiamata il giorno prima per avvisarla della partenza, senza lasciarle il tempo manco di un saluto. E finora non si era fatto sentire. Non una telefonata, non una mail. Aveva lasciato nella cassetta della posta del suo palazzo soltanto una busta con all’interno una stella alpina, infilata in un sacchettino di cellophane. Ed un bigliettino. “Quando torno, parliamo”.
E Marta aveva passato i giorni seguenti senza parole e lacrime. Tra amici ci si lascia con il sorriso, ci si cerca quando si può. Non si puntano i piedi. Ma c’era quella notte passata svegli a guardar vecchi film e a bere vino rosso, con il plaid condiviso e poi c’erano stati i sorrisi, l’addormentarsi abbracciati sul pavimento, mezzi ubriachi, e poi al mattino, invece dei saluti di rito, mentre Marta, che si era svegliata per prima, si faceva la doccia, Samuele era entrato nel bagno, si era spogliato e si era infilato nella vasca con lei. E avevano fatto l’amore in un modo lieve e delicato, che Marta ogni volta che ci pensava ancora aveva i brividi. Poi Samuele non aveva più detto nulla. Dopo pochi giorni era partito. E lei si era sentita di colpo sola e passava le notti a guardar vecchi film e a bere vino, avvolta nel plaid che non era più condiviso ma solitario. Non perché lei si sentisse abbandonata; no era perché lui non avrebbe condiviso niente con lei. Le risate, le letture, i film, la bottiglia di vino, le discussioni avvincenti su qualsiasi argomento. Era amore? No, era affetto. Marta aveva voglia di chiedere, ma se Samuele non c’era, il dialogo era un monologo assurdo. E lei parlava solo a sé stessa, ponendosi domande senza risposta perché mancava l’interlocutore. E con le domande, cresceva il fastidio per una assenza che pesava. Ad ogni doccia, ad ogni film visto avvolta nella coperta. E nel letto, di notte, quando la fantasia corre veloce prima del riposo, e risenti a volte nitide le sensazioni più piacevoli e forti. Era come se la presa delle sue mani fosse entrata sotto la pelle e fosse rimasta lì, mollando calore poco a poco. Qualcosa Marta doveva fare e la festa a casa di amici con un invito allargato a tutti i conoscenti possibili, le era sembrato il modo migliore di liberarsi dal pensiero di Samuele, dal suo profumo.
Per una sera non ci avrebbe pensato. E infatti fu l’anima della festa, ballò per ore con le amiche con una sana allegria da quindicenni. E poi arrivò Davide con i cocktail, le battute e gli apprezzamenti. E con la sbornia che avanzava, la distanza tra loro si era ridotta. Lei ballava senza pensieri e lui la cercava, la tirava a sé e Marta non aveva voglia di resistere. E si lasciò andare. Quando Davide la portò a casa e la spogliò e poi le accarezzò a lungo il corpo, Marta non c’era per davvero. Lei era di nuovo nel bagno, sotto la doccia, con Samuele. Chiuse gli occhi, fece uno strano sorriso e ricambiò il favore a Davide ma tutto quello che faceva, con la bocca e le mani, non lo faceva a lui, ma a Samuele.
Un gioco perverso di presenza ed assenza, un corpo che agisce scollegato da una mente che si alimenta di un desiderio che in realtà è altrove. Per questo alla domanda di Davide, Marta scelse di non rispondere. Sarebbe stato decisamente difficile dirgli che aveva fatto l’amore con lui solo per non dimenticare un altro uomo.
Si svegliò la mattina più serena, anche se il mal di testa le rendeva difficoltoso il passo. Si avviò in bagno e si spogliò, pronta a farsi una doccia. Aprì la tenda di plastica e rimase a bocca aperta. Nudo, intento ad insaponarsi le spalle, c’era Samuele. La faccia sbalordita di Marta rivelò i suoi pensieri imbarazzati ma anche le mille domande rimaste senza risposta. “Che ci fai qui?”, le chiese Samuele.
“No, che ci fai tu qui _ ribatté Marta _ non eri via per lavoro? E che ci fai a casa di Davide?”. “Siamo coinquilini, io abito qui _ le rispose Samuele, ridendo _ E sono tornato ieri sera. Ho visto che dormivate e non vi ho svegliato”. Marta sentiva la pelle della faccia scottare, come in preda alle febbre e desiderò tanto di esser capace di sparire. Ma non era un super-eroe.
Invece aveva davanti l’uomo che desiderava e che aveva capito benissimo che la scorsa notte lei e Davide avevano fatto sesso. ” Ti sei divertita?”. Le parole di Samuele le echeggiarono in testa formando un eco, come se sotto la corteccia cranica non ci fosse più materia grigia, ma il vuoto. “Ti piace, Davide?”. Samuele proseguiva nelle domande e Marta taceva ma sentiva che erano in arrivo le lacrime. Samuele le posò una mano sulla spalla. “Sì, ci siamo divertiti ma non ho fatto l’amore con lui, nella mia testa l’ho fatto con te”, disse Marta con un filo di voce e vergognandosene. “E ti è piaciuto”, le rispose Samuele accarezzandole i capelli. “Sì, tanto”, replicò Marta oramai incapace di pensare prima di parlare.
Lui la attirò a sé dentro la vasca e la abbracciò. “Dobbiamo parlare, dopo”. E tirò la tenda.
Gigio, il marziano
Eravamo amici, io e il marziano.
La prima volta che vide il mare, mi chiamò al cellulare. Ricordo che era pomeriggio, e la sua vocina urlava dentro al telefono.
“L’ho visto, l’ho visto. Sono entrato dentro, con i jeans e la maglia!”
Gigio quel giorno era davvero felice. Quando chiuse la comunicazione, dopo avermi urlato per trenta minuti nell’orecchio la sua gioia e i giochi di spiaggia e le onde, io piansi. Di felicità. Chi era con me non ci capì nulla, ma poco importa.
Gigio aveva visto il mare, per la prima volta, a sessant’anni.
In realtà era come se ne avesse diciotto di anni, era come un ragazzino alla scoperta del mondo. Il mare, la pizzeria, la discoteca, le gite in montagna. Un diciottenne che viveva in un posto da vecchi, ospite di una casa di riposo .
Viveva in un corpo da vecchio in mezzo ad anziani non autosufficienti e per loro era diventato un simpatico punto di riferimento. Eccentrico, ma utile, e soprattutto allegro. Gigio accudiva il giardino, andava al mercato a far le spese per gli ospiti che non potevano muoversi oppure andava in farmacia a far le commissioni. E soprattutto nel giardino della casa di riposo aveva creato un angolo dove dava ospitalità agli uccellini abbandonati o ai volatili, che d’estate restavano soli per le ferie dei padroni di casa. A Mirano tutti andavano da lui a portargli gli uccellini trovati feriti, ammalati o abbandonati. Ma arrivava anche gente che gli lasciava il canarino per due settimane. Era come una pensione per volatili. Lui, felice, accoglieva tutti i nuovi amici, li accarezzava e li metteva nella grande voliera del giardino della casa di riposo.
A me aveva spiegato perché lo faceva. Era il suo modo di rifarsi da una vita passata in gabbia, controvoglia e soprattutto forzata.
Eravamo diventati amici nella sua precedente vita. Quando Gigio era un barbone che viveva al Macallè, in mezzo alle case diroccate del rione di Mestre a due passi da piazza Barche. Un giorno rischiò di morire: aveva freddo, aveva bruciato dei giornali dentro una casa diroccata e il fuoco aveva arso in fretta le assi marcite mandando in fumo lo stabile. Lui si salvò per miracolo e così il piccolo mondo del Macallè si accorse di lui.
Cominciò a vagare per i negozi, poi arrivò anche al mio ufficio. Non voleva soldi, chiedeva un pacchetto di caffè ed un chilo di zucchero. Ero incuriosita da un accattone che non chiedeva denaro ma solo cose che gli potevano servire per vivere in strada. Saliva le scale e sapevi che era lui: “Marziani!!!!” urlava non appena la porta si apriva, e io ridendo ricambiavo chiamandolo a sua volta, Gigio il marziano.
Un giorno venne a trovarmi, io ero al telefono e lo feci accomodare davanti a me, e finita la telefonata, dopo averlo visto così calmo osservarmi mentre lavoravo, ci provai. Gli chiesi chi cavolo fosse, che vita aveva alle spalle. Credo, non aspettasse altro. Mi raccontò la sua vita di bambino abbandonato dalla madre, spedito in orfanotrofio con un nuovo cognome e dopo qualche anno dichiarato pazzo, perché troppo vivace. Mi mostrò i polsi, piagati dai lacci di costrizione. I denti, scomparsi, mangiati dalle dosi di elettrochoc a cui venne sottoposto negli anni. Aveva girato i manicomi di mezzo Nord Italia. Ogni volta scappava, mi raccontò. Ma non sapeva dove andare, saliva su un treno e lo riprendevano alla fine. Tornava in manicomio, e giù dosi di farmaci e cure psichiatriche. Mi raccontò che in quegli anni aveva finito con l’abituarsi alla fine ad essere pazzo.
Non capiva niente, i farmaci lo rendevano un essere inanimato. L’elettrochoc gli strappava via i pensieri dalla testa e gli lasciava solo, dentro, un atroce dolore.
Pensava di essere pazzo e di morire da matto. Non so se tutti i suoi ricordi fossero reali o offuscati dagli anni di manicomio. So quel che Gigio mi confidò: che ogni giorno ringraziava il suo santo , Franco Basaglia che aveva conosciuto a Trieste, perché quell’uomo era riuscito a far chiudere i manicomi e regalargli la libertà.
Come molti altri, da incapace di intendere e volere, si ritrovò libero di colpo. Ma senza aiuti, riferimenti, amici finì sulla strada, passando da pazzo a barbone. E tornò a Mestre, forse perché quella città era l’unica che conosceva e qui era in fondo nato. Anche se da madre ignota.
La sua seconda fortuna fu rischiare di morire bruciato nella catapecchia del Macallè. Quartiere di lavoratori, gente per bene. Dove di notte si aveva paura a girare perché c’erano gli spacciatori. Ma lì la rete di solidarietà della gente aiutò Gigio, scampato al rogo. C’era chi gli pagava il caffè, chi il panino, chi gli assicurava il pacchetto di caffè e lo zucchero. Altro non chiedeva, andava dai frati a mangiare. Andò avanti così per alcuni anni, finchè non cominciò ad ammalarsi ed allora ci fu chi riuscì a trovargli un posto a Mirano, in casa di riposo. Lui pagava una parte della retta, con la piccola pensione che lo Stato gli passava. Gigio trovò una casa. E tornò a rivivere, si mise a fare tutte le cose che la vita in manicomio gli aveva negato. A sessant’anni vide il mare per la prima volta. Andò in montagna con gli scout e pure anche in discoteca dopo una serata passata in pizzeria. E baciò una donna. Me lo aveva raccontato in una delle sue telefonate. Era un segreto , mi disse. Tra amici. Ogni sua telefonata era una esplosione di felicità: urlava nella cornetta, chiamandomi marziana, e mi raccontava tutto quello che aveva combinato. Potevo essere in bagno, ad un convegno o a letto. Non importava, Gigio doveva raccontare.
Andavo a trovarlo in casa di riposo e mi mostrava gli ultimi amici pennuti arrivati nella grande voliera. Ed ogni volta gli occhi gli brillavano, e le rughe della vecchiaia sparivano. Mi prendeva le mani e cominciavamo a saltellare, come in un grande girotondo di ringraziamento. Come due amici, marziani.
La solitudine del titolista

Ma lo sanno i miei dodici collaboratori cosa è un dizionario? O lo hanno regalato alla San Vincenzo, destinato a scaldare i falò di qualche senza tetto? No, magari, il barbone, a differenza dei miei collaboratori, il dizionario finisce che se lo legge, se lo tiene come compagnia per le notti tristi, quando il vino non scalda e la solitudine avanza con la falcata di un esercito invasore.
Io di solitudine me ne intendo, e so che i libri sono meglio di certe amanti volubili. E mi deprime aver a che fare con tutti questi “Branson”, che non sanno ancora scrivere un articolo e che manco rileggono il giorno dopo il loro lavoro pubblicato. Giovani che si sentono giornalisti d’assalto, ma ragionano a moduli. Tot moduli, tot soldi e la regola è scrivere tanto. Per guadagnare. Li capisco, io ai miei tempi prima di esser assunto al giornale ho fatto il precario per cinque anni e i soldi non mi bastavano per pagare la benzina e mangiare e comprarmi una raffica di scarpe viste le suole che ho consumato.
Ma scrivere in un giornale non è solo un bel lavoro. E’ un impegno, un miglioramento quotidiano.
E questo i miei dodici collaboratori, invece, credo non lo sappiano affatto.
Io sono un deskista, una volta si sarebbe detto il titolista. Lavoro in un giornale di provincia da 25 anni. Di fatto, non faccio più il giornalista da sei anni. Anche se i vecchi amici di un tempo, la gente che mi ha conosciuto per i miei articoli sulla malasanità negli ospedali, mi telefona ancora e qualcuno, dice, rimpiange la mia penna avvelenata. Quando esco a passeggiare nel mio giorno di riposo, in paese tutti mi salutano con la reverenza che si usa ancora in campagna a chi ha un ruolo sociale. Ma io oggi sono solo un deskista. E un ruolo sociale manco so cosa sia. Faccio titoli. “Il sindaco tal dei tali apre ai comitati anti-traffico”. “Rapina vecchietta e scappa in scooter”. Alla fine sono una specie di cuciniere del giornale. Passo i pezzi degli altri, li metto a misura, tolgo strafalcioni e refusi, se serve cambio attacchi indecorosi, elimino una tempesta di virgole gettate a caso e poi preparo titoli e sommari, cerco foto.
Lavoro di “cucina”, altro che la caccia della notizia. Ogni tanto quando serve, mi chiedono ancora di scrivere ma finisco con il “passare” comunicati. Veline che vengono ridotte o allungate, a seconda dello spazio. E ogni giorno che passa, tutto questo diventa sempre meno divertente. Non mi innamoro più di niente. Del lavoro come delle belle donne. Tra le collaboratrici del giornale, alcune sono davvero carine. Ma sono giovani, ed io oggi solo solo un attempato deskista. Che ha perso il senso della notizia. E dell’amore.
Leggo cose che mi annoiano, figuriamoci se credo che i lettori faranno la ressa in edicola per leggere quel che scriviamo. Se mandassimo in stampa un giornale senza una parola scritta, pagine bianche che seguono pagine bianche, non farebbe differenza. E non c’è manco più il rito di inserire almeno una bella notizia al giorno. Si va a caccia dello scoop, della storia pruriginosa o sanguinolenta sperando di vendere di più. Il giorno dopo, noi e la concorrenza, scriviamo praticamente le stesse brutte storie, scritte male. Ma io ho un piccolo segreto, che mi aiuta ogni tanto a sorridere.
Un giorno ero solo con quattro pagine da disegnare e assemblare. Alla quarta pagina, un pezzo di una decina di moduli era saltato. Il buco di pagina andava coperto con altro e io non avevo niente da usare come riempitivo. Sono rimasto un’ora a cercare, tra telefonate ai collaboratori e ricerche sulle agenzie e tra le pagine web. Niente, io non vedevo una notizia che valesse la pena pubblicare. E allora, stanco e infastidito, mi è venuta l’idea: ho tirato fuori dal cassetto la raccolta di poesie di Neruda e ne ho ricopiata una. Tanto, mi sono detto, nessuno legge i giornali. La gente si ferma ai titoli, il più delle volte. E quindi nessuno si sarebbe accorto che al posto di un articolo c’era “Perché tu possa ascoltarmi”. Il titolo era completamente diverso, non c’entrava niente con la poesia. “Incontri di ascolto per cittadini”.
Sono andato a casa sorridendo ma poi, durante la notte, mi è venuto il rimorso. Mi sono sentito un impostore, avevo tradito la regola della notizia.
L’ indomani sono arrivato in redazione, preoccupato. Temevo che i capi si sarebbero accorti della sostituzione e che il direttore mi avrebbe convocato nel giro di dieci minuti per una sonora lavata di capo. E se se la prendeva di brutto, rischiavo un richiamo scritto da parte dell’azienda.
Ho passato la giornata come se fossi in attesa di un castigo e invece nessuno mi ha convocato in direzione, nessuno mi ha detto nulla. Neanche una telefonata di protesta da parte di un lettore. La poesia era passata assolutamente inosservata.
Da quel giorno, quando ho un “buco” in una pagina, non sto neanche a preoccuparmi: apro la raccolta di Neruda e pubblico un pezzo di una sua poesia. Intera o parziale, non è importante.
Uso solo le colonne in basso, per non dare nell’occhio. Evito di farlo più di una volta ogni quindici giorni.
Ma questo, lo ammetto, è diventato il mio momento di gioia. E’ un sabotaggio, quasi, ma mi piace così tanto, che la scorsa settimana ho tolto un pezzo su una sagra di paese che era una lista di date di ballo liscio, per inserirci una poesia mia. Poche righe che avevo scritto alcuni anni fa, dedicate ad una donna che ho amato e mai avuto.
Da un ripiego sono passato ad un sabotaggio lessicale premeditato, è vero. Ora vado al lavoro con un piccolo sorriso di soddisfazione. Alla mail del mio settore, che fortunatamente controllo io, arrivano alcune lettere di lettori che dicono di aver letto la poesia, che è loro piaciuta, che vorrebbero una rubrica. E chiedono ogni volta come mai mettiamo dei titoli così istituzionali e spesso per niente legati al messaggio del testo. Io le metto tutte da parte, nel mio archivio personale. E rispondo a tutti, così sono certo che non scriveranno di nuovo, magari al direttore. Spiego che si è trattato di un errore di impaginazione ma che segnalerò alla direzione l’interesse per un piccolo angolo della poesia. Insomma, vedremo cosa si può fare, gentile lettore che non sei disattento. Io ci scriverei anche : grazie di non essere una mosca bianca. Ma poi lascio perdere. Ora, comunque, una volta ogni 15 giorni sorrido alla mia scrivania. Sono un titolista ma ogni tanto, io, al posto di inutili notizie, spaccio poesia.