Archivio Autore: michiamomitia - Pagina 10

Quelli che

Se mi lasci, ti picchio.
Se non mi lasci, ti picchio lo stesso.
Se non ci stai, ti stupro.
Se stai zitta, ti scopo e ti picchio.
Se non stai zitta, ti ammazzo.
Ti ammazzo comunque.
Se resti incinta, non ti assumo.
Adesso che ti assumo, non restarmi incinta eh? 
Firma questa carta, che se resti incinta ti licenzi volontariamente.
Non ti faccio far carriera, anche se sei brava.
Sei brava ma ti pago meno dei tuoi colleghi.
Sei brava, lavori per otto, quindi perché cambiarti qualifica?
Abbiamo la stessa qualifica, ma io sono più motivato.
Sei in gamba ma se ti fai una famiglia cambia tutto, quindi la qualifica spetta a me.
Non mi piacciono le donne in carriera.
Sono cattolico osservante ma una notte di sesso con te me la faccio.
Sono cattolico osservante ma quello della prostituta è il lavoro più vecchio del mondo.
Alla fine, io sono un signore e  tu sei solo una puttana.
Se mi bacia un gay lo prendo a sprangate, ma con i trans è una esperienza diversa.
Prima del giuramento di Ippocrate viene la fede, quindi niente pillola del giorno dopo.
Sono pure contrario all’aborto. E’ un omicidio.
Ha fatto sesso senza preservativo? Lei è una facile.
Hai un figlio e sei single? Allora sei facile.
Facciamolo senza preservativo che sono allergico al lattice.
Diventerò padre? Ma la mia carriera ne risentirà.
Il figlio è tuo e te lo gestisci tu.
Il figlio è mio e lo educo io.
Ha denunciato di esser stata violentata? Ma se l’ha fatto entrare in casa allora lei ci stava.
Io so come farle godere le donne, tutte. 
Sei grassa, dovresti dimagrire.
Sono grasso? No, sono di corporatura robusta, io.
Ti è piaciuto? La cosa è reciproca.
Hai ancora voglia? Vedi che sei una puttana?
Non hai voglia? Ma allora sei frigida.
Non ti è piaciuto? Ma se hai fatto tutto quello che volevo io…
Hai mal di testa? Sei solo depressa.
Hai mal di testa? E io ti picchio.

Rivisitazione di Fallocrazia edizione 2009 – pubblicato su http://hotelushuaia.blogspot.com

Postato per la giornata contro la violenza contro le donne, con la speranza che ce ne ricordiamo tutti i giorni e non solo un giorno l’anno, per lavarci la coscienza.

Per questo ho usato un post vecchio, per ricordare che c’è chi alla violenza dice NO tutti i giorni.

E un abbraccio va anche a tutti quegli uomini che queste parole non le dicono mai.  

La donna che contemplava i calzini

Vuoi sapere quanti uomini ho amato, apri quel cassetto. Sì, il settimanale di mogano, primo cassetto da destra. Guarda…Li vedi? Se vuoi mettiti a contare, che io ho perso il conto. Ma poi non dirmelo il numero che a me va bene così, aprire il cassetto e toccarli i calzini mi basta. Non li ho mai contati, che non sta bene. Sì, quelli sono calzini, maschili, diversi e tutti belli. Sono i calzini degli uomini che ho amato, tutti singoli, quelli del piede sinistro. No, non me li hanno regalati. Li ho rubati, li ho nascosti sotto il materasso mentre loro dormivano. Loro sono tornati a casa con un piede nudo, io ho riempito il mio cassetto. Vedi, ci sono quelli di lana; quelli di morbida microfibra, così caldi e aderenti; quelli di spugna, che c’è ancora addosso il sudore di una corsa e poi c’è il filo di scozia, roba da signori eleganti che però li portano anche certi operai per bene che per amor del piede spendono un pochino. A me piacciono i calzini, li ruberei tutti e due ma poi penso che sarebbe un moto di egoismo eccessivo e allora mi accontento di uno solo. Li metto nel cassetto e poi, quando tutto finisce e il desiderio diventa solo un ricordo, a me resta un calzino da ammirare, annusare, toccare. Ce ne sono di bianchi, che a me paiono così modesti. Ce ne sono di neri, così virili. Ce ne sono di estrosi, a righine, a quadri, blu e arancioni, a costine o lisci. Uno per ogni uomo, uno per ogni ricordo. Ce ne sono di corti che mi stanno appena come un guanto quando ci infilo la mano e mi ricordano certe dita curiose. Ce ne sono di lunghi, che mi ci avvolgo come con una sciarpetta e mi ricordano certi caldi abbracci. A volte apro solo il cassetto e li ammiro da lontano, lì, gettati alla rinfusa, senza il gemello a far loro compagnia e mi chiedo se i fratelli son stati gettati perché orfani o se sono stati infilati pure loro in un cassetto, sotto le camicie e le canottiere, nella speranza un giorno di non restar più spaiati, come sono io adesso. Contemplativa e spaiata, con una montagna di calzini soli, che se li annodo tutti, ci farei il cappio perfetto. Ne son sicura, sarebbe caldo al punto giusto. Basterebbe un hop di incoraggiamento. Solo che non ho voglia, e chiudo il cassetto.

Ci abbiamo preso gusto. Nuovo esperimento di scambismo con http://dilaudid-dilaudid.blogspot.com.

Il benefattore

“Mi abbracci? Ho voglia di coccole”.
Piero si girò per guardarla bene. Non poteva essere così cretina.Era filato tutto liscio, avevano cenato assieme all’osteria Da Gianni, poi Emma lo aveva seguito a casa sua, senza alcun indugio.I soliti preliminari scontati, un bicchiere di vino davanti all’impianto stereo, il disco che girava, la puntina che grattava il solco. “Ma ascolti ancora i dischi in vinile? Roba da matusa”, aveva detto, ridendo.

Lui aveva sorriso, poi l’aveva presa alle spalle, premendo il ventre addosso al suo sedere e il resto era scivolato via, sereno e semplice, niente che l’avesse sconquassato dentro. Una bella scopata. Poi, l’errore.

“Mi abbracci? Ho voglia di coccole”.

Il sorriso sornione, post coitale, di Piero scomparve lasciando il posto al freddo.

“Certo”, le disse. “Aspetta un secondo, che arrivo”.

Emma era seduta sul letto, teneva le gambe strette al petto e guardava la stampa di Pollock sul muro davanti. Attendeva il premio. “Eccomi”, le disse Piero prendendola di nuovo alle spalle. Con una mano le strinse il mento, con l’altra le passò veloce sul collo senza accenni di rughe un coltellaccio dal manico marrone. Lei non fece neanche in tempo ad urlare, venne colta di sorpresa da quella violenza inattesa.

Emma moriva lentamente, soffocata dal sangue che sgorgava a fiotti dalla giugulare recisa. “Lo senti il freddo anche tu?”, le disse Piero. “Ti credevo diversa”. Lei non rispose, si limitò a sobbalzare sul materasso, la bocca muta che si apriva a cercare l’aria. I movimenti, pensò Piero, erano identici a quelli di un pesce gatto preso all’amo e sbattuto sulla riva del fiume, gli occhi che si spengono un pochino alla volta. Lui sorrise, malizioso, avvicinando la faccia alla sua. Sentì che anche il freddo se ne stava andando, lentamente.

Prese il coltello e se ne andò in bagno. Lavò la lama sotto il getto del rubinetto del lavandino, con gesti precisi. E visto che c’era, si fece una doccia. Caldissima.

Quando tornò in camera, lei era solo un corpo morto su un materasso rosso sangue. “Emma, hai visto quanto bene fanno le coccole?”, le disse Piero, ridendo dentro al suo accappatoio blu. Poi si vestì per portare in garage il corpo e caricarlo sull’apecar della Municipalizzata. Destinazione, la discarica comunale. Al solito, nessuno si sarebbe insospettito di quei movimenti. Tanto lui alla Municipalizzata ci lavorava e faceva piaceri a tutti nel condominio, facendo sparire tra i cumuli di rifiuti, di tutto: dai materassi vecchi ai mobili da buttare. E pure rifiuti speciali.

Una parola cambia tutto. Sempre. Emma che era calda e umida, adesso è fredda. Una scopata normale, di quelle che quando sei vecchio, neanche te le ricordi più, finisce con un corpo morto di coccole. Piero se ne dovrà ricordare ora.  Solo perché deve tenere il conto. Non è la prima volta, non sarà l’ultima.

“Voi donne siete proprio cretine”, disse ad alta voce, mentre con gesti esperti preparava le funi per legare il materasso come un bozzolo funebre per la sua vittima. Non la prima, mai l’ultima. “Coccole, volete le coccole”, continuò il suo discorso, con un tono di scherno. Odiava il suono di quella parola. Tre sillabe, un mare di ribrezzo che diventava un vento gelido dentro le vene. E lui agiva senza chiedere permesso perché aveva bisogno di far smettere il freddo. Era già successo sei volte ed ogni volta, dopo, si sentiva come uno che ha fatto del bene. Ogni volta che loro, le cretine, pronunciavano quella parola, lui vedeva il loro ego ipertrofico, espandersi di colpo, come se solo quel gesto, telecomandato, facesse loro assumere una dignità vera. E allora lui metteva fine alla farsa.

“Sono un benefattore”, si disse. Sono così tante le donne, prima e dopo l’atto estremo e umido del sesso, che reclamano coccole.Le odiava tutte: loro sentivano il bisogno irrefrenabile di pretendere quel che in Natura nessuno chiede. “I bambini le chiedono? – continuò a parlarsi ad alta voce – No. Sono le madri a inculcargli in testa quella schifosa parola. Loro, i bambini, se potessero far da soli, si limiterebbero a venire a metterti il naso contro il petto e starebbero lì a passar calore, come i gatti, strusciandosi. Senza dire. No, le donne pretendono le coccole”. E se non ottengono, se il loro ego resta scheletrico, mostrano quell’occhio, pieno di odio, tipico dei corpi senza dignità.

“Ma a voi, ci penso io “, disse Piero, trascinando il materasso arrotolato verso il garage. E chiuse la porta.

Si ringrazia  per l’ispirazione e l’idea il signor  Dilaudid

http://dilaudid-dilaudid.blogspot.com  

 

Stati di indipendenza

-Psss, pss…sei sveglia? Dai, svegliati, che mi sento sola…

Ho aperto gli occhi di scatto.  Nel letto non c’è nessuno. E allora da dove viene quella vocina. Mi sono stropicciata gli occhi e poi mi sono rigettata sul letto, ridendo dei miei sogni strani. Che io quando sogno lo faccio bene, con i colori e i dialoghi e tutto quello che serve a rendere ogni sonno un viaggio dormiente. Anche se poi ricordo poco. 

– Oh, ci sei. Senti, parliamo un pochino?

La risata mi si è strozzata in gola. Ancora? Quella vocina è arrivata diritta dentro il padiglione auricolare, l’ho sentita perfettamente. 

Ecco, è la follia. Comincia così, dal sentir le voci e, poi, finisce che diventi come l’Amalia Muniega, sola e barbona a parlar con i treni che passano in stazione e a chiamarli per nome. Ostia, se è la follia, è un bel casino da gestire. Ti modifica la faccia e il corpo e ti ritrovi sola, e brutta. Perché solo Remedios muore sola ma verde e bellissima e piena di polline che attira le farfalle…La pazza, qui, lontano chilometri da Gabo, finisce come l’Amalia, sola, barbuta, con le scarpe da alpino e il cappotto militare, a parlar coi treni.

-No, non sei matta…Sono io che non ti ho parlato mai, finora.

– Io chi?

– Io.

– E dove saresti?

– Qui.

– Qui dove, che in questa camera non c’è nessuno.

– Sotto il piumone.

Allora, ho preso la coperta, l’ho gettata in aria con un misto di paura e curiosità e non c’era niente. Ci sono solo io, con le mie gambe stese sul materasso e nient’altro se non il lenzuolo. In fondo al letto, le mutandine, tolte prima di addormentarmi che mi davano fastidio. 

– Le mutande parlano?

– No, sono io…insomma ma non mi senti?

– Ti sento eccome.

– Sopra le tue gambe…

Allora con uno scatto mi sono seduta sul letto, e ho guardato la pancia. Niente. E con le mani mi sono toccata la pelle perché ho avuto paura che a parlare fosse una qualche bestia infettiva. Come la mosca. Oddio, se è la mosca svengo, quella che con le radiazioni nucleari si è fusa con un uomo, diventando una roba orrenda.

– Certo che ne spari di cazzate, eh

– Qualificati, invece; esci allo scoperto, stronzetto!

– Prego stronzetta, semmai.

– In effetti, mosca è femminile. Ma…

– Basta, guardati tra le gambe. Dai, non è difficile…cosa c’è?

– La pancia.

– Quella è sopra, io dico sotto.

– Il pelo.

– Sì, che nero! Ok, quello c’è, ma dico sotto, tra l’incavo delle gambe.

– La vagina?.

– Ecco!

– Ecco, cosa?

– Sono io!

– Io, chi?

– La vagina.

– Ma chi sei? Ma mi fate gli scherzi?

E ho cominciato a far volare tutto: il piumone, i cuscini, il lenzuolo, via le ciabatte. Sono scesa dal letto e mi sono messa a guardare dentro le lampade sui comodini, dentro i cassetti. Alla caccia di un fantomatico microfono nascosto.

– Che cerchi?

– Ohhhhhh, ma basta con questi scherzi cretini!!! Tirate fuori il microfono, vi ho scoperti.

– Ma se siamo solo io e te, qua.

– Non è pos-si-bi-le!!! E’ solo uno scherzaccio di pessimo gusto.

– Io non scherzo e non sono manco di pessimo gusto, scusa. 

– Dammi una prova. 

– Ma che prova vuoi?

– Dimostra che sei tu, davvero.

– Io e te andiamo d’accordo, da sempre.

– Non basta.

– La prima volta che mi hai sentito davvero è stato per colpa dei capelli della Barbie sposa. Te la ricordi?

– Ehm…

– Specifico?

– Lasciamo perdere. Mi hai convinto. Come mai mi parli? E’ la follia, vero?

– No, per carità. Mi sentivo sola.

– Ah!

– Sì! A te non capita?

– Certo che mi capita. Ma mi pare, che nonostante tutto, io mi impegno per non farti sentire sola. Ecco, non vorrei che proprio tu venissi a farmi la paternale sul fatto che sono single ancora, eh. Che oggi, con tutti ‘sti scossoni mentali, una tiritera su sta cosa, no…

– No, non è quello. Non è per il sesso.

– Ecco, niente recriminazioni.

– E chi recrimina…E’ che mi manca qualcosa.

– Sì, lo so.

– Ma mica è quello che pensi te. Cretina.

– Beh se parlo con te, diciamo che sono sulla buonissima strada per sentirmi tale.

– Uffa, a me manca una amica.

– Come, come?

– Una amica, una con cui confidarmi e dirgli tutto. E ridere di quel che penso.

– Te non pensi, dimentichi che il cervello non sta in mezzo alle gambe.

– Che c’entra , scusa? Io con quello fatico ad andar d’accordo e lo sai. Lui dice sempre quel che è giusto o no, quel che si fa o no. Poi grazie a me, ripeto grazie a me, se la spassa e va in estasi. Ecco, io voglio sentirmi importante e allora ho pensato che voglio una amica.

– Sei lesbica?

– Noooooooo.

– Ma io sono piena di amiche, che mi vogliono bene, e a cui racconto anche i sobbalzi più intimi che fai. Non diciamo cazzate, per favore.

– Sì, ma lo dici tu…e io invece a chi lo dico? Rivendico il diritto di farmi capire.

– Te ti fai capire benissimo.

– Non è lo stesso. Io voglio urlare di gioia e dirlo che quando sto bene, non mi sento più relegata in mezzo alle tue gambe, lì in basso. Voglio dirlo che sono gigantesca e morbida  che potrei arrivare all’altezza del cervello e farlo stare zitto di paura, con i suoi si fa e non si fa, si deve e non si deve. Perché avrebbe paura di me, io sono immensa.

– Beh, insomma.

– Non è una questione anatomica ma di sensazioni.

– Sì, ho capito. Ma scusa, il problema è che non urli?

– Il problema è che non so con chi urlare!

– Ma come? Quando succede, urla, con me. Ma scusa, ti ho mai trascurato? Fatto mancare qualcosa? Non capisco.,,

– Che fai? Gridi all’ammutinamento?

– Ahhahahahah, adesso chi è la cretina?

–  Io voglio potermi confidare con qualcuno, senza che il cervello sappia. 

– Beh, lo fai con me.

– Ma te col cervello ci hai a che fare tutti i giorni…

– Se è una questione di gelosia, parliamone.

– E’ una questione di priorità. Chi ti fa stare bene? Io!

– Eh, lo so questo. 

– E allora? Perché non sei mia amica?

– Ma te sei pazza, io amica tua lo sono eccome. Mi preoccupo che tu stia bene, che non ti capiti niente di male, che tu possa esprimerti al meglio. O no? Vedi che sei qua per recriminare e basta? 

– E’ che poi a comandare è sempre è lui, il cervello. 

– Beh, ovvio…

– No, rivendico la mia importanza nella tua vita. Almeno al pari suo. Vedi che sei amica sua di più? Lui ti dice quel che è giusto o no, e tu lo segui. Invece, a volte, il giusto che penso io tu non lo consideri. 

– Lo dici. Ma decido io.

– Pensi sempre siano gli ormoni, e invece sono io!

– Sei una rompiballe, lo sai?

– Sì, come te. 

– Vero, ma io non so mica se tu hai sempre ragione. 

– Lui invece è infallibile, ho visto.

– Beh, a volte ha fatto cilecca. Capita a tutti. 

– Io non ho mai fatto cilecca.

– Boriosa.

– Stronza.

– Ti metto alla prova un mese.

– Sì, ma dopo? Che fai, mi butti via?

– Scherzi?

– No. 

– Ussignur…Visto che ci parliamo te lo devo dire. Io con te sto benissimo. Se rinascessi, rinascerei donna e rivorrei te.

– Non mi vorresti diversa?

– No.

– Non mi vorresti meno indipendente?

– No.

– Anche io non vorrei un altro corpo. Cioè…magari ti vorrei un attimino più figa, ma sostanzialmente mi vai bene. Mi hai sempre trattato bene. Non mi hai mai trascurato.

– E allora vedi che ti sei lamentata per niente.

– No, avevo bisogno di farmi sentire, di prendere posizione. Tu lo fai sempre, per una volta che lo faccio io…ti incazzi. Ma non mi fai paura! Rivendico il mio diritto di pensare al posto di quello lì, il cervellone.

– Ripeto. Ti do un mese.

– Ok, ti faccio vedere io.

– Adesso che si fa?

– Un bidet?

– Bon.

La donna del vento

Quando vide dalla finestra la spiaggia, lasciò l’impiegato dell’agenzia immobiliare da solo a parlare in cucina della qualità delle piastrelle, attraversò la stanza con passo deciso, aprì la porta della veranda e si tolse le scarpe da ginnastica. Scese con attenzione i tre scalini di legno e appoggiò il piede sulla sabbia.

Soffice, calda. Davanti a lei, il mare. 

Il passo indugiava nel calpestare quel tappeto di sabbia e conchiglie, gli occhi fissi verso l’orizzonte. 

L’impiegato, quando si accorse di parlar da solo, la raggiunse fermandosi sul bordo della veranda.

Scese solo due scalini. 

Aveva le scarpe di pelle nera, pulitissime che ci ti potevi specchiare. Non aveva alcuna voglia di sporcar il vestito per seguire quella strana cliente. Che non faceva domande, ma si guardava attorno con occhi curiosi. 

Era la decima casa che andavano a vedere in due settimane e lui cominciava a pensare che quella donna fosse la classica cliente che non aveva manco un conto in banca. Insomma , quella visita, si disse, era una perdita di tempo. L’aveva portata sulla spiaggia, a vedere quella casa che erano due anni che cercava di piazzare e che nessuno voleva.

Perché era isolata, in un posto di mare ,in cui d’inverno manco i cani arrivano. 

 

La cliente, davanti a lui, fissava il mare e muoveva la testa lentamente, annusando l’aria. 

“C’è vento qui, vero?”, disse all’improvviso e l’impiegato si senti all’improvviso scoperto.

“Sì, qui c’è sempre vento”, rispose. 

“E perché oggi no?”, rispose la donna.

“Beh, non lo so”.

“Resto a dormire qua, se domani arriva la compro”, disse la cliente.

“Signora, mi scusi. Ma non possiamo lasciarle le chiavi. Bisogna chiedere il permesso al proprietario. Se vuole prenda un altro appuntamento per un’altra visita”, disse l’impiegato.

“No, io resto. Chiuda pure tutto. Dormirò nella veranda. Ho il sacco a pelo in macchina. Arrivederci, la chiamo io domattina”.

Il tono non ammetteva repliche, l’impiegato, sbuffando, rientrò nella casa e si mise a chiudere i battenti e le porte. Poi prese le sue carte e se ne andò. Dal finestrino retrovisore vide la donna aprire la sua auto per prendere uno scatolone. 

“Domani quella col cavolo che si fa sentire. Dorme nella veranda e scompare. Ha trovato un tetto per la notte. ‘Sti pezzenti, io li riconosco lontano un chilometro”.

E se ne andò sgommando.


La donna sistemò il sacco a pelo per terra, al centro della veranda. Dallo scatolone tirò fuori delle grosse candele bianche e un sonaglio, fatto di canne di ferro. Lo posizionò sulla ringhiera della veranda, proprio davanti al mare. Poi tirò verso di se una vecchia sedia di vimini, piena di sabbia, la spolverò con una mano e si sedette a guardare il mare. Dal giacchino estrasse il pacchetto di sigarette e se ne accese una, in silenzio. 

Aspettò il tramonto, in silenzio. Fumando e guardandosi attorno.

Passarono un paio d’ore poi il rumore arrivò. Il sonaglio cominciò a muoversi e lo scampanellio si fece più forte. Era il vento che arrivava diritto dalla spiaggia, che si faceva più nervoso ogni momento che passava.La donna sorrise. Buttò la sigaretta, ancora accesa, sulla sabbia.

Corse verso lo scatolone e tirò fuori una veste bianca, lunga. Si spogliò in fretta, gettando i vestiti sopra al sacco a pelo. Restò nuda e si infilò la veste, tolse l’elastico che teneva i capelli racchiusi in una coda, e corse sulla spiaggia. Arrivò fino all’acqua e ci si tuffò dentro, poi, completamente bagnata, con la veste attaccata alla pelle, tornò sul bagnasciuga e cominciò a correre, urlando, cantando, ridendo, abbracciando l’aria con le mani e stringendosi il petto con forza scalciava e sollevava la sabbia.

Poi si sedette, stremata, guardare il mare.

 

“Cosa ci fa lei qui?”, disse all’improvviso.

Alle sue spalle, c’era l’impiegato dell’agenzia immobiliare. E lui tornò a stupirsi che lei lo sentisse arrivare, senza voltarsi. 

Senza il completo elegante e le scarpe di pelle nera, sembrava più giovane. Indossava una tuta, scarpe da ginnastica e un giubbotto leggero.

“Sono tornato a vedere se stava bene. Sa, una donna sola in una spiaggia deserta d’autunno che dorme sotto una veranda. Insomma… Mi sono preoccupato, potrebbe succedere qualsiasi cosa. Se vuole la accompagno in albergo, signora”.

“No, io resto qui. Si sieda vicino a me. Non vede quanto bello è il mare?”.

L’impiegato, sbuffando, si sedette accanto alla donna sulla sabbia. 

E la guardò. La veste bagnata attaccata alla pelle, i capelli sciolti con i riccioli appiccicati al viso, le guance rosse per la corsa. I capezzoli induriti sembravano un richiamo attraverso il cotone bagnato. 

Era bella, era strana.

La donna appoggiò la sua mano sulla sabbia a fianco della gamba dell’impiegato.

Si girò a guardarlo e gli accarezzò il viso. 

“Mi ricordi lui”.

“Di chi sta parlando, signora?”.

“Il vento. Io sono la sua donna. Lo amo da sempre”.

“Non capisco, mi scusi. Ma lei sta bene?”, rispose lui, spostandosi di qualche centimetro, imbarazzato.

“Sì, adesso che sono qui e lui c’è sto bene”, rispose lei. 

“Vuole che la accompagno in un albergo?”, ribatté l’impiegato.

“No, io resto qui. La casa la compro. Domani la chiamo per il pagamento”.

L’impiegato non fece alcun cenno soddisfatto, nonostante la buona notizia.

“Signora, ma la casa non l’ha praticamente vista. Costa molto. Saranno necessarie delle garanzie”.

“Questo lo so bene _ rispose la donna _ ma è qui che voglio stare e pago qualsiasi cifra. Per le garanzie, non ci sono problemi. La contatterà il mio avvocato”.

L’uomo non era convinto.

“Ma perché vuole stare qui che non c’è niente. Lei sarà sola, questo posto si anima tre mesi l’anno e comunque di sera non c’è mai nessuno. Il primo ristorante è a 20 chilometri”.

“Dove c’è lui, io resto. E poi scusi, ma pago. Cosa vuole?”, disse la donna, girandosi di scatto, infastidita da tanta ritrosia. 

“E’ che non capisco. Lei è la donna del vento…Non le pare strano?”, ribatté l’impiegato.

“No, perché lo amo”, disse la donna, a voce bassa. 

“Ma non si può amare il vento, scusi”.

La donna gli si parò davanti, gli occhi bagnati di lacrime, la bocca tirata in una smorfia di rabbia.

“Invece sì, si può amare il vento. Lui è il mio uomo. Lui tradisce di continuo, come gli uomini. Arriva e se ne va, come tutti gli uomini. Ti penetra e ti scompiglia e poi scompare. Come tutti gli uomini. Ma non mi ha mai fatto del male e io gli voglio bene per questo. E non sarà certo lei a decidere chi devo o non devo amare. Non sarà nessuno ad impedirmi di essere felice”.

“E’ vero…ma…”, balbettò l’impiegato, indietreggiando sulla sabbia per sottrarsi all’ira della donna. Non era più bella, con quel viso tirato, gli faceva paura. 

“Ma cosa! Dovete tacere, tutti. Basta, faccia silenzio!!!”, urlò lei, portandosi le mani alla testa. E poi riprese a parlare.

“Ma lei sa cosa significa stare tutti i giorni con un uomo che non ti guarda? Lei sa cosa significa farsi toccare da qualcuno che ti fa schifo e stare zitta e nascondere il dolore per non farlo arrabbiare? Lei sa cosa significa sentirsi in trappola?”. Urlava senza più controllo, guardando con odio anche l’aria che le girava attorno.

“Sono stata 25 anni sposata con un uomo che mi ha voluto solo per i miei soldi, che non mi ha mai voluto bene un giorno. Una volta al mese entrava nella mia camera, ubriaco e voleva fare l’amore. E lo faceva, a suon di schiaffi. Quindi, non mi venga a parlare di giusto, normale, meritevole. Abitavamo in un attico. Io dalla finestra della mia casa guardavo fuori e sognavo un amante gentile, un uomo che mi volesse davvero e non mi guardasse con odio. Entrava il vento dalle finestre di casa e io mi sono innamorata. Chiudevo gli occhi e lui arrivava e mi sfiorava, senza mai farmi male. Era gentile e rude, talvolta, ma mi ha sempre accarezzato. Mai uno schiaffo…E io non posso volere di più da un uomo. Ma lei lo sa quanto fa male uno schiaffo?”.

“No, non lo so”, disse impaurito, l’impiegato. 

“Da quindici giorni ho ottenuto la separazione, dopo che mio marito mi ha mandato all’ospedale a suon di botte perché una notte mi sono chiusa a chiave in camera per impedirgli di entrare. Ha sfondato la porta, mi è arrivato addosso come una furia e mi ha preso a pugni finché non ho perso i sensi. Mi hanno salvato i vicini, che hanno chiamato la polizia. Lo hanno arrestato, ancora con le mani sporche di sangue. Ora, ottenuta la separazione, voglio stare con l’unico uomo che amo”.

“Mi dispiace, io non sapevo _ disse l’impiegato, alzandosi di scatto da terra _ e mi spiace per quello che le è capitato. Ma il vento…signora, non è umano. Lei ha bisogno di cure, mi ascolti”.

“Cure? Quali cure…”.

“Quell’uomo che lei dice di amare, signora, è solo una fantasia…”.

“Una fantasia? Se ti offre una ragione per tornare a vivere e camminare e vestirti la mattina e pettinarti i capelli e farti il caffè _ ribatté lei, ritrovando di colpo la voce serena _ allora anche una fantasia merita un amore. Non trova?”.

“Non saprei _ rispose il ragazzo _ Ma almeno, è bello? La tratta bene?”.

“Sì, io lo seguo e quando lo trovo, lui è sempre felice. Mi accoglie con una carezza e poi giochiamo assieme, finché non cado stremata e soddisfatta. Non mi urla mai contro, non alza mai le mani verso di me. Ed è bellissimo, ha gli occhi verdi e mi da pace. Le ho detto che lei me lo ricorda? Ma adesso, scusi, devo andare. Mi aspetta sulla riva e non voglio farlo attendere troppo”.

“Va bene, vada pure”, disse l’impiegato, con una voce desolata.

“Non si preoccupi, domani la chiamo per la firma del contratto”.

“Va bene, me lo saluti”.

“Chi, scusi”.

“Il vento”.

“Sarà fatto, buonanotte”.

“Buonanotte”.

 


La volta che la Marisa cadde di culo

La Marisa comparve prima che potessi sentire il rumore del suo passo arrivarmi alle spalle. Me la trovai dietro all’improvviso. Due minuti prima ero alla fermata del bus, pacifica e serena. Un attimo dopo mi guardavo i piedi quando sull’asfalto, alle mie spalle, vidi netta l’ombra deforme da barbapapà.

Non feci neanche in tempo a girarmi per capire cosa era, che partì il primo ceffone. Fortissimo, una staffilata netta sulla guancia destra che scottava come quella volta che avevo scoperto che il ferro da stiro se te lo posi sulla faccia, acceso, brucia.

Ecco ricevere uno schiaffo dalla Marisa, era come beccarsi in faccia un ferro da stiro.

Con la guancia ustionata, cacciai un urlo, mi portai la mano alla faccia e poi aprii l’unico occhio che mi era rimasto sano per vedere chi era il responsabile di cotanto male.

La vidi

Enorme. Aveva una pancia che sembrava viver di vita propria, la Marisa. 

Vidi prima la pancia, poi lei. Una enorme massa gelatinosa che sporgeva dai jeans. Portava la cintura, le pance sembravano due.  Io non riuscivo a staccar gli occhi da quelle due pance, gonfie, che ballonzolavano ad ogni passo e che mi venivano lentamente addosso. L’occhio che fissava quel doppio sobbalzo, le fece montar la rabbia. 

Come tutte le ragazze obese, si incazzava perché non riuscivo a spostare l’occhio dall’effetto ipnotico di quel movimento gelatinoso, e quando mi ripresi, era troppo tardi. 

Lei mi respirava addosso. 

Aveva i capelli corti, troppo ricci, che donavano alla sua capigliatura la forma del fungo, aveva la faccia larga, con una bocca che sorrideva sguaiata e gli occhi piccoli e cattivi. 

Il rossetto ciliegia sulle labbra enormi, conferiva al suo viso un aspetto invecchiato, non dimostrava mica 17 anni. Aveva due anni più di me ma sembrava mia zia. 

Ora mi stava addosso. Strofinava le mani come se avesse voglia di tirarmi un altro schiaffo. Alla mano destra portava qualcosa che sembrava un guanto di lattice, e con l’occhio solo che mi era rimasto, mi misi a fissare quell’arto grosso come una paletta per le pizze nella speranza di schivare il prossimo colpo. E mi ritrovai stupita a fissarle la mano. Anulare, medio e indice erano infilati in tre lunghi cappucci, simili a quelli che il Gino mi mostrò quella volta che eravamo rimasti a casa da soli e lui voleva che lo toccassi in mezzo alle gambe.

La Marisa si allontanò da me come se all’improvviso le avessi fatto schifo e cominciò a vantarsi, a voce alta, di esser donna, di saper del sesso più di quel che noi, adolescenti liceali, potevamo intuire dai discorsi di mamma e papà. Lei ogni anno collezionava una raffica di fidanzati, tutti militari di leva alla caserma del paese, dicevano le mie amiche che avevano avuto già a che fare con lei.

La Marisa diceva che sapeva usarli bene quei cappucci, che tutti la volevano e che noi brufolose adolescenti liceali non avevamo neanche un’unghia del suo sex appeal. 

Ogni ragazzina che alla fermata del bus veniva picchiata da lei, raccontava poi che la Marisa prima di farle la faccia gonfia come un melone a suon di schiaffi, per rubar i cinquemila franchi che la ragazzina di turno aveva nel taccuino, e che erano la paghetta settimanale, ti arrivava addosso con le sue dita guantate con i preservativi e si vantava di tutti i maschietti in età da milite che si era fatta. 

Perché diceva, lei era bella, era cattiva e tutti avevano paura di lei. Anche i maschi avevano paura di lei. E tu che la guardavi, non potevi non darle ragione. 

Urlava che non ero niente, io che ero un terzo di lei in termini di densità corporea e non avevo avuto manco un settimo dei fidanzatini che lei diceva di aver avuto e per la paura mi ritrovai ad annuire. 

Aveva fantasia, la Marisa. Ogni volta il suo discorso sul suo esser bella, amata e ricercata da tutti i militari del paese era farcito da un pezzetto di storia in più. 

Stavolta, guardandomi da distante, raccontò di quella volta che prese a schiaffi quattro ragazzine in un colpo solo. Da sola. Poi raccontò del Pippo, il più cattivo del paese, che lei picchiò, disse, a mani nude e lui si innamorò poi perdutamente di lei. 

Poi arrivò l’urlo raccontato dalle amiche passate sotto le sue mani.

 “Tuuuuuuu, non sei niente”. 

E le diedi di nuovo ragione, perché aver davanti un simile molosso con le labbra color ciliegia e i capelli alla Julius Irving mi faceva sentire un microbo. 

Stava nelle cose. 

Tutti al liceo sapevano che lei era la ragazzina cattiva che a scuola non ci andava, perché non aveva voglia di studiare, e si divertiva ad aspettare le ragazzine alla fermata del bus del liceo, quelle che aspettavano il pullman per tornar a casa, per menarle e poi rubar i soldi della paghetta. 

Io, per quello, andavo a scuola il più possibile in bicicletta, che sapevo della Marisa ma mi avevan anche raccontato della fama di sua sorella Giuliana, che come cattiveria era peggio di lei, ma che era finita a lavar mutande e sfornar figli a raffica a vent’anni. Tanto che la chiamavano adesso la Coniglia.

Quindi potete capire bene che quando quel giorno mi son trovata la Marisa di fronte alla fermata del bus ho maledetto il sole, arrivato ad illuminare la fermata dopo una mattinata di pioggia che mi aveva costretto a lasciar la bici in garage. 

E già mi immaginavo il secondo schiaffone, se non aprivo il portafogli. 

Quel giorno avevo in tutto quattromila lire, che mille li avevo spesi per l’aranciata a scuola e così mentre guardavo la Marisa urlare che lei i pompini li faceva così bene che nessuno le diceva di no e che io ero una brufolosa cozza di periferia che mai avrebbe potuto esser donna come lei, e le guardavo i denti storti muoversi dentro la bocca color ciliegia, una tonalità così fastidiosa, mi immaginavo di finire schiacciata a terra, urlante nell’implorare pietà perché non avevo cinquemila lire da farmi rubare, ma solo quattro, e vedevo l’enorme deretano della Marisa schiacciarmi la faccia, mentre ero a terra, dolorante per le botte, e quelle natiche ostruirmi il naso fino a soffocare…

In lontananza vidi arrivare l’autobus, che mi sembrò la diligenza della speranza, e mi dissi che dovevo salirci anche strisciando carponi, sgusciando da sotto le natiche enormi della Marisa che mi stavano schiacciando la faccia e mi misi sul bordo del marciapiede davanti ad una enorme pozzanghera, che quella mattina, come vi ho detto, aveva piovuto forte, e l’autobus arrivava e la Marisa mi urlava nelle orecchie che non ero nessuno, che ero una cozza, che mi dovevo vergognare per i brufoli e intanto il bus avanzava, arancione e con lo sbuffo del diesel dal posteriore, e quando la corriera si fermò alla fermata, la Marisa, arrabbiata come un ossesso, si lanciò in strada per impedirmi il passo verso la salita dalla porta posteriore. 

Ma saltò così tanto che finì con entrambi i piedi dentro la pozzanghera e scoprii cosa era l’acquaplaning: ovvero il galleggiamento di un solido su uno strato liquido. La Marisa nell’impatto perse il passo e la sua enorme scarpa da ginnastica destra scivolò verso l’alto, portandosi dietro il resto. Vidi la bocca color ciliegia modificarsi in una smorfia e l’angolo sinistro del labbro sollevarsi e sentii perfettamente quel ”Orca madonna” uscirle dalla lingua e lanciarsi in aria e poi sentii il tonfo. E in quel momento, preciso, mi dissi che dovevo saltare sul predellino e andare. E saltai. 

E così mentre la Marisa cadeva di culo nella pozzanghera, io, nello stesso momento, saltavo sul bus della mia salvezza.  

 

 

Il custode

Posso scalciare quanto voglio, puntare i piedi, tener il muso al mondo, guardar gli altri con un occhio incazzoso. Non ci sei. 

Non posso schioccare le dita e vederti bussar alla porta con quel mazzo di margherite o girasoli che ti piaceva tanto regalarmi.

Perché non ci sei. 

E manco è colpa tua, con te non mi posso incazzare, se non ci sei. 

Quanta incredibile semplicità c’è in queste tre parole. Se penso a quanto è pesante la tua assenza sulle mie spalle, mi stupisco che tutto si spieghi con quelle otto lettere. E’ tutto lì. 

In otto lettere, l’assoluta negazione della tua presenza nella mia vita. 

Me ne rendo conto, sai, su questa autostrada, in procinto di andarmene. Ma io ritorno, tu no. Non ti è consentito, a me la scelta invece di decidere se ripercorrere questo asfalto grigio all’indietro e tornare a casa. 

So perfettamente riconoscere il punto dove per te si è fermato tutto, ma preferisco uscire al casello prima, per non vedere. Non posso farcela, e non mi consola sapere che io ci sono.   

Ho rivisto tua madre, ieri, erano anni che non ci vedevamo. Ho visto i suoi occhi stupirsi nell’incrociare il mio sguardo sul marciapiede vicino alla piazza. Si è fermata, mi ha salutato e abbracciato, poi mi ha accarezzato. Mi ha detto: sembri ancora una bambina. Non l’aveva mai fatto, lo sai, l’accarezzarmi.  

E io ho sentito un solo bisogno: andarmene.

Aveva gli occhi lucidi, era contenta di rivedermi dopo tanti anni. La tristezza che le avevo visto addosso l’ultima volta che ci siamo viste è diventata come la veletta fumée di un invisibile cappello.

Ho trovato una scusa, la prima e più banale ,e me ne sono andata. 

Vedendola, mi è tornato nitido il ricordo di quel che abbiamo fatto. Quel che lei mai saprà. Era giusto farlo, non mi pento. 

Si doveva fare, solo che poi si vive da ignobili. E noi, le tue custodi, alla fine ci siamo perse e non ci vediamo più. Sta nelle cose. E’ il peso da portare, ne sono certa.

Quando tutto è successo, abbiamo agito da bestie ferite, avevamo la pancia squarciata dalla tua assenza, volevamo solo proteggerti perché tu non potevi più difenderti da solo. Ci interessava solo custodirti.

Abbiamo finito con il cancellarti. 

Ci siamo chiuse in camera tua, dove con te  cantavamo, si parlava d’amore e di sesso, si sognava di girare il mondo e si giocava all’impossibile. 

Sapevamo dove mettere le mani, sapevamo cosa cercare. E il dolore si è fatto urgenza: muoviti, nascondi, togli questo, togli quest’altro. O dio, le foto…via le foto, via le lettere, via tutto. 

Poi, a casa vomitai tutta la notte. Mamma pensava fosse il dolore di averti perso, io sapevo che era anche la vergogna di aver contribuito a cancellarti a far reagire così il mio apparato digerente. Che da allora mi ha punito. 

E così quando ieri ho rivisto tua madre, io mi sono risentita colpevole.  Mi è tornato il mal di pancia e sono salita in macchina. Via, a guidare, non pensare, anestetizzare.

 Tu non potevi più difenderti da solo, dovevamo farlo noi per te.

 

Che scusa del cazzo che è oggi questa, noi dovevamo custodirti ma non cancellarti. Eravamo ragazzine, avevamo paura di quello che sarebbe successo. Temevamo non sarebbero mai venuti a baciare la tua foto sulla lapide, se avessero saputo.

Il risultato è che loro vengono a baciarti tutte le settimane, io arrivo ogni anno a San Valentino davanti al cancello del cimitero e mi vergogno di entrare. 

Porto il peso, cerco di non pensarci ma poi basta un piccolo gesto e ritorno con la mente nella tua camera, seduta sul tappeto davanti ai tuoi album fotografici. Davanti ai tuoi amori.

 Ritorno al punto di partenza, a quando ho contribuito a farti sparire, per proteggere la tua reputazione. Ti avrebbero amato di meno, sapendo?

 Me lo sono chiesta incrociando gli occhi di tua madre, quelli che da allora ho evitato.

Una risposta, ancora non ce l’ho. 

Viviamo tempi difficili, mi sa che siamo stati fregati. 

Tu hai cominciato a dare un senso al tuo bisogno d’amore quando l’Aids era una bestia feroce e sconosciuta. Le lacrime che abbiamo versato in silenzio, al cinema, guardando “Philadelphia”…I baci che poi abbiamo deciso di non negarci mai per batter la paura tutti assieme…Ricordi? Io sì.

Il mondo lo volevamo semplice, rispettoso, permeato di intelligenza. Invece sono tornati i pestaggi, gli schiaffi , le battutacce, i sorrisi di fastidio se sanno che ami in modo diverso dal consentito. 

Ma tu non ci sei e ora te ne puoi bellamente fottere. 

Io, invece, continuo a custodire il tuo segreto e a maledirmi per questo.

 

 

L'uomo che ride

Quando l’ha fatto sono rimasta lì, sotto di lui, stupita. Ho inarcato la schiena per alzar la testa e sentire meglio. Non sbagliavo, avevo sentito bene. Era una risata. 

Mica ho capito subito. Rideva di me? 

Dentro la testa, in quella frazione di secondo che ci mette il cervello a distinguere tra il positivo e il negativo, ammetto che mi è passato davanti, l’ho visto nettamente e quindi posso descriverlo,  un ragazzo abbronzato con gli addominali scolpiti. Indossava solo un paio di  boxer rossi lunghi e teneva alto con le mani un cartello, come i segnapunti delle gare di boxe. Ma lì di solito son donne, è vero…

Sul cartello c’era scritto: “Rivestiti più in fretta che puoi”.

Per una frazione di secondo, avevo pensato ridesse di me.

Poi ho capito. E non mi sono rivestita. 

Sono rimasta a fissarlo mentre rideva,  e mi sembrava di aver trovato l’isola perfetta. Ero come il bambino che passa davanti alla gelateria, si ferma, e appiccica il naso alla vetrina, tenendosi con le mani, per vedere la meraviglia del grande paradiso in terra dei gelati di tutti i colori.

 

No, lui non rideva di me, era solo felice.  

Intimidito dall’aver svelato il suo segreto, subito dopo si è gettato sul cuscino, affondando la testa sulla mia spalla, come a cercar riparo dal mio sguardo e dalla mia faccia sorpresa e divertita. 

Il respiro affannato lentamente rallentava ma  il ritmo in calare era intervallato da piccoli scoppi di risate, sussurrate. Teneva la mano sulla bocca per non farmi sentire.

Non si vergognava, sia chiaro, ma era in preda al giusto imbarazzo che coglie chi svela il suo segreto. Senza manco un termine di preavviso.


Tutti i segreti si portano dietro quel momento di imbarazzo, tanto più se si tratta di corpi e menti che cominciano solo ora a conoscersi. 

E’ giusto così. 

Ci vuole qualcuno con cui condividerlo un segreto, affinché sia tale, e ci vuole quel momento di imbarazzo quando la bocca si apre e parte la voce. 

Se tieni i segreti per te sono solamente dei tuoi ricordi. Sono loro a renderli unici e avvincenti, storie perfette da raccontare.

Se non provi imbarazzo nel raccontarli, rischi di considerare ogni ricordo uguale all’altro, senza valore.

E il segreto più custodito, tra tutti,  è il mostrarsi per quello che si è davvero, quando si smette di parlare e si lascia che siano i corpi a dirsi tutto. 

Non so se lui sia rimasto stupito quanto me, nell’intuire il piccolo mistero, che è anche dentro di me e che io faccio finta non ci sia.

Non lo so, non ho chiesto. Per pudore. 

Io so che mi sono persa in quella risata che esplode e trasforma i suoi occhi grigi in una burrasca di sussulti. 

Un uomo che ride, per dimostrare quanto si sente bene, ora, qui e con me, è uno che ha capito tutto. 

E non gli devo dire niente. Lo devo lasciar vivere come vuole, sperando che la risata torni ad esplodere.

La prossima volta. 

 

Ho visto due amanti ridere

Li ho visti correre in direzione del portico, per non bagnarsi. Li ho visti, sotto la pioggia, ridere del riparo improvvisato. Li ho visti, abbracciati, sotto un cielo brontolone.

E poi ho visto lui, il bacio. Piccolo. Un bacio bambino con le labbra strette e il sorriso largo. L’ho visto, credimi, ingrandirsi, diventar adulto come se le lingue producessero ossigeno per la crescita.

E poi ho visto che parlava. E lo sguardo di lei diventar sorriso e la sua mano tirar lui verso la strada, sotto la pioggia. Li ho visti bagnati, stringersi con forza come se l’ossigeno fosse una droga, come se l’acqua fosse un regalo, come se la frescura fosse l’unica gioia sotto questo cielo che brontola.

Ho visto due amanti ridere.

Racconti a quattro mani

 

Ci sono anche io

http://remobassini.wordpress.com/2009/08/23/raccontia4mani-2009-lebook/