Archivi Tag: racconti 2009 - Pagina 2

Epinefrina

Il ferro è freddo, tu sei caldo. 

Posso sentire il tuo calore a un metro di distanza, senza neanche toccarti. Sudi mentre fissi la tua Smith & Wesson 686 che è ora nella mia mano sinistra. Me l’avevi data da toccare e guarda adesso. Io che la punto diritta al tuo naso, senza toccarlo e tu che sudi come uno che è appena stato in sauna. 

Lo sento il tuo cuore che batte all’impazzata, la vedo la goccia di sudore che ti scende sull’occhio; posso seguirne la traiettoria pazza.

 Ma il mio braccio resta teso, non mi sfiora l’idea di abbassarlo e di venire ad asciugartela quella goccia. E tu non fai niente, lasci che lei scenda sull’occhio fino ad accecartelo, poi lo chiudi di colpo con una smorfia di fastidio, ma stai fermo.

 Fissi il mio braccio che non si abbassa e la mia mano, che impugna la 686. 

La vedi anche tu la  tacca di mira contornata da una riga di colore bianco che mi consente di prendere la mira meglio. Ho a tiro il tuo naso, fisso il mirino e la striscia rossa al centro mi aiuta a individuare il bersaglio. 

Chissà cosa pensavi quando me l’hai messa in mano. Forse volevi impaurirmi? Farmi capire chi comanda ? 

Hai sbagliato i conti. Adesso il ferro ce l’ho io, e lo punto diritto al tuo naso. Se sfioro il grilletto, il colpo parte e ti centra in pieno e il tuo naso, bum, non c’è più. Accarezzo lentamente il grilletto, lo sfioro, come si sfiorerebbe l’ombelico di un uomo per riempirlo di brividi.

 Tu guardi, intuisci e sudi ancora di più, perché ti ricordi all’improvviso che la sicura l’avevi tolta prima, mentre giocavi a fare il duro che ha una arma. 

E adesso il tuo occhio, quello che si era chiuso accecato dalla goccia di sudore, è spalancato e la pupilla vibra, perché capisci quel che può accadere e hai paura. Hai paura di un bum e del tuo naso che esplode, e del niente improvviso. 

Non sentiresti neanche male, se premessi il grilletto sentiresti solo quel bum, il resto lo farebbe il proiettile che ti frantuma il naso. Poi sarebbe il nero.  

Ma non mi interessa ucciderti, manco mi è passato il pensiero veloce di farti del male. Quando mi hai messo in mano la pistola, il gesto è stato automatico, non cercato ma immediato, non pensato ma come un tic. La mano ha impugnato e il braccio si è alzato. E io ho preso la mira. 

Mi stupisco di essere in questa posizione, e tenerti sotto tiro, ma adesso che il braccio lo sento parte di me e non più a sé stante, mi vien da dire che mi piace vederti aver paura. 

Ieri mica ne avevi, quando mi hai mollato davanti l’ospedale e mi ha detto “ Ci vediamo stasera, che ho da fare. Chiama se hai bisogno”.

 Eri sollevato nel vedermi varcare la soglia dell’ospedale dove mi avevi fissato l’appuntamento per l’aborto. 

Mica avevi paura che potessi aver terrore, che potessi piangere da sola, mentre una cannula  aspirava quello che poteva essere nostro figlio. Mica eri là a tenermi la mano quando sono uscita dalla sala operatoria. Io avevo freddo e tu non c’eri. 

Avevi altro da fare, dovevi andare a tirare al piattello con gli amici o soltanto non ci volevi essere, non volevi sentirti parte di questo. 

Ma sapere che c’è tuo figlio lì in quella cannula che il medico sta aspirando, ecco, fa male dentro.  Anche se sai perfettamente che è la scelta più giusta. 

Non è un male del cervello, è un dolore delle ossa.  

E arriva anche se sai che quell’embrione non lo puoi crescere e farlo diventare bambino e vederlo nascere e piangere, e succhiare dal tuo seno. Non puoi perché sei sola, e non ce la fai a dargli quel che si merita ( un padre, una vita serena, giochi al parco, mai la solitudine e la povertà ). 

Ecco, io avevo male alle ossa, un male muto e continuo, come se non solo stessi abortendo ma mi stessero succhiando il midollo. E tu non c’eri. 

Era figlio anche tuo ma mi hai lasciato al freddo. E nel gelo sono tornata a casa da sola, ore dopo, in taxi. 

Da sola senza pensare e per non disturbare. Salite le scale e aperto il portone, mi sono seduta sul divano a battere i denti al ritmo del male muto e mi sono avvolta nella coperta. Mi serviva calore. 

Quando sei arrivato e mi hai chiesto come stavo e ho visto che manco mi sfioravi e sei andato a pulire la tua Smith & Wesson, con lo straccetto di panno bianco, tu, parlavi e pulivi e parlavi e pulivi, io diventavo ghiaccio. Non mi guardavi in faccia, evitavi i miei occhi e mi dicevi che era la cosa giusta, che eravamo giovani e senza soldi e senza certezze, manco  che questo amore potesse durare, dicevi.  Ma l’amore era già morto, tre ore fa, sul tavolo operatorio quando non hai avuto paura di lasciarmi sola. 

E adesso che sento l’odore della epinefrina che ti entra in circolo e il caldo del tuo corpo che teme di morire, io, adesso,  ho decisamente meno freddo. 

Linda

Guardarlo mentre dorme è  il secondo piacere della giornata. Il primo era stato vederlo eccitarsi davanti a me, e capire che quell’eccitazione era merito mio, solo mio.

Quando Mario si è tolto i pantaloni e mi ha detto: “ Guarda Linda, è merito tuo”, beh io mica avevo capito. C’è voluta la sua opera convincente per farmi sentire il piacere fine e duraturo dell’esser donna e di piacere, io che sono abituata a non esser vista, nella mia sempre troppo larga tuta da lavoro, unica donna in mezzo a tanti uomini, intenti a scaricar cassette della frutta ai mercati generali.

 Sono una fruttivendola e mi piace. Vendere frutta significa vender natura, vitamine, anche qualche pesticida, è vero, ma non vendo prodotti finti; io tratto solo frutta di stagione e anche se mi chiedono le fragole d’inverno, io non le ho e quindi mi sento la coscienza a posto. Credo che per ogni cosa ci sia il suo tempo e per me è anche vero che ognuno semina e raccoglie, quel che si merita.

 E io son donna dalle braccia forti e dalle gambe muscolose, abituata a sporcarmi le mani di terra. Non so usare rossetti e fondotinta, non so portare quella lingerie costosa che mi fa le cosce grosse. 

Non so sentirmi femmina, fino ad oggi. 

Ho sempre avuto una sola passione, il bustino. Con le stecche alte e i laccetti dietro che stringo con l’aiuto di mia sorella, quando voglio provare a sentirmi donna, io che vivo tutto il giorno in tuta e con le unghie nere di terra. 

Quando vado da mia sorella lo porto dietro, il bustino nero, dentro la borsa. E solo da lei lo indosso perché so che da lei posso giocare, come facevamo da bambine. E’ il mio momento. 

E’ solo mio e poco importa se torno a casa con la schiena a strisce per i solchi lasciati dai laccetti sulla pelle. A me piace ammirarli, quei segni, quando mi tolgo la felpa. E’ come un sapere che potrei anche io … 

Ci ho giocato anche l’altro ieri con mia sorella, a far finta di esser femmina. E ho fatto tardi perché siamo andate avanti a ballare fino a tardi con la bottiglia di Santiago sul tavolino del salotto e i Talking Heads di sottofondo.  

E come le bambine, avevamo le borse piene di vestiti e di scarpe con il tacco alto ed era divertente far le ragazzine a quarant’anni e non accorgersene. Come frutti fuori stagione, dirà qualcuno ma non importa. 

Giocare per me e mia sorella è fondamentale; giocando, noi, ci raccontiamo tutto, come facevamo da bambine. Ed ora che lei è senza un seno, falcidiata da un tumore, il giocare a far le femmine è terapia e complicità. Come è giusto che sia tra sorelle. 

Ho fatto alla fine così tardi che sotto la felpa ho lasciato il bustino nero e seppur bloccata dalle stecche me ne sono andata a lavorare alle quattro, dopo una notte insonne. 

E lui, Mario, il mio socio era già al nostro banco quando sono arrivata e mi ha visto nello sgabuzzino, togliermi la felpa per indossar la tuta. 

“ Ma che porti là sotto? Un corsetto? ”, mi ha detto, ridendo. E io sono arrossita perché fuori dalla casa di mia sorella, che era quella dei nostri genitori, io non so portar roba da donna se non quando gioco. E pensavo che Mario , scoperto il piccolo segreto, mi avrebbe preso in giro tutto il giorno, canzonandomi con i colleghi. 

Ma lui, invece, non ha detto nulla. Allora ho pensato fosse poi un gioco, colpevole il bustino, mi sono detta, quando lavorando lui mi passava vicino vicino, strusciando il suo petto sulla mia schiena. 

Alternava sempre un lieve “scusami” al suo sorriso giocherellone, che mi piaceva tanto da tempo. Ma sapete, io pensavo che per me fosse passata da un pezzo  la stagione dei sorrisi, sostituita da quella del lavoro duro e basta.  Che a quarant’anni suonati non avevo più tempo per i tremolii. Dovevo lavorare per pagarmi il mutuo di casa, perché non avevo mariti a prendersi cura di me e l’unico mio sostentamento era il banco di frutta che significa sveglia all’alba e sporcarsi le mani. 

E con i guadagni divisi a metà con Mario significava pure sgobbare come un uomo, per farsi rispettare. Da lui e dai colleghi del mercato. 

E un pochino alla volta, la mia seppur precaria femminilità è andata così a marcire, come la frutta tenuta troppo sulle cassette. 

E così quando lui ieri si faceva vicino mentre vendevamo le fragole o le zucchine, io mi dicevo che non era merito mio ma del corsetto, intravisto dalla tenda, e che era un gioco per canzonarmi. E mi andava bene, era quasi consolatorio. 

E quando mi ha chiesto di vederci la sera per una pizza, con la scusa di chiudere i conti del mese, io manco pensavo più al corsetto e alla insolita vicinanza di Mario durante il giorno. E quando mi ha offerto da bere al bar sul lungomare, mi sono detta che era solo cortesia tra soci. E quando mi ha portato a casa in macchina e mi ha chiesto di salire da me per un caffè, io non ho detto di no, pensando che era stanco e si voleva svegliare prima di rimettersi a guidare. 

Solo quando è uscito dal bagno con i pantaloni calati e mi ha guardato fisso e mi ha detto “ Guarda Linda, questo è merito tuo”, io ho cominciato a sentire che qualcosa stonava. Mi guardava tutto eccitato, Mario, e io mi sono messa a ridere. “Non è merito mio, è il corsetto”, ho detto tenendo gli occhi bassi. 

E lui allora mi è venuto di fronte, mi ha sollevato il mento e mi ha alzato il viso costringendomi a guardarlo e mi ha detto. “ No Linda è merito tuo e quel bustino è solo uno specchio. E ora ti faccio vedere perché”. 

Mi ha preso per le braccia fino a farmi alzare dal divano e mi ha portato allo specchio del bagno. Poi mi ha invitato a sfilarmi la felpa. Io allora sono rimasta ferma a guardarmi riflessa nello specchio, con il mio corsetto nero che mi stringeva i fianchi e mi alzava il seno, come se dovesse scoppiare da un momento all’altro. 

Mario mi era dietro, mi ha sciolto i capelli e me li ha accarezzati lentamente. E io mi guardavo nel mio specchio con il mio socio, all’improvviso solo un uomo, alle mie spalle e intento ad accarezzarmi i capelli con il più bel sorriso mai visto. 

Lì mi sono vista.

 Ero una donna, non una fruttivendola. La tuta non c’era più e dentro al bustino sembravo pronta ad esplodere in mille coriandoli di carne rosa. 

Ma non mi facevo ridere, no. C’era forza in quella immagine riflessa allo specchio, c’era serenità e felicità. C’era l’allegria di una donna. Non bella da copertina, ma bella comunque, come un frutto di stagione, maturo al punto giusto. 

“ Ecco vedi, è merito tuo, non del corsetto”, mi ha sussurrato Mario all’orecchio. E quella frase è stata come il lasciapassare che apre la porta: poi è stato tutto diverso e io non mi sentivo più dentro la tuta, ma un tutt’uno col corsetto, finché quei lacci non ho visto l’ora di scioglierli e Mario non vedeva l’ora di farlo.

 E il vederlo eccitato davanti a me, ai miei fianchi e alla schiena con i segni delle stecche e dei laccetti, mi ha fatto  felice solo come una femmina può esserlo. Ed è stato stupendo vedere un uomo eccitarsi così per me.

 Se ci ripenso, ora, che lo guardo estasiata mentre dorme, stanco, al mio fianco, mi vien voglia di svegliarlo per dirgli grazie. Non lo faccio perché è troppo bello guardarlo dormire, sereno e sorridente. Non posso togliere gli occhi da questa visione che mi eccita ancora, assolutamente pacifica. 

Posso solo sdraiarmi di nuovo accanto a lui e sincronizzare il mio respiro, libero dal corsetto, con il suo. 

Io sono vento

Chiediti che succederà quando smetterò di volteggiare e di venirti a scompigliare i capelli, invece di lamentarti se arrivo, birichino, a cambiarti di posizione, a eroderti la maschera ad ogni mio passaggio. Posso essere tramontana, fredda e nordica, di fronte ai tuoi insistenti no, o sentirmi invece un ostro, mutevole dal libeccio allo scirocco, quando hai voglia di sentirlo il calore che ho dentro. Posso esser levante e diventare lieve freschezza per riposarti dopo esserti stancato a corrermi dietro o una etesi, per allietare i tuoi giochi estivi. Posso sibilare, assoluta come una regnante, alle tue finestre per dare voce ai tuoi silenzi, ma posso anche coglierti di sorpresa, alle spalle, con un abbraccio, quando meno te lo aspetti. E poi andar via, come se non fossi mai passata di lì, lasciandoti interdetto a cercarmi all’orizzonte.

Non temere, so essere anche una sorridente brezza mattutina per svegliarti con una carezza. O trasformarmi in tempesta dominante quando sfiori le mie labbra e quel che sento è il miele. Che il fiele ancora lo riconosco a fatica, io. Io sono vento, mutevole e assoluto, ingenuo e caparbio, ma anche rosa priva di cattiveria: se le lunghe spine ti fan paura, chiediti come ti sentiresti se non ci fossi.

Meno pazzo, ma più mascherato.

Ada

A me piace la tartare, la carne cruda. Il filetto tritato grossolanamente condito con uovo crudo, capperi, olive tritate, un pochino di cipolla, del prezzemolo. C’è chi ci mette le acciughe, io non le voglio. C’è chi accetta un goccio di brandy, io no, mi limito ad un pizzico di tabasco. Voglio sentirlo il sapore della carne cruda. E l’alcool lo ammazza questo piacere.
Mi chiamo Ada, ho 45 anni. Sono dirigente di una azienda che produce salviette e ausili per i sanitari, mi occupo della gestione del personale. Produciamo portasalviette, porta-carta igienica, dispenser di profumo, dentifricio monodose, preservativi.
Mio marito, Pino, è il mio superiore, è il vicepresidente della società. Ma vi giuro, arrivo a casa io dopo di lui, che si occupa per lo più di contratti e pubbliche relazioni. Da cinque anni, cioè da quando sono diventata capo del personale, non pranziamo assieme e non ceniamo assieme. Lui finisce alle sei di sera, io dopo le 21.
I nostri figli, Paolo di 7 anni e Davide di 5, solo ai compleanni e a Natale hanno il piacere di vedere mamma e papà seduti l’uno a fianco dell’altra. Io e Pino sono anni, 5 per l’esattezza, che non ceniamo mai o pranziamo, mai , lo ripeto, da soli.
A lui piace il pesce, a me la carne cruda. Ma non la mangio certo quando ho lui davanti.
Non voglio mostrargli cosa succede. Non più.
A me, quando mangio la carne cruda, mi cambia la faccia, la pelle diventa più lucida, sorrido sempre e ho voglia. Voglia di cose strane, che lui non capirebbe. O che capiva ma ha smesso di capire.
Dopo aver mangiato carne cruda, ho voglia di sbottonarmi la camicetta. Ho voglia di alzarmi e andare in bagno con passo deciso, e di essere seguita, e di ritrovarmi davanti al lavabo del gabinetto, mentre mi aggiusto il rossetto, con due mani dietro che mi sollevano la gonna, mi abbassano le mutandine e due dita che vanno alla scoperta. Ho voglia di non avere orari e pensieri, ho voglia solo di avere voglia, non perché va bene.
Ho voglia di farlo bene, come viene, il sesso, con la gamba alzata, di lato, o con le gambe spalancate come una offerta; ho voglia di esser presa da dietro o davanti, non mi importa. Voglio sentirla la carne, voglio annusare il piacere che diventa odore, così forte da lasciarmi senza fiato. Odore di carne fresca, di sangue che scorre, di vene che pulsano, di sudore sulla pelle, di umore che mi penetra, di saliva che mi cerca.
Per questo non mangio carne cruda con mio marito. Pino è una brava persona, ha una intelligenza incredibile, penso sia l’uomo più intelligente con cui sono stata.
Quando ho partorito Paolo, mi è stato vicino tutto la notte. Eravamo sposati da nove mesi, dall’età del suo concepimento. Allora era diverso, Pino mi guardava con occhi diversi, allora. Non stava tre giorni senza vedermi e toccarmi e cercarmi e mi veniva a scovare ovunque: al bagno, come sul divano, in cucina a casa dei suoi come al bancone del bar. Avevo le sue mani , calde, addosso sempre. E mi offriva spesso carne cruda. 
Dopo il travaglio, durato 48 ore, non mi ha mai lasciato un attimo ma le sue mani non mi hanno più cercato come prima. A letto si dormiva con un orecchio teso a turno a sentire se Paolo respirava, o piangeva. O eravamo alzati ad accudire il piccolo, o eravamo a letto, stremati, cercando di dormire un paio d’ore a testa. Davide è arrivato due anni dopo: avevamo fatto l’amore ubriachi nella piscina di un hotel di Marrakesh, ospiti di amici per un matrimonio. E’ stata quella l’ultima volta che ho risentito le mani, quelle vere, di Pino, come le conoscevo io. Offuscato dal gin tonic, si era tuffato nella piscina dell’albergo, e mi aveva tirato con sé, cercandomi a lungo. Non che altre volte, non avessimo fatto l’amore, a casa, quando Paolo e la sua asma, ci davano pace.
Ma allora fu diverso: Pino aveva voglia davvero di me, sentiva la sua e mia di carne, mi aveva tirato nell’acqua deciso a gustarmi. E io pensai che sarebbe stato così per sempre. Come si fa quando ami mangiare la carne cruda, aveva quella notte quella faccia decisa e la bocca che chiedeva ancora. Come me , quando mangio la tartare al ristorante.
Nove mesi dopo, sul letto dell’ospedale, mi tenne la mano per otto ore, poi mi disse: “tesoro sono stanco, vado a dormire. Ci vediamo domattina. Passo prima della riunione con i milanesi”.

E rimasi da sola per altre nove ore, con il solo aiuto dell’ostetrica , a metter al mondo Davide. Pino arrivò nella pausa pranzo, lamentandosi che la riunione era stata anticipata e che non era riuscito a passar presto e di non aver visto Davide venire al mondo. E che era stanco, disse. E io, senza forze, con 45 punti di sutura, gli dissi di tener duro, che a sera si sarebbe rilassato.
Da allora non ho più mangiato carne cruda in sua presenza, evito sapientemente di arrivare a casa con lui o di pranzare con lui alla mensa. A letto, sono sempre stanca e mi addormento prima di lui. Come lui era stanco quella notte, dopo otto ore passate a tenermi la mano, io ho una vita davanti per riposarmi dalla fatica di aver messo al mondo suo figlio. E non tocco più alcool, in sua presenza. Così non ha manco l’alibi di tornare sé stesso, colto dal torpore di un gin tonic.

Lui non è più l’uomo che mi cercava ovunque, ora mangia pesce, il sushi, così quando va a pranzo con i giapponesi sa cosa ordinare. 

Dopo il parto, quando gli ho chiesto di prepararmi della carne cruda al mio rientro a casa dall’ospedale, mi ha detto che non era il caso, che quando la mangiavo,  io gli sembravo tutt’altro che una brava moglie e non era il caso visto il mio ruolo sociale.  Meglio una sogliola, disse.

Da allora cerco altrove la mia carne, a casa sono una moglie con la camicia abbottonata e la gonna liscia, e il silenzio stampato come un marchio di fabbrica. Mi faccio masticare altrove.

La notte che ho parlato col vento

Il bambino mi guarda, mi fissa e mi sento in imbarazzo e giro lo sguardo.

Guardo verso la finestra.

E’ notte e c’è vento e gli alberi si piegano quasi a toccare terra.

“Non esci?”, mi chiede il bambino.

“No, resto qui”, gli rispondo e continuo a fissare la finestra e fuori c’è il vento che scompiglia tutto. E io ho voglia di uscire, ma resto dove sono.

“Vai, a te piace il vento”, mi dice lui.

“Lo so ma non sempre tutte le cose che ti piacciono poi le fai”.

“Come? Sei tu che dici che deve essere la passione a muoverci”.

Mi giro a guardarlo, infastidita. E’ piccolo come un neonato ma ha lo sguardo da uomo, maturo.

“Cosa vuoi da me? Che ci fai qui?”.

“Mi hai chiamato tu”.

“Ah, l’ho fatto io? Non mi pareva”.

“Ho sentito perfettamente la tua voce”.

“Lo dici tu”.

“Lo dico io”.

Tace e si gira a guardare la finestra. Il vento sibila e muove il vetro, il rumore è lieve e costante. Un tremolio continuo.

“Cosa c’è che non va?”, mi chiede senza guardarmi.

“Non c’è niente che va male, niente. Solo che è bene che stia ferma. Se mi muovo, vado dove non devo andare”.

Il bambino si avvicina alla finestra e diventa di colpo più alto, adesso ci arriva da solo alla maniglia e la afferra.

“Non far entrar il vento”, gli urlo.

Lui non mi ascolta e apre e una folata d’aria lo fa volare all’indietro, vicino ai miei piedi. Rotolando come una pallina sul pavimento.

Lui ride. Io rido.

“Mi prendo io cura di te, il resto lo fa lui”, mi dice, rialzandosi.

Il vento adesso è dentro la stanza e mi gira attorno, improvvisa un vortice ma non mi tocca, forse sente che non ho voglia di lui e sta lontano.

“Ne sei sicuro? Sei piccolo, tu”, rispondo al bambino che adesso è tornato della misura di un neonato. Sul volto, quell’espressione seria che ti prende in giro.

“Sarò piccolo, ma so ballare”.

“Anche io. Sarai bello da grande, con quella faccia un po’ così…”.

“Lo so – mi risponde – sono come tu mi vuoi, mi hai chiamato tu, dimentichi?”.

“Sì, e adesso che si fa?”.

“Ovvio, balliamo”, mi dice il piccoletto, “la musica la metto io”.

Mi alzo dalla sedia, gli tendo la mano e lui la afferra, ha le manine che sembrano panetti di burro, ma sono forti. Improvvisiamo un girotondo con il vortice che ci gira intorno e io giro e lui gira e il vento, attorno a noi, gira in circolo pure lui e ogni rotazione è un suono di melodia cupa ma che non fa paura, che scioglie i nervi e i muscoli e il volto sorride ad arco e dalla bocca escono risate.

Poi il bambino si stacca all’improvviso e piroettando si allontana.

“Adesso fai tu”, mi dice.

E io sorrido e annuisco. E obbedisco.

E allora il vortice del vento mi accerchia e più gira, più si avvicina e io allargo le braccia e lui, il vento, mi viene addosso e diventa tutt’uno con me e i miei capelli vagano. Il bambino ci guarda da lontano e se la ride di quella danza concentrica, goffa ma divertita.

Adesso ha i capelli lunghi, che vagano da soli sopra la sua testa e che indicano i movimenti, come un coreografo al corpo di balletto. 

E io mi sento vento, e sto finalmente bene.

Gli smontatori

Questo racconto è nato un pezzetto alla volta, giorno dopo giorno, su questo blog. E’ un piccolo esperimento, l’ennesimo. Dopo giorni, alla conclusione della storia ci siamo arrivati.

E a malincuore, lo ammetto, ho dovuto metter la parola fine.

Buona lettura, se avete voglia.

Ps: tutti i personaggi sono frutto della mia fantasia, non ispirati a nessuna persona realmente esistita.

Tranne le Vele, che sono sempre al loro posto.

 Mitia

 

“Cavoli, ma fa proprio schifo. Che è ‘sta roba?”.

“E’ un monumento, dicono”. 

“Un monumento? Alla ruggine?”

“No, in ricordo della Resistenza”.

Mario si voltò verso Valter e lo fissò, in attesa di un suo sorriso, quel malizioso movimento della bocca che gli faceva capire anche da dieci metri di distanza, che stava scherzando. Ma il sorriso non arrivava, la bocca restava ferma. Non sorride, pensò Mario, insomma non mi sta prendendo in giro. Girò la testa in direzione del monumento, due enormi ali di ferro, che coprivano la visuale del piazzale dalla strada. Appoggiata a terra, vicino all’ala di destra, una corona di alloro. “In ricordo della guerra di liberazione” era scritto sul nastro di raso sotto la corona. Era vero, insomma.

Quei due pezzi di ferro, del color della ruggine, erano un omaggio ai partigiani. Ma come è possibile, continuò a pensare Mario, che un architetto si limitasse a pensare a due lastre di ferro arrugginito per ricordare la guerra che aveva liberato l’Italia dal nazifascismo? E che un Comune avesse finanziato una simile operazione.

Valter aveva gli stessi pensieri. Tra l’altro, manco si vede più dal piazzale villa Pozzi, si disse, e per far spazio a quell’obbrobrio di ferro, triste e anonimo, ribattezzato ” le Vele” , era sparita anche la fontana con i pesci rossi dove lui, Valter Delli Santi, professione orafo, prima tessera di iscrizione del Pci datata 1964, giocava con l’amico della vita, Mario Santini, per tutti “Mario tega” ( sulle motivazioni del soprannome meglio tralasciare, ma tante donne gli sono ancora grate) , di professione nullafacente, a far navigare le barchette di carta, sognando un giorno di andare invece per mare, di incontrare pirati e mercanti , e di tornare carichi di avventure come il miglior Salgari.

Non erano mai partiti, lui e Mario. Anzi, Mario non era manco mai andato fuori dai confini della regione. Vivevano da anni a due isolati di distanza. Valter , noto e stimato commerciante, nipote del partigiano Saetta. Mario Santini invece si inventava mille lavori e quando non aveva più soldi in casa, usciva a visitare qualche appartamento. Mai, però, nel suo quartiere.

Perché si ruba solo agli sconosciuti, gli diceva ogni volta.

” Bea merda, ricordare la Resistenza con la ruggine. Tuo nonno andrebbe a tirar fuori lo schioppo, se non fosse sotto un cumulo di terra”. Mario ruppe il silenzio dei pensieri di Valter e lo riportò alla visione delle “Vele” . Se ne andarono al bar in fondo al piazzale, lì c’erano i giornali che potevi leggere gratis bevendo un caffè. Da mesi in città non si parlava d’altro: delle polemiche sul monumento alla Resistenza che non piaceva a nessuno. Erano state raccolte firme, in Consiglio comunale lo scontro era stato feroce e si era rischiata una crisi nel centrosinistra. Poi un ordine del giorno aveva salvato il sindaco: il monumento sarebbe stato spostato.  

Solo che erano passati tutti quei mesi e la ruggine non era sparita. Valter mostrò l’ennesimo articolo all’amico.

“Beh, se ero qui in questi mesi sarei andato anche io a far un discorsetto al sindaco, anche se è un compagno”, gli risposte Mario, dopo aver letto attentamente.

Valter sorrise: non aveva dubbi. Se Mario non avesse passato l’ultimo anno in galera per rapina impropria, dopo aver rotto il setto nasale ad un avvocato che l’aveva scoperto a rubare in casa mentre rientrava con l’amante, di certo tre paroline al sindaco sarebbe andato a dirgliele. Magari di notte, mentre dormiva nella sua bella casa, entrando dalla terrazza e uscendo poi dalla porta principale , come un vecchio amico inatteso.

Solo che Mario se ne era stato un anno in cella e Valter prima si era arrabbiato, poi aveva scritto ai giornali e aveva partecipato alla raccolta firme, ma lui dal sindaco non c’era andato. Anche perché non sapeva esser convincente come il suo amico e non aveva compari all’altezza.

Quindi aveva aspettato. E dopo aver atteso un’ora davanti al carcere che Mario uscisse, finalmente, lo aveva portato diritto nel piazzale dove giocavano da bambini per mostrargli la novità.

” Che si fa? Andiamo dal sindaco”, gli uscì, non trattenendo più i pensieri. “Se vuoi, Mario, vengo con te”. L’amico si voltò e gli sorrise.

“Una visitina servirebbe?”. Scuotendo la testa, Valter ammise che no, forse non sarebbe servito. Il sindaco avrebbe ascoltato, urlato, avrebbe chiamato i vigili, forse sarebbe anche scattata una denuncia e non sarebbe cambiato niente. La ruggine sarebbe rimasta al suo posto. 

Mario aveva avuto lo stesso pensiero.

“E allora? Ci teniamo ‘sta merda?”, replicò.  ” Cavoli, bisognerebbe andar a smontarle”.

Cinque parole, un flash. Due sorrisi e quattro occhi che luccicano. Gli amici che si riconoscono, in quegli sguardi, come facevano da bambini quando andavano a portar via le finestre di Gigi Salvin, l’odiato custode della scuola che aveva dormito più di una notte al freddo per i loro scherzi. 

“Smontiamole”. Non sarebbe stato facile, ma si poteva fare. 

n1574495469_30173508_1655251

L’appuntamento venne fissato per la sera dopo a casa di Valter, nella sua casa fuori città , nella campagna vicino al fiume Zero. La precauzione non era mai troppa. E  se era esagerazione, non importava, perché loro erano abituati così: quando c’era qualche casino da risolvere o spedizioni, diciamo, non certo legali da organizzare per punire questo o quello stronzo destronso cittadino o commerciante che aveva trattato male la commessa straniera, licenziandola di punto in bianco senza pagarle un euro di contributi, loro si ritrovavavano in campagna, sotto la frasca della casa d’estate o davanti al caminetto se era inverno.

“Ci siamo tutti?”, disse Mario, con il tono di chi prende subito in mano le redini della situazione. C’erano tutti: Valter, seduto sul divano davanti al fuoco, si limitò a fare un cenno con la testa. Dante Pelosin, con la sua barba ispida sale e pepe, era seduto accanto a lui. Dietro, in piedi, ad osservare estasiati la collezione di Lp di Valter, c’erano Sante e il fratello Dario, i gemelli Zanzetti. Con Dante formavano la banda del pagliaccio, un gruppo di guerrilla che protestava con azioni notturne e inattese contro le brutture architettoniche della città. Entravano in azione armati di cartelli e di un pagliaccio che raffigurava l’architetto di turno, reo di aver contribuito a rendere più brutta la città. Nessuno sapeva che faccia avessero i componenti della banda visto che agivano di notte, con il volto nascosto da passamontagna. Ma Valter li conosceva bene, visto che li aveva spinti lui a darsi da fare.

“Ecco, ragazzi _ cominciò a spiegare Mario Tega, con il braccio appoggiato alla mensola sopra il camino e la sigaretta in mano _ si tratta delle Vele. E’ passato un anno e il sindaco non ha mosso un dito. E allora la ruggine la togliamo noi. Ci state?”. Valter sorrise mentre portava alla bocca una canna. Quelli della banda del pagliaccio lo seguirono, sicuri. Solo Sante si sentì di prendere la parola. “Bello Mario, ma una sola domanda: come facciamo?”.

Valter posò la canna nel posacenere di cristallo, appoggiato al tavolo davanti a lui, e si voltò verso Sante.

“Si fa, che le facciamo sparire. In una notte _ disse, con un sorriso sornione _ e le portiamo ai Moranzani.  Ho un amico che lavora alla Gastaldoni, lui ci può prestare una gru. Serve un mezzo industriale per sollevare le due Vele e portarle via. Gigio, quello che lavora in Comune, ha fatto alcune ricerche: allora le due schifezze pesano all’incirca quattro tonnellate e sono fissate a terra in un plinto di cemento. Dobbiamo trovare una fiamma ossidrica, e a quello ci pensa Mario _ continuò, guardando l’amico con un guizzo dell’occhio che lasciava intendere che si eran già parlati i due _ praticare dei fori alle due estremità della lamiera, poi ci facciamo passare i cavi d’acciaio che mi procura l’amico della Gastaldoni , agganciare e sollevare. Poi, si va via”. I tre della banda del pagliaccio erano a bocca aperta. Non avevano mai sentito Valter parlare come un capo, e soprattutto non avevamo mai sentito che una simile impresa nel cuore della notte, tra i palazzi del centro, fosse riuscita senza intoppi.  Sante e Dario si guardarono, perplessi. ” Ma se arriva la pula, qua ci tocca tirar fuori le armi e noi abbiamo fatto anche gli obiettori di coscienza”, dissero. “Sì, lo so , all’Arci Gay”, fu la risposta di Mario. “Ma se fora? Niente armi, che se ci beccano ci riducono a colabrodo. Siamo cittadini, mica banditi”. 

“Parla per te, che ti xe venuo fora daa gaera ieri con decorensa ancuo”, ribattè _ ridendo _ Dante. “Ma come pensate che si possa far una cosa simile in piena notte, senza dare nell’occhio. ‘Riva la pula e pure la madama, veci, ma i ciama anca l’esercito. Par mi se fora coi pergoi”. 

Valter e Mario si guardarono. Poi si girarono verso i tre della banda. “Certo voi non sapete che organizzare raid da guerrilla, mordi e fuggi _ attaccò Valter _ ma forse dimenticate cosa succede tra due settimane”. E Mario: “I giornali li leggete?”. 

I tre mossero le teste all’unisono. Non sapevano niente .

“C’è l’evacuazione, devono far brillare una bomba della Seconda guerra mondiale trovata durante i lavori di manutenzione del Marzenego. E diecimila famiglie se ne devono stare fuori casa per una notte. Sapete dove? In centro . E dove sono le Vele? In centro”, spiegò Mario.

“Ma sarà pieno di polizia, chiuderanno le strade _ esordì Dante _ E ti pare che lascino passare una gru? Che gli diciamo? Andiamo un attimo a staccar la ruggine e andiamo via subito? Ma dai…”.

Mario e Valter cominciarono ad infastidirsi di quel clima tutt’altro che entusiasta. L’operazione sarebbe riuscita, perché loro avevano un’arma segreta per garantirsi il successo. Avevano la Gina.

 

 

Luigina Frattini viveva nel quartiere vicino alla stazione. Tutti la conoscevano come la Gina, soprannome alquanto azzeccato per questa signora di 50 anni. Guai a ricordarle la sua età. In realtà la Luigina, pardon Gina, ne dimostrava dieci di meno. Alta, capelli lunghi neri, non l’avevano mai vista in giro per la città senza gonne e senza cappotti con pelliccia di simil volpe d’inverno o vestitini di Roberta di Camerino d’estate. Rigorosamente stretti dietro e scollati davanti. Lei metteva in mostra i suoi gioielli, la sera, dalla finestra di casa. Non aveva manco più bisogno di scendere in strada. Quello lo faceva da ragazza quando era arrivata da Udine per far la cameriera e poi aveva capito che possedeva doti che potevano farle guadagnare molto di più, facendo a pagamento quella cosa che avrebbe fatto _ di suo _ anche a gratis. Tanto le piaceva. La Gina aveva amici affezionati e premurosi che arrivavano di giorno e pure di notte. Ma la signora riceveva solo su appuntamento e c’era a volte anche da aspettar giorni e se avevi voglie momentanee, ti toccava andar dalle rumene in strada a consolarti. 

Valter e Mario erano passati a trovarla spesso, in questi anni, ed alla fine erano diventati amici della Gina. Mario andava pazzo della sua quinta. Valter ogni due mesi non rinunciava a far un controllo sulla tenuta del posteriore della signora. E ogni volta si chiedeva, uscendo, come la forza di gravità per quella donna fosse un concetto sconosciuto. Una potenza della natura, bella anche se non più giovane. Mai stanca, sempre sorridente. E soprattutto capace di far parlare anche i masegni della piazza, se ci avesse provato, e di conquistarsi la fiducia e quindi le conseguenti rivelazioni segrete di questo o quel signore della città. E questo Valter e Mario lo sapevano perché la Gina a loro due raccontava tutto. Erano gli unici clienti che accettava in coppia e a quei due amici così diversi ma così affezionati, lei ci voleva bene. Anziché un’ora, visto che erano in due, dedicava loro dai 120 ai 180 minuti per appuntamento. La durata dipendeva dal divertimento dei tre e il compenso alla fine era sempre adeguato, perché Valter e Mario mai avevano storto il naso sul prezzo, mai erano andati via delusi. Anzi Valter dal suo negozio portava ogni tanto un pensiero: una spilla, un anello, una collana di perle. E Mario non era da meno, quando nelle sue razzìe trovava qualche gingillo in oro, beh, quello se non andava venduto subito, finiva addosso alla Gina. E lei, a quei due, alla fin fine ci aveva lasciato addosso anche un pezzetto di cuore. E dopo aver fatto l’amore, ci diceva tutto. Dei clienti vecchi e di quelli nuovi. Mezza Questura era passata per quel letto, e lei dormiva tranquilla. Di retate, manco l’ombra da anni. Ultimamente andava bene anche con i carabinieri, ma quelli erano troppo fedeli alla Patria, e qualche volta l’avevano fregata. Così stava attenta, quando si trattava di fiamme sul cappello. 

Era stata lei a raccontare che era andato a trovarla  il nuovo capitano della Compagnia. Giovane, solo e annoiato nella città sconosciuta e bisognoso di confidarsi, perché non aveva amici qui. 

 

Lo chiameremo così, il capitano, perché Valter e Mario mai hanno voluto rivelarne l’identità e lui, dicono, sia rimasto così poco in città che comunque nessuno si ricorderebbe di lui. Beh, il capitano, giovane e solo, trovò in Valter un fidato amico, grazie a Gina. Si erano incrociati sul pianerottolo. Uno usciva , l’altro entrava, e come si conviene tra persone perbene scattarono le presentazioni. Imbarazzate quelle del capitano, rilassate quelle di Valter. Ci fu uno scambio di battute, poi l’invito a visitare il negozio da parte di Valter e da lì, dall’incontro in oreficeria, iniziò una conoscenza fatta di caffè condivisi al bar, battute sulle capacità della comune amica, e qualche serata in pizzeria, sul Terraglio, a mangiare e bere e poi giocare a carte. Mario, che in quei mesi era finito in galera per la rapina impropria, del capitano sapeva solo grazie alle visite di Valter a Santa Maria Maggiore. Quel tipo non gli piaceva, temeva che l’amico, gioco forza, si legasse al caramba in sua assenza. E poi, frequentare un caramba, quando il tuo miglior amico era un ladro di professione, beh, non era proprio la scelta più azzeccata per Valter. Ma Mario non aveva detto nulla, e anzi, si faceva raccontare tutto dall’amico. Le cene, le partite a carte, i debiti accumulati dal capitano che era una schiappa a Tresette e un autentico netto a poker. E con i debiti, aumentava la riconoscenza del militare verso Valter, che non gli chiedeva i soldi subito, li dilazionava nel tempo e lo trattava come un figlio, più che come un debitore, a suon di pacche sulla spalla .

“Capitano, eri in forma stasera”. Luigina sorrise, inarcando la schiena per sollevarsi e girarsi di fianco. Dietro di lei, il Capitano si asciugava la fronte con un lembo del lenzuolo. “Sì, è andata bene perché io funziono bene”, rispose il militare sedendosi a fianco di lei e accendendosi una sigaretta. “Gina, sei sempre uno schianto. Come si fa a non avere voglia con una come te”, aggiunse. E la Gina sorrise, sorniona, rubandogli dalle mani la sigaretta e aspirando con gusto.

“Capitano, mi serve un piacere. E’ per un comune amico”.  Il discorso di Gina attirò l’attenzione del Capitano, intento a guardare il proprio petto sudato. 

“Chi e cosa?”, rispose lui. 

“Tra tre giorni c’è l’evacuazione e in piazzale Garibaldi c’è bisogno che dalle due di notte non giri nessuno dei tuoi e neanche dei cugini. Te lo chiede un amico a cui devi molto”, disse la Frattini, sfoggiando il miglior sorriso. 

“Ah _ ribattè pronto il militare _ e perché non me lo chiede lui? E poi sapete benissimo che io sono un ufficiale dell’Arma, quindi non sono disposto ad esser coinvolto in uno dei vostri affari!”.

Gina si avvicinò a lui e sussurandogli nell’orecchio, gli spiegò alcune cose. Il Capitano impassibile, ascoltava il suo discorso. 

Poi Gina si spostò e gli si parò davanti e abbassò la testa, mordicchiandolo tra le cosce.

“Capitano, se ci dai una mano, dieci sono gratis”. Ed infilò la testa tra le gambe del militare, mentre lui passava dalla sorpresa al divertimento. 

“Donna, se me lo chiedi così, come faccio a dirti di no? Dieci? Guarda, facciamo quindici e siamo a posto”.

Non vide, il Capitano, il sorriso di Gina, troppo impegnata per sollevar la la testa e ringraziarlo. 

 

“Ok, l’appuntamento è tra tre sere”. Valter era sotto casa di Gina, si sarebbe aspettato di veder uscire il Capitano dalla casa, da un momento all’altro, con la faccia scura ed invece erano passate già due ore e non si era ancora visto. 

Al telefono comunicò a Mario che le cose andavano secondo programma. Poi salì in macchina, diretto verso casa. La radio trasmetteva “Gli altri siamo noi”. E pensava Valter a come gli uomini, alla fine, fossero tutti corruttibili. “Gli altri siamo noi”. 

 Che fossero soldi o una donna dalla pelle calda, alla fine li convincevi. Spesso senza dover ricorrere alle cattive. Del resto, lui aveva capito quale era il punto debole dell’apparentemente irreprensibile ufficiale: la carne. Impazziva per le donne, specie se remissive. E Gina sapeva esserlo alla grande, non opponeva resistenza, non aveva in testa il tassametro perché a lei piaceva fare quel che faceva. Era l’unica che poteva parlargli, tirando fuori la storia del debito da 20 mila euro accumulato a suon di fallimenti al tavolo delle partite a carte. “Sfortunato al gioco, fortunato a letto”, pensò Valter, ridendo. Poi arrivò il messaggino sul cellulare. Era Gina: “Tutto a posto, ci sta. Ma ne vuole quindici, ostia. Paghi tu vero?”. Valter rispose con due lettere: ok. 

E filò diritto a casa di Mario, che lo aspettava in cucina, intento a spadellare una aglio, olio e peperoncino. Sul tavolo una bottiglia di Barbaresco. Per i momenti decisivi, diceva sempre Mario Tega, solo un vino buono aiutava a pensare bene. Ed aveva ragione: i due amici passarono le due ore successive a studiare nei dettagli l’operazione “Ruggine”. Mancavano tre giorni, e tutto andava valutato, soppesato, ragionato. Perché avrebbero avuto al massimo tre ore e non si poteva sbagliare. Altrimenti erano guai. Alle 6 del mattino, la gente se ne sarebbe tornata a casa. 

La sera dopo, tutti erano di nuovo nella villa di campagna di Valter. C’era anche Gina, che oramai era del gruppo. Appena Valter e Mario le avevano spiegato il loro piano, aveva subito acconsentito a dar loro una mano. Odiava le “Vele”, oscuravano la visuale sulla villa Pozzi, una residenza settecentesca che il Comune aveva comperato da una società americana. Sarebbe diventata la sala per i matrimoni civili. E Gina era socia dell’associazione per la tutela delle ville venete e ogni anno versava fino a mille euro per la tutela delle residenze storiche. Perché? Da piccola sognava di abitarci in una di quelle case, di vivere da signora ed avere un maggiordomo e suo papà le aveva insegnato ad amare il bello, nell’arte come nell’architettura, come negli uomini. E poi, si diceva, che c’entrava la ruggine con la Resistenza? No, la lotta di Liberazione se lei avesse dovuto paragonarla ad un materiale, avrebbe detto platino. Prezioso, come la libertà. E lei, a modo suo, sapeva cosa significava esser libera. Quindi, ci stava. Andasse come doveva andare. 

“Avete capito tutti?”. Dante, Sante e Dario annuirono. Erano intenti a cucire il grande pagliaccio di pezza per la missione. Gina si limitò a stringere con la mano il braccio di Mario, che aveva messo un punto fermo dopo ore di discussione. Erano tutti d’accordo. 

 

“SPARITE LE VELE , SI SOSPETTA LA MALA – Furto beffa nel centro evacuato, scompare il monumento dedicato ai partigiani. Il sindaco: “Non ci lasceremo intimidire”.

 

foto di Renato Zennaro

 

Era domenica e Radio Campo strillava la notizia choc al radiogiornale delle nove. L’edicolante di piazzale Garibaldi aveva alzato il volume al massimo.  E vicino al gazebo si era radunata una folla di curiosi, tutti a guardare verso lo spazio vuoto davanti a villa Pozzi.

“Però è proprio bella la villa, eh, adesso che non ci sono più. I ladri stavolta ga fato ben”, disse un pensionato agli amici che erano con lui. Nell’angolo dove fino alla sera prima c’erano le grandi vele di acciaio arrugginito, adesso c’era il vuoto e  un pagliaccio, alto come un uomo, seduto per terra e con la faccia ridente. Un ghigno beffardo sul volto colorato di bianco e rosso. Al collo, un cartello sorretto da un cordone. Sul cartone, una scritta: “Sia fatta la volontà del Consiglio comunale”.

Gianni Rides, noto ambientalista cittadino, arrivato di corsa da Venezia dopo una telefonata di un iscritto dei Verdi di via Rosa, davanti al pagliaccio, scoppiò a ridere. “Altro che mala, a questi dovrebbero fare un monumento! Ostia, che figata”. E si sentì orgoglioso di esser stato il primo firmatario dell’ordine del giorno, votato poi da tutto il Consiglio, che aveva ispirato quei benefattori. “Lasciate lì quel pagliaccio, anche lui è un monumento”, urlò verso i carabinieri e gli uomini della Scientifica , intenti a fotografare e a prendere misure, cercando indizi dell’azione dei ladri, sull’erbetta del piazzale. 

Il Capitano convocò i giornalisti alle 10 in caserma per una conferenza stampa. Era dalle 6 di mattina che era subissato di telefonate. Lo avevano chiamato tutti, dal sindaco al questore, al prefetto. E decine di giornalisti, anche delle tv nazionali. Tutti volevano sapere cosa era successo nella notte, mentre la città era evacuata per le operazioni di sminamento di una bomba ritrovata sull’argine del Marzenego, vicino agli uffici del Comune. Come era potuto accadere un furto così incredibile senza che nessuno vedesse niente? Aveva passato la notte insonne, sia per seguire le operazioni, sia perché sapeva quel che gli amici avevano in serbo e temeva di finire diritto a Peschiera sul Garda, senza passar neanche per casa a prendere un paio di calzoni puliti, se qualcuno avesse capito… No, si disse, nessuno poteva immaginare o intuire. A meno che…

Si ricordò allora del consiglio del vecchio Generale Paludo, amico di suo padre. “Se non sai cosa dire, passa una velina”. Mai consiglio fu più utile, si disse, mentre infilava la giacca con i gradi. 

All’arrivo dei giornalisti e delle telecamere della tv, il Capitano era pronto. “Vi leggo il comunicato stampa che poi il brigadiere avrà cura di distribuire a tutti voi in copia”.  E cominciò a leggere.

“Nella giornata odierna, alle ore 6.00 in piazzale Garibaldi nel centro storico di Mestre, la pattuglia del Nucleo Radiomobile ha accertato che ignoti hanno trafugato il monumento dedicato alla Resistenza, denominato le Vele. Si presume che il reato sia stato perpetrato la notte precedente, mentre il centro cittadino era chiuso al traffico e i residenti evacuati a partire dalle ore 16 per l’intervento di brillamento di un ordigno bellico, rinvenuto lungo l’argine del Marzenego, vicino alla piazza centrale di codesto centro. A segnalare il furto, con una telefonata alla centrale del 112 di codesta Compagnia,  è stato un residente di piazzale Garibaldi, tra i primi a far rientro nella propria abitazione dopo la conclusione dell’intervento di sminamento e la fine dello stato di evacuazione. Si presume, vista la mole del monumento, donato da un artista all’amministrazione comunale cittadina all’incirca un anno fa, che i ladri abbiano agito utilizzando una gru, eludendo i controlli nell’area rossa del centro cittadino. E che abbiano utilizzato la macchina industriale per sollevare e spostare le due pareti del monumento, del peso di circa 4 tonnellate cadauna, parcandolo poi in un luogo di cui sconoscesi la località. Non si esclude al momento alcuna ipotesi. Le indagini sono coordinate dal Procuratore capo della Repubblica”.

Letto il comunicato, il Capitano si chiuse nel silenzio del no comment, eludendo così le domande dei giornalisti, che gli si fecero sotto per capire come i ladri potessero aver agito indisturbati nella “zona rossa”, accessibile solo alle forze dell’ordine. 

“Sospettate la mala?”. “Avevano dei complici all’interno dell’area vietata?”. “Come avete fatto a non vedere nulla?”.

Era un autentico assalto di domande, ma il Capitano, ripreso anche dalle telecamere, non tradì emozione. 

“Signori, stiamo facendo il nostro lavoro. Quindi, lasciateci lavorare. Grazie”. 

Non appena i giornalisti lasciarono la caserma, scortati da cinque piantoni, l’ufficiale crollò sulla sedia e tirò un lungo sospiro. Poi si rialzò, allentando la cravatta, e aprì il mobiletto che aveva alle sue spalle. Prese la bottiglia di Santiago , la inserì nella valigetta 24 ore, e uscì dalla caserma. 

“Tenetemi informato di ogni minima novità, mi trovate al cellulare”, disse ai suoi uscendo dalla caserma. 

A piedi e a passo svelto, si incamminò verso via Piave, ma non evitò di lanciare uno sguardo verso il piazzale. Sembrava una distesa d’erba in pieno centro. “Bastardi, ce l’hanno fatta”,  sussurrò. 

 

“Adesso me lo dici come cazzo è andata? “. Gina si sollevò sulle ginocchia e fissò il Capitano, che manco si era tolto la giacca d’ordinanza e la guardava serio.

 “E’ un interrogatorio? No, perché se è un interrogatorio, allora ho diritto ad una telefonata e chiamo direttamente il questore”, disse lei, asciugandosi la bocca con la mano. 

“Dai, su. Dimmi e basta”, fu la replica del militare.

“Guarda che ci sei dentro pure tu. Ricordatelo. C’è la tua firma sul lasciapassare per la gru. E su ventimila euro di debiti. Se i giornalisti sapessero che hai lasciato tu passare una gru per un trasloco durante una evacuazione, che dici, ti rovinano o no la carriera?”.

Gina capì che il Capitano con il suo infastidito silenzio non aveva intenzione di tradire nessuno. Ci avrebbe rimesso per primo. 

 “E’ andata come previsto. I tuoi hanno visto il lasciapassare per la gru e il camion della Gastaldoni e non hanno detto niente. Nessuno ha fatto domande. E di poliziotti non si è vista manco l’ombra, hai fatto bene a tenerli lontani dal piazzale, con la scusa che gli artificieri si sarebbero trovati più a loro agio tra colleghi. A bordo  del camion, nel rimorchio, c’erano i ragazzi. E i teloni li hanno nascosti. Poi, arrivati in piazza, hanno usato le scale e con la fiamma ossidrica hanno praticato i fori, inserito le funi e poi sollevato con il braccio della gru le due vele, che sono finite sul cassone del camion. E poi, via. E’ stato facile”.

“E adesso dove sono?”. Il Capitano faceva ancora domande, voleva capire.

“Le vele non lo so, i ragazzi neanche. Perché non dimentichiamo questa storia?”.

Il Capitano le afferrò la testa, e stringendola forte, la fissò diritta negli occhi. 

“Ho detto quindici, non uno di meno”. E tirò un lungo sorso dalla bottiglia.

 foto di Renato Zennaro

Nel frattempo all’aeroporto di Tessera, Valter e Mario erano intenti a discutere con la signorina del check-in al banco Iberia. “Voglio un posto finestrino, per favore, non sarà così difficile”, ripeteva Mario. 

Valter cominciava a scocciarsi e tirò un pugno, ma senza forza, sulla spalla dell’amico. “Datti una mossa, cavoli! Vuoi che perdiamo l’aereo?”. 

Finite le pratiche e con il biglietto in mano, i due prima di superare i controlli al radiogeno, si diressero al bar della sala partenze. Lì li aspettavano Dante, Sante e Dario, seduti ad un tavolino intenti a bere uno spritz. 

“Ragazzi, noi andiamo _ disse Mario, restando in piedi _ non facciamo neanche in tempo a berci uno spritz con voi, per colpa di quella incompetente del check-in. Mi raccomando, acqua in bocca ed evitate di vantarvi, eh”.

Sante gli sorrise: “Le regole della urban guerrilla, insegnano a vantarsi in privato, mai in pubblico, eh”.

“Va ben _ ribattè deciso Valter _ comunque niente discorsi con nessuno, noi torniamo tra due mesi se tutto va bene. Tanto di voi nessuno sa niente, tranne la Gina, e lei è fidata e ha il conto pagato. Qualsiasi problema, fate uno squillo al numero che vi abbiamo lasciato e poi ci facciamo vivi noi, capito?” 

Pelosin e i fratelli Zanzetti annuirono. Poi fu il momento dei saluti. I cinque si abbracciarono , tra pacche sulle spalle e baci, e poi Mario e Valter se ne andarono senza girarsi. Li attendeva una lunga vacanza in Spagna e Portogallo, l’occasione giusta per ritrovare gli amici che non rivedevano da anni. 

Sul volo dell’Iberia, i due amici si sistemarono uno a fianco all’altro, con le cinture allacciate. Mario non vedeva l’ora che l’aereo decollasse, era visibilmente emozionato. Valter lo guardava e rideva: l’amico di una vita sembrava ancora il ragazzino che lo sfidava all’assalto ai pirati, con le barchette di carta fatte galleggiare dentro la fontana di piazzale Garibaldi. 

I minuti sembravano ore, poi il decollo, anche quello lunghissimo. Almeno così pareva a loro. Valter aprì il giornale e si lesse l’articolo sul furto. Il giornalista spiegava lo sbigottimento di una città per una beffa di simile portata, il sospetto di una azione malavitosa che poteva lasciar presagire la prossima richiesta di un riscatto, le dichiarazioni sdegnate delle autorità. Ma anche i commenti entusiasti dei residenti intervistati, contenti che le Vele fossero sparite, e l’esultanza del comitato e dei consiglieri comunali che si erano battuti per far spostare, invano, quel monumento che in città nessuno aveva mai amato e capito. Sulla complicità con i malviventi della banda del pagliaccio, non c’era nulla se non qualche sospetto. Ma il cronista chiudeva la questione, con piglio deciso. “Pensare ad una alleanza tra un gruppo di buontemponi anti-brutture architettoniche e la mala, è assai dura. Piuttosto potrebbe trattarsi di un depistaggio. Lo diranno i risultati delle indagini condotte dal valente Capitano XXXXXX , che sta coordinando il lavoro di decine di uomini dell’Arma”. 

 All’improssivo Mario si stampigliò con la faccia sul finestrino, proprio come fanno i bambini. Poi, l’urlo: “Valter, varda!! E cavite sta cintura, movite!”. Sotto di loro il vallone Moranzani, tra Fusina e il Petrolchimico. E in mezzo all’erba, quella macchia marrone, due strisce rossastre nel verde. Per notarle, ci volevano occhi allenati, ma loro sapevano bene dove guardare. Eccole le Vele, nella loro nuova casa. I camini del Petrolchimico, visti dall’alto, sembravano a due passi. 

“Bee vero? Là sì che la ruggine sta proprio bene!”. 

ps2: un grazie al sapor di Barbaresco a<a href=”http://nyft.org“>Sba</a> per la consulenza tecnica

Il cuoco sa aspettare

foto di Giacomo Cosua

 

 

Le sue mani massaggiarono lente il pezzo di carne. Aveva mani grandi ma gentili, con le dita e le unghie ben curate, ed accarezzava il grosso pezzo di filetto, come un fisioterapista alle prese con una schiena dolorante da sistemare. Le sue dita scivolarono lente , studiando gli accenni delle nervature, quasi invisibili, e il filetto sembrava gioirne. Ad ogni carezza, la carne sembrava diventare più rossa, come se quel massaggio riattivasse la circolazione dei capillari , tranciati di netto durante la lavorazione al macello. Si sarebbe aspettato che quel filetto riprendesse all’improvviso vita, cominciando a saltellare sul marmo del tavolo della cucina davanti al terapista in adorazione. E invece un colpo secco, improvviso, ne decretò la definitiva fine. Il grosso coltello che aveva calato dall’alto, per tre volte aveva colpito senza pietà, trasformando quell’unico pezzo in quattro parti, della medesima larghezza.

Quattro piccoli perfetti pezzi di carne. Al gesto accompagnò anche lo sguardo, mostrando tutta la soddisfazione che coglie chi sa bene quel che deve fare e come farlo. Prese in mano i quattro pezzi, soppensandoli, sollevandoli e portandoli a pochi centimetri dal naso, per annusarne l’odore. Aveva voglia di carne fresca , si disse, e quella sera avrebbe mangiato carne ed era felice.

Lo sarebbe stata anche lei, si disse e sorrise. Gettò i quattro pezzi di carne sulla padella, con gentilezza, e poi voltò lo sguardo verso la sala del ristorante. Affollato come ogni sabato sera, con i bambini che correvano attorno ai tavoli e i genitori, indifferenti, alle prese con una pasta ai broccoli o la grigliata, intenti a parlare con gli amici e i parenti dell’ultima partita di calcio e dell’ultima borsa comperata. Altri tavoli, quelli da due, erano occupati da coppie. Ragazzi e ragazze, alle prime uscite, o coppie già collaudate. In fondo, una compagnia di amici e amiche, in tutto una quindicina, allegri e caciaroni, presi dai brindisi a ripetizione. Come trovassero esaltante quel vino fatto con le bustine, lui proprio non lo capiva. Ma all’ignoranza altrui non faceva più caso, non si arrabbiava più se la gente non sapeva manco cosa era un Sauterne e preferiva spendere 50 euro per sfamarsi alla buona, invece di scegliere di darsi piacere, mangiando alla grande e conoscendo cosa assaggiava. Lui la differenza la conosceva. E si ringraziava ogni giorno, per questo.

E anche lei la conosceva quella differenza, per fortuna. Aprì il frigo e guardò, soddisfatto, il pezzo di carne che aveva tenuto per sé. Era il suo personale regalo a sé stesso per il post lavoro. Tra due ore sarebbe diventato un magnifico filetto chateaubriand su un letto di castraure, tagliate a crudo. Che vino abbinarci? Aveva due alternative, un Cabernet o un Nebbiolo. Lei avrebbe detto sicura di volere il secondo.

Avrebbe scelto dopo, si disse, intanto la carne doveva marinare, e quel pensiero lo fece tornare a sorridere. Ci vuole pazienza, si disse, e lui ne aveva avuta da vendere. Si meritava quel premio E lei lo sapeva…

E ripensando alla sala piena di commensali, e rumorosa, si chiese se anche loro sapevano aspettare. La risposta fu negativa, ci mise un nanosecondo a rispondersi. Il titolare ieri l’aveva richiamato all’ordine tre volte. “Devi darti una mossa, la gente si stufa di aspettare”, gli aveva detto. E lui aveva ascoltato, senza sentire. In cucina la pazienza è fondamentale. Non gli piaceva fare in fretta, non avrebbe mai servito una pasta non preparata a puntino o, peggio, un filetto al pepe verde mal cotto per accontentare clienti frettolosi. “Mangiare e scopare non fan rima con fretta”, si era limitato a rispondere e il titolare l’aveva guardato, con odio, e se ne era andato via, bestemmiando. Sapeva di esser a rischio, tempo qualche giorno e quell’incompetente avrebbe potuto tornare per comunicargli i 15 giorni di preavviso prima del licenziamento. Ma non gli interessava, così come non gli interessava se Marta, la cameriera di sala, gli avrebbe presto tolto il saluto. Anche lei non era paziente. Lo corteggiava da settimane ma lui non aveva ceduto. Era bella, lo dicevano tutti, ed era innamorata di lui. Ma mangiava solo insalata senza condimento, calcolava le calorie di ogni cibo, e sceglieva solo quello, che nella sua piccola testa ricoperta da riccioli biondi, non era un attentato alla sua scheletrica linea da aspirante fotomodella. E soprattutto, non mangiava carne. Era vegetariana. Un giorno, per giocare, l’aveva tirata a sé e stretta forte e aveva sentito, nettamente, le ossa scricchiolare sotto le sue mani. Dove era la carne? Quella era stata la prova finale: di chi non amava la carne, quella del proprio corpo come quella che vedeva nel piatto davanti a sé, non si fidava. C’era poco da fare. E con Marta non ci sarebbe stata né una cena, né il dopocena che lei voleva. Era evidente. Lui sapeva aspettare, si ripeté, come se fosse un mantra.

E lei era come lui…Finito il lavoro, quando Marta e le altre cameriere se ne andarono dopo aver sistemato i tavoli e spazzato per terra, il cuoco tolse il grembiule bianco e ne indossò uno nero, lungo fin sotto le ginocchia, tirò fuori il pezzo di carne dal frigo e cominciò a tagliarla per prepararsi la sua Chateaubriand. Non pensò neanche allo sguardo infastidito che gli aveva lanciato Marta, andandosene per ultima. Lui aveva altri impegni, basta.

“Grazie, Teresa”. Salutò il piatto davanti a sé con la faccia di chi vede realizzati i suoi desideri. Apparecchiò uno dei tavoli per due: due piatti, quattro bicchieri, un doppio di posate. Sistemò un vasetto con una rosa a centro tavola e accese una candela, al profumo di vaniglia. Tornò in cucina, prese la bottiglia di Nebbiolo e la stappò, poi si sedette ad aspettare che la carne finisse di cucinare. Il tempo necessario per la perfezione, il tempo perché lei arrivasse. Si gustò un bicchiere di vino e quel Nebbiolo che gli scendeva in gola gli ricordò la bellezza della pelle di lei, che quasi rischiarava la camera da letto, surclassando la luce dell’abat-jour.

Le sue labbra rosee che gli dicevano che ne voleva ancora, il piatto di carne sul letto sfatto e le risate di lei che diceva che era buono, che le piaceva. E poi lei che gli prendeva le mani e lo tirava a sé e gli chiedeva, sussurrando all’orecchio: assaggiami. E il suo volto felice che guardava lei gettar indietro la testa urlando…E poi quella forza incredibile, il morso deciso, il sapore del sangue in bocca e quella sensazione di fame, fame profonda, come se non avesse mangiato da decenni e la voglia di carne, che copriva tutto. Sì, la voglia aveva coperto tutto.

Non si ricordava se lei avesse gridato a lungo o si fosse messa a piangere, implorando…Ricordava solo il sapore della carne, squisito, inebriante, eccitante e il suo corpo, lo stomaco e la bocca, che gli ordinavano di non smettere, perché era di quello che lui aveva bisogno…

Agitò la mano in aria come a scacciar i pensieri e tornò in cucina: il filetto chateaubriand era pronto. Lo appoggiò sul piatto, sopra il letto di castraure crude, con gesti gentili, e lo sguardo quasi commosso e andò a sedersi a tavola. Aveva aspettato così tanto che per un attimo non ebbe il coraggio di muovere il coltello per il primo taglio. Ci pensò e poi impugnò la forchetta, colpendo il primo pezzo di carne con sicurezza.

“Ciao Teresa, eccomi”.

La casa dei giochi

C’era una volta la casa dei giochi, passati di mano in mano dai fratelli maggiori ai minori, dai cugini ai piccoletti, come i vestiti che non vanno più bene quando cresci. Nella casa che poi era un garage, ma a noi piccoletti sembrava un immenso parco giochi al chiuso c’erano le biciclette rotte per giocare a far i meccanici; le spade di Zorro per invincibili duelli in cui contavano i rifletti ma pure la recitazione perché quando l’avversario ti colpiva, dovevi morire bene. C’erano le carte per giocare a scala Quaranta con lo stecco di liquerizia in bocca a mò di innocua sigaretta, per darsi un tono da grandi. C’erano i palloni , alcuni da basket e altri da calcio, che li usavi anche sgonfi, tanto l’importante era tirare e calciare. C’erano un sacco di pezzi di legno da colorare e accatastare a piacere e c’erano, lo ricordo bene, le vecchie bambole che vestivi o usavi come cavie per testare l’effetto che fa su un corpo lo schianto dell’ultima macchinina a molla ricevuta in regalo per Natale. E i martelli e i seghetti ( quelli stavano in alto sugli scaffali, ma la forza del gruppo trovava il modo di arrivarci, usando sempre i più piccoli come lunghe mani) con cui testare l’effetto che fa su una macchinetta a molla appena ricevuta per Natale un bel colpo assestato all’improvviso. C’erano i birilli e le bocce, c’erano i cerotti per quando cadevi dalla bici e facevi il muso duro con i lacrimoni che ti scendevano sulle guance e guardavi sconvolto i sassetti conficcati a stella nella pelle del tuo ginocchio viola. C’era quella specie di palla da rugby attaccata ad un filo con ai lati le doppie maniglie che facevi volare di forza sulle mani del tuo avversario. C’erano le trottole, le biglie e pure i tappi, che erano uno spasso, erano. Nella casa dei giochi ci si passava ore e quando i giochi li avevi provati tutti, non ti restava che nascondino, strega comanda color, e se proprio non ti passava la voglia e ne volevi ancora, c’era il campanon segnato a terra con il gesso dai più bravi. E poi tutti, sfiniti dalla scorribanda, ci si buttava a terra a pensare cosa saremmo stati da grandi. E lì, tra carabinieri, astronauti, ballerine e maestre, si passava a giocare ai ruoli. Tu fai il paziente e io faccio il dottore e c’era già allora chi aveva una passione smodata per l’anatomia e voleva vedere, da vero scienziato, perché le bambine per far la pipì non possono solo abbassare la cerniera del jeanz, e perché se tiri un pallone in mezzo alle gambe di Pippo, rimane per terra mezz’ora a urlare, quell’attore. E così nella casa dei giochi si scopriva che, giocando, si impara.

Dilla tutta la verità

Bisogna pur dirla tutta, la verità. Ed evitare, un giorno, di arrivare ad odiarle le parole. Che quando vuoi bene non sono fondamentali. Un ti voglio  lo puoi sostituire con un sorriso, un ti desidero con una stretta forte dell’avambraccio. Un come stai può restarsene tranquillamente muto, in un angolo del salotto, mentre tu protendi la tua spalla, per lasciar riposare una bella testa stanca, e te la godi lentamente quella pressione provocata sulla tua clavicola. Un vieni qui può restarci tutto dentro uno sguardo e non servono le parole per far capire quando il ti desidero supera la ragione e diventa mancanza completa dell’altro, tanto che l’unico posto dove vuoi stare è un letto in cui rotolarti.  Aggrapparsi alle sole parole non basta a spiegare cosa provi e come lo provi. Parlando, pensi di darti, ma dilla tutta la verità! Le parole , a volte, sono solo una porta chiusa. Sono strumenti meravigliosi, che dovremmo imparare anche a lasciar muti, per farli risuonare di più. E dietro le parole si finisce anche con il nascondersi. Finisce che volevi rotolarti in quel letto e invece dici che non importa. E ti senti, dopo, nel tuo personale silenzio,  il più grande dei minchioni intergalattici solo perché hai dato fiato alla ragione, all’amor proprio, alle tue scelte e convinzioni e la verità te la sei tenuta per te. Hai dato fiato alle trombe per evitare quei gesti, quegli sguardi, quei movimenti impercettibili delle labbra che sono l’essenza dell’azione, del movimento, della voglia ma che ti lasciano nudo davanti all’altro. E non tutti nascono naturisti, bisogna anche dirle le verità una volta tanto. Se dico cento volte ti voglio, questa inondazione di parole non avrà lo stesso effetto di quella pressione della mano sull’avambraccio. Questa è una verità. Parlare, a volte, è un di più che non toglie dalla bilancia quella tonnellata di mancanza che ti ingobba la schiena e ti imbizzarisce il colon. E se è vero, sei il re dei minchioni intergalattici.

La tiraossi

Zia Ester aveva un potere. Mia madre me lo diceva sempre. “Comportati bene con lei, che è una mezza strega”. A guardarla , seduta nel salotto di casa, intenta a sistemarmi l’ennesimo dito gonfio dopo una partita con i ragazzi al campetto da basket, mica ci credevo tanto. Era piccolissima, la zia. Piccola come può esserlo una bambina. Ma aveva le rughe a testimoniare che gli anni per lei erano passati. Mi diceva mia madre che aveva passato gli ottant’anni. Ma a me sembrava solo una bambinetta rugosa, con gli occhi vispi. E silenziosa. 
Zia Ester parlava pochissimo. Con l’uovo guariva ogni genere di dolore, contrattura, dito rovinato dai nostri giochi di bambini. La chiamavano tutti nel vicinato quando serviva una che “tirasse gli ossi”. 
Una sorta di fisioterapista di paese. Ma lei in più aveva una dote. Lo disse lei stessa con poche parole, un giorno che oggi sembra un secolo fa, mentre mi sistemava una caviglia gonfia come un melone. “Io sento”. 
Sentire, quello era il segreto del potere della Zia Ester. Mia madre, devota donna di campagna, passata non senza patemi d’animo, dalla condizione di religiosissima figlia di contadini a moglie di un comunista incallito, allergico all’incenso e a qualsiasi funzione religiosa, la definiva come una mezza strega. Non strega intera, di quelle che fanno i riti magici e ti appioppano fatture e maledizioni. Mezza, invece. Quindi una strega ma buona e innocua. Ovvero, come tentò poi di chiarirmi mio padre, una donna che sente le cose, prima che accadano e magari te lo dice pure. In realtà zia Ester non diceva proprio niente, ma sentiva e teneva per sé. Salvo uscirsene in qualche rara occasione con una affermazione che poteva spaccare in due qualsiasi umano di passaggio. Perché inattesa e imprevista. Te la ritrovavi spesso per casa, perché viveva da sola e tutti i parenti, a turno, si prodigavano per invitarla a pranzo o a cena. Era zitella, non si era mai sposata. Le cugine mi raccontarono che lei si era innamorata così tanto di un soldato, che quando lui partì per la guerra e poi non si fece più vedere, lei pianse per mesi e poi disse a sua madre che sarebbe rimasta da sola. E così fu. Non prese i voti per diventare suora, solo perché lei odiava fortemente tutti i preti. Li considerava espressione del demonio. E così diventò la “tira ossi” del paese. La pagavano poco oppure le garantivano uova, galline, musetti e quant’altro fosse prodotto nelle case di campagna della zona. E quando sua madre morì la casa restò a lei e tutti si prodigarono per garantirle un aiuto economico. Tutti in paese erano sicuri che lei fosse vergine, perché non l’avevano mai sentita parlare di sesso o uscire con un uomo. Per lei il mondo era esclusivamente al femminile. Solo donne voleva attorno a sé, gli uomini li vedeva solo se doveva curarli.
“Io sento”, mi disse quel giorno la zia. Stava stendendo l’impasto d’uovo sulle bende che mi avrebbero stretto fortemente il piede gonfio. Poco prima mi aveva “tirato” i nervi, toccando le dita del piede, una ad una. Io stavo ancora bestemmiando dal male, con mia madre in sottofondo intenta a ridere e a farsi ogni tanto il segno della croce, quando zia abbassò ancora di più il tono della voce e mi disse. “Non preoccuparti, arriva”. E poi aggiunse quel “Io lo sento”. Io rimasi con un sorriso a metà, decisa a non mostrare quanto ero stupita da quella affermazione, che mi era arrivata addosso come un sasso lanciato dalla finestra. “Perché me lo dici, zia? E cosa arriva? “, provai a chiederle. Ma oramai lei era tornata al suo notorio silenzio, con le mani sulla mia caviglia e gli occhi fissi sul piede. Poi andandosene, tornò a sfiorarmi il viso. “Ti sembrerà che non arrivi mai, ma arriverà”, tornò a dirmi, guardandomi stavolta negli occhi. Quando la zia morì, lo disse a tutti il giorno prima ma nessuno ci fece caso, perché nessuno capì quel che stava dicendo. Eravamo tutte nel soggiorno di casa sua, le avevamo portato delle uova. Lei era nervosa, quel giorno, come se la nostra visita l’avesse infastidita. Come se dovesse uscire per un impegno. Ma di casa praticamente non usciva mai. “El me ga ciamà, bisogna che vada” disse a mia madre e alle altre due zie che erano con noi. Loro non ascoltarono, io sì, invece. Avevo sentito benissimo quello che Ester aveva detto. E la zia, come se l’avesse capito al volo, girò la testa verso di me. “Digeo ti, che ti ga capìo”, mi disse lentamente. Poi si avvicinò a me e mi prese la mano, accarezzandola. E mentre mamma e zie sistemavano casa, pulendo il lavello della cucina e spazzando per terra, zia Ester tornò a parlarmi. Mi fece un discorso strano, che ricordo ancora. Mi spiegò che io dovevo star tranquilla , che era vero che io sentivo, ma non come lei. Ed era una fortuna. Lei sentiva le cose, io le emozioni. Lei sentiva che gli eventi sarebbero capitati, e purtroppo sentiva, invecchiando, sempre più le sciagure e meno le felicità. Io invece sentivo gli stati d’animo e ci avrei convissuto benissimo. Bastava che parlassi poco. Poi tornò a ripetermi quella frase che era un mistero e lo è ancora oggi. “Non preoccuparti, arriva”. Non so ancora chi io debba aspettare o se questo qualcosa o qualcuno è già arrivato e io non l’ho visto. Perché il mio sentire, semplicemente non esiste. Zia Ester se ne andò la mattina dopo. L’aveva uccisa nel sonno un infarto. Sul comò a fianco del letto c’era la foto del suo innamorato, il soldato sparito chissà dove. Sul tavolo della cucina trovarono il suo amato mazzo di carte, con cui giocava a scopa, ma che amava anche tenere solo tra le mani per ore, e un foglietto. C’era scritta solo una parola. “Arrivo”. A voi parrà strano, ma forse io ho capito perfettamente chi l’aspettava. Ma non mi va di dirvelo. Certi appuntamenti vanno tenuti riservati.