Eravamo amici, io e il marziano.
La prima volta che vide il mare, mi chiamò al cellulare. Ricordo che era pomeriggio, e la sua vocina urlava dentro al telefono.
“L’ho visto, l’ho visto. Sono entrato dentro, con i jeans e la maglia!”
Gigio quel giorno era davvero felice. Quando chiuse la comunicazione, dopo avermi urlato per trenta minuti nell’orecchio la sua gioia e i giochi di spiaggia e le onde, io piansi. Di felicità. Chi era con me non ci capì nulla, ma poco importa.
Gigio aveva visto il mare, per la prima volta, a sessant’anni.
In realtà era come se ne avesse diciotto di anni, era come un ragazzino alla scoperta del mondo. Il mare, la pizzeria, la discoteca, le gite in montagna. Un diciottenne che viveva in un posto da vecchi, ospite di una casa di riposo .
Viveva in un corpo da vecchio in mezzo ad anziani non autosufficienti e per loro era diventato un simpatico punto di riferimento. Eccentrico, ma utile, e soprattutto allegro. Gigio accudiva il giardino, andava al mercato a far le spese per gli ospiti che non potevano muoversi oppure andava in farmacia a far le commissioni. E soprattutto nel giardino della casa di riposo aveva creato un angolo dove dava ospitalità agli uccellini abbandonati o ai volatili, che d’estate restavano soli per le ferie dei padroni di casa. A Mirano tutti andavano da lui a portargli gli uccellini trovati feriti, ammalati o abbandonati. Ma arrivava anche gente che gli lasciava il canarino per due settimane. Era come una pensione per volatili. Lui, felice, accoglieva tutti i nuovi amici, li accarezzava e li metteva nella grande voliera del giardino della casa di riposo.
A me aveva spiegato perché lo faceva. Era il suo modo di rifarsi da una vita passata in gabbia, controvoglia e soprattutto forzata.
Eravamo diventati amici nella sua precedente vita. Quando Gigio era un barbone che viveva al Macallè, in mezzo alle case diroccate del rione di Mestre a due passi da piazza Barche. Un giorno rischiò di morire: aveva freddo, aveva bruciato dei giornali dentro una casa diroccata e il fuoco aveva arso in fretta le assi marcite mandando in fumo lo stabile. Lui si salvò per miracolo e così il piccolo mondo del Macallè si accorse di lui.
Cominciò a vagare per i negozi, poi arrivò anche al mio ufficio. Non voleva soldi, chiedeva un pacchetto di caffè ed un chilo di zucchero. Ero incuriosita da un accattone che non chiedeva denaro ma solo cose che gli potevano servire per vivere in strada. Saliva le scale e sapevi che era lui: “Marziani!!!!” urlava non appena la porta si apriva, e io ridendo ricambiavo chiamandolo a sua volta, Gigio il marziano.
Un giorno venne a trovarmi, io ero al telefono e lo feci accomodare davanti a me, e finita la telefonata, dopo averlo visto così calmo osservarmi mentre lavoravo, ci provai. Gli chiesi chi cavolo fosse, che vita aveva alle spalle. Credo, non aspettasse altro. Mi raccontò la sua vita di bambino abbandonato dalla madre, spedito in orfanotrofio con un nuovo cognome e dopo qualche anno dichiarato pazzo, perché troppo vivace. Mi mostrò i polsi, piagati dai lacci di costrizione. I denti, scomparsi, mangiati dalle dosi di elettrochoc a cui venne sottoposto negli anni. Aveva girato i manicomi di mezzo Nord Italia. Ogni volta scappava, mi raccontò. Ma non sapeva dove andare, saliva su un treno e lo riprendevano alla fine. Tornava in manicomio, e giù dosi di farmaci e cure psichiatriche. Mi raccontò che in quegli anni aveva finito con l’abituarsi alla fine ad essere pazzo.
Non capiva niente, i farmaci lo rendevano un essere inanimato. L’elettrochoc gli strappava via i pensieri dalla testa e gli lasciava solo, dentro, un atroce dolore.
Pensava di essere pazzo e di morire da matto. Non so se tutti i suoi ricordi fossero reali o offuscati dagli anni di manicomio. So quel che Gigio mi confidò: che ogni giorno ringraziava il suo santo , Franco Basaglia che aveva conosciuto a Trieste, perché quell’uomo era riuscito a far chiudere i manicomi e regalargli la libertà.
Come molti altri, da incapace di intendere e volere, si ritrovò libero di colpo. Ma senza aiuti, riferimenti, amici finì sulla strada, passando da pazzo a barbone. E tornò a Mestre, forse perché quella città era l’unica che conosceva e qui era in fondo nato. Anche se da madre ignota.
La sua seconda fortuna fu rischiare di morire bruciato nella catapecchia del Macallè. Quartiere di lavoratori, gente per bene. Dove di notte si aveva paura a girare perché c’erano gli spacciatori. Ma lì la rete di solidarietà della gente aiutò Gigio, scampato al rogo. C’era chi gli pagava il caffè, chi il panino, chi gli assicurava il pacchetto di caffè e lo zucchero. Altro non chiedeva, andava dai frati a mangiare. Andò avanti così per alcuni anni, finchè non cominciò ad ammalarsi ed allora ci fu chi riuscì a trovargli un posto a Mirano, in casa di riposo. Lui pagava una parte della retta, con la piccola pensione che lo Stato gli passava. Gigio trovò una casa. E tornò a rivivere, si mise a fare tutte le cose che la vita in manicomio gli aveva negato. A sessant’anni vide il mare per la prima volta. Andò in montagna con gli scout e pure anche in discoteca dopo una serata passata in pizzeria. E baciò una donna. Me lo aveva raccontato in una delle sue telefonate. Era un segreto , mi disse. Tra amici. Ogni sua telefonata era una esplosione di felicità: urlava nella cornetta, chiamandomi marziana, e mi raccontava tutto quello che aveva combinato. Potevo essere in bagno, ad un convegno o a letto. Non importava, Gigio doveva raccontare.
Andavo a trovarlo in casa di riposo e mi mostrava gli ultimi amici pennuti arrivati nella grande voliera. Ed ogni volta gli occhi gli brillavano, e le rughe della vecchiaia sparivano. Mi prendeva le mani e cominciavamo a saltellare, come in un grande girotondo di ringraziamento. Come due amici, marziani.
Archivio Mensile: Marzo 2009 - Pagina 3
Gigio, il marziano
Le mie mani su di te
Le mie mani, su di te, le poserei a lungo, con pazienza. Per scoprire gli incavi nascosti, imparare la strada e non dimenticarla, per sentirti sorridere al buio delle mie ricerche e dei trabocchetti sotto pelle che hai preparato per mettermi in difficoltà e incitarmi alla scoperta, senza lampada ad olio ad illuminarmi la via più facile. Le mie mani, su di te, le poserei dolcemente, senza aggredire, scivolando sul velluto del tuo sentire e poi, spossata, mi lascerei percorrere come una strada, per vedere quanto sei bravo a scovarmi un infinito dentro in cui puoi perderti a tuo piacimento, in silenzio. Che alle mie mani non devi dire, né indicare, né suggerire e io alle tue lascerei la libertà di inventare. Devi solo intrecciar le tue dita alle mie e lasciar che la radice si formi, cerchi la via verso la terra, si dilati, pompando la linfa e la lasci scorrere e , in questo fluire, le parole escono senza il bisogno di dirle. E il fiato ci servirebbe solo a respirare e ne uscirebbero comunque inattese tonalità e punteggiature nuove. Potremmo lasciarle scivolare, tra le nostre dita, queste parole nuove; potremmo divertirci a lanciarle in aria tanta è la loro leggerezza e poi potremmo farle cadere, racchiuse una ad una in una goccia, sull’ombelico per giocare a farle correre, come si faceva in spiaggia con le biglie da bambini, formando i percorsi che vogliono lungo il petto e le gambe. Io potrei rincorrere le tue, imparando a starti dietro; tu potresti assaggiare le mie, scaldarle tra le mani fino a fonderle e farci quel che vuoi. Potresti passarmi attraverso e andar oltre, lasciandomi con una scottatura che pulsa ogni volta che mi torni in mente.
La solitudine del titolista

Ma lo sanno i miei dodici collaboratori cosa è un dizionario? O lo hanno regalato alla San Vincenzo, destinato a scaldare i falò di qualche senza tetto? No, magari, il barbone, a differenza dei miei collaboratori, il dizionario finisce che se lo legge, se lo tiene come compagnia per le notti tristi, quando il vino non scalda e la solitudine avanza con la falcata di un esercito invasore.
Io di solitudine me ne intendo, e so che i libri sono meglio di certe amanti volubili. E mi deprime aver a che fare con tutti questi “Branson”, che non sanno ancora scrivere un articolo e che manco rileggono il giorno dopo il loro lavoro pubblicato. Giovani che si sentono giornalisti d’assalto, ma ragionano a moduli. Tot moduli, tot soldi e la regola è scrivere tanto. Per guadagnare. Li capisco, io ai miei tempi prima di esser assunto al giornale ho fatto il precario per cinque anni e i soldi non mi bastavano per pagare la benzina e mangiare e comprarmi una raffica di scarpe viste le suole che ho consumato.
Ma scrivere in un giornale non è solo un bel lavoro. E’ un impegno, un miglioramento quotidiano.
E questo i miei dodici collaboratori, invece, credo non lo sappiano affatto.
Io sono un deskista, una volta si sarebbe detto il titolista. Lavoro in un giornale di provincia da 25 anni. Di fatto, non faccio più il giornalista da sei anni. Anche se i vecchi amici di un tempo, la gente che mi ha conosciuto per i miei articoli sulla malasanità negli ospedali, mi telefona ancora e qualcuno, dice, rimpiange la mia penna avvelenata. Quando esco a passeggiare nel mio giorno di riposo, in paese tutti mi salutano con la reverenza che si usa ancora in campagna a chi ha un ruolo sociale. Ma io oggi sono solo un deskista. E un ruolo sociale manco so cosa sia. Faccio titoli. “Il sindaco tal dei tali apre ai comitati anti-traffico”. “Rapina vecchietta e scappa in scooter”. Alla fine sono una specie di cuciniere del giornale. Passo i pezzi degli altri, li metto a misura, tolgo strafalcioni e refusi, se serve cambio attacchi indecorosi, elimino una tempesta di virgole gettate a caso e poi preparo titoli e sommari, cerco foto.
Lavoro di “cucina”, altro che la caccia della notizia. Ogni tanto quando serve, mi chiedono ancora di scrivere ma finisco con il “passare” comunicati. Veline che vengono ridotte o allungate, a seconda dello spazio. E ogni giorno che passa, tutto questo diventa sempre meno divertente. Non mi innamoro più di niente. Del lavoro come delle belle donne. Tra le collaboratrici del giornale, alcune sono davvero carine. Ma sono giovani, ed io oggi solo solo un attempato deskista. Che ha perso il senso della notizia. E dell’amore.
Leggo cose che mi annoiano, figuriamoci se credo che i lettori faranno la ressa in edicola per leggere quel che scriviamo. Se mandassimo in stampa un giornale senza una parola scritta, pagine bianche che seguono pagine bianche, non farebbe differenza. E non c’è manco più il rito di inserire almeno una bella notizia al giorno. Si va a caccia dello scoop, della storia pruriginosa o sanguinolenta sperando di vendere di più. Il giorno dopo, noi e la concorrenza, scriviamo praticamente le stesse brutte storie, scritte male. Ma io ho un piccolo segreto, che mi aiuta ogni tanto a sorridere.
Un giorno ero solo con quattro pagine da disegnare e assemblare. Alla quarta pagina, un pezzo di una decina di moduli era saltato. Il buco di pagina andava coperto con altro e io non avevo niente da usare come riempitivo. Sono rimasto un’ora a cercare, tra telefonate ai collaboratori e ricerche sulle agenzie e tra le pagine web. Niente, io non vedevo una notizia che valesse la pena pubblicare. E allora, stanco e infastidito, mi è venuta l’idea: ho tirato fuori dal cassetto la raccolta di poesie di Neruda e ne ho ricopiata una. Tanto, mi sono detto, nessuno legge i giornali. La gente si ferma ai titoli, il più delle volte. E quindi nessuno si sarebbe accorto che al posto di un articolo c’era “Perché tu possa ascoltarmi”. Il titolo era completamente diverso, non c’entrava niente con la poesia. “Incontri di ascolto per cittadini”.
Sono andato a casa sorridendo ma poi, durante la notte, mi è venuto il rimorso. Mi sono sentito un impostore, avevo tradito la regola della notizia.
L’ indomani sono arrivato in redazione, preoccupato. Temevo che i capi si sarebbero accorti della sostituzione e che il direttore mi avrebbe convocato nel giro di dieci minuti per una sonora lavata di capo. E se se la prendeva di brutto, rischiavo un richiamo scritto da parte dell’azienda.
Ho passato la giornata come se fossi in attesa di un castigo e invece nessuno mi ha convocato in direzione, nessuno mi ha detto nulla. Neanche una telefonata di protesta da parte di un lettore. La poesia era passata assolutamente inosservata.
Da quel giorno, quando ho un “buco” in una pagina, non sto neanche a preoccuparmi: apro la raccolta di Neruda e pubblico un pezzo di una sua poesia. Intera o parziale, non è importante.
Uso solo le colonne in basso, per non dare nell’occhio. Evito di farlo più di una volta ogni quindici giorni.
Ma questo, lo ammetto, è diventato il mio momento di gioia. E’ un sabotaggio, quasi, ma mi piace così tanto, che la scorsa settimana ho tolto un pezzo su una sagra di paese che era una lista di date di ballo liscio, per inserirci una poesia mia. Poche righe che avevo scritto alcuni anni fa, dedicate ad una donna che ho amato e mai avuto.
Da un ripiego sono passato ad un sabotaggio lessicale premeditato, è vero. Ora vado al lavoro con un piccolo sorriso di soddisfazione. Alla mail del mio settore, che fortunatamente controllo io, arrivano alcune lettere di lettori che dicono di aver letto la poesia, che è loro piaciuta, che vorrebbero una rubrica. E chiedono ogni volta come mai mettiamo dei titoli così istituzionali e spesso per niente legati al messaggio del testo. Io le metto tutte da parte, nel mio archivio personale. E rispondo a tutti, così sono certo che non scriveranno di nuovo, magari al direttore. Spiego che si è trattato di un errore di impaginazione ma che segnalerò alla direzione l’interesse per un piccolo angolo della poesia. Insomma, vedremo cosa si può fare, gentile lettore che non sei disattento. Io ci scriverei anche : grazie di non essere una mosca bianca. Ma poi lascio perdere. Ora, comunque, una volta ogni 15 giorni sorrido alla mia scrivania. Sono un titolista ma ogni tanto, io, al posto di inutili notizie, spaccio poesia.
Carnevale

Le calli di Santa Marta sono chiuse, per quattro giorni a comandare e’ la gente che qui abita e anche la polizia si adegua invitando i taxi a deviare percorso. Il Carnevale scombina i piani di ognuno in un gioco anarchico. Nelle calli di S.Marta si aprono le porte delle case, si tolgono le sbarre e si portano in strada sedie e casse di birra, la radio accesa 24 ore su 24, con la salsa sparata a tutto volume. E si parla e si balla, si beve e si balla, ci si intontisce di aguardiente, si sfiorano ventri e fianchi, si occhieggia su un petto nudo e sudato. Marta all’angolo dell’incrocio allatta suo figlio, tenendolo con un braccio, stretto al suo seno. Con l’altra mano passa tra le auto ferme al semaforo per chiedere qualche pesos. E da un bus turistico spunta una banconota da 20 mila pesos, che le cade davanti sull’asfalto. Lei, pronta, la raccoglie tenendo sempre il figlio attaccato al seno. Per oggi ha finito, si puo’ mangiare.
E’ domenica di Carnevale anche a Taganga, dove inizia la sierra Nevada e dove si nascondono i guerriglieri. Anche qui si attende la sera per alzar la musica a tutto volume, dopo una giornata di gran lavoro per i pescatori. La mattina trasportano con le loro barche i turisti nelle isolette tra le montagne a picco sul mare, gli ultimi lembi di Ande in terra colombiana. Di pomeriggio comincia la battuta di pesca e la raccolta a sera inoltrata viene messa in vendita direttamente sul bagnasciuga che costeggia l’unica strada del paese. Don Juan ha lavorato poco e per i suoi ninos, i ragazzi poveri del paese che lo aiutano ogni giorno, ci sono stavolta pochi spiccioli da dare dopo una giornata intera passata in mare. Ma Franco, capelli biondi e corpo scattante, non si dispiace: e’ il suo compleanno e suo padre e’ venuto apposta a trovarlo dai dintorni di Barranquilla, e gli ha promesso una torta piena di panna, con una ciliegia sopra. A Barranquilla invece si e’ oramai conclusa la gran parata dei figuranti in maschera, tra lanci di farina e grandi sorsi di aguardiente. E Graziela oggi si sente la regina della festa: e’ bellissima, se lo dice da sola, con i fiori di carta tra i capelli e il vestito rosso e giallo. Muove i piedi senza sosta al ritmo della Cumbia e non ha tempo per riposare, si dice. Un giorno sara’ lei la regina del Carnevale. Solo lo sguardo dell’amico Francisco che la osserva, raggiante, da uno dei palchi della festa, e la saluta con occhi pieni di piacere, la spinge a dar pace ai piedi stanchi per concedersi un bacio su una guancia che a lei, quindicenne con la testa piena di sogni, pare grande come un sambodromo. Si festeggia Carnevale anche nelle baracche di lamiera lungo la strada verso l’Atlantico. Bambini e ragazzini vestiti da gorilla, con i volti dipinti di nero, stanno da ore a presidiare la linea di mezzo della strada, incuranti del gran traffico. Ogni auto un lancio di farina e un segnale di stop per ottenere qualche soldo. E’ un gioco di Carnevale pericoloso, l’unica alternativa ai bar con i tetti di eternit dove si impara presto a bere troppo e a fumare colla. La violenza e’ un gesto quotidiano, per evitare che chi e’ più forte di te abbia la meglio. Dietro una porta, donna Flora cuce l’ennesimo paio di pantaloni da accorciare. Attorno a lei i suoi quattro bambini. Loro il Carnevale lo festeggiano in casa, attaccati alle sottane di mamma i due gemelli più piccoli. I più grandi cantano la canzone del “mamoron” e si guardano allo specchio: indossano dei panama, cappelli di paglia bianca con la fascetta nera che donna Flora ha comperato a tutti al mercato, per la festa più attesa dell’anno. Ma i ragazzini in strada non ci devono andare, donna Flora ha paura. E cosi’ si fa festa in casa, con platano fritto , succhi di frutta e tanta musica. Il martedì, il Carnevale muore e con lui se ne vanno anche i sogni piu’ anarchici. E si attendera’ un nuovo anno, una nuova festa per sognare.
Calle de la Estrella
In calle de la Estrella la sentono ogni giorno, dal tramonto, quella musica. Gli ambulanti smettono di urlare per vendere zanahoria, tomate, cocco e maracuja e alzano la testa per ascoltare la melodia che proviene dalle finestre aperte, al secondo piano, del palazzo dove abita Juanina Da Silva, la insegnante di musica. Tutti i giorni, dal tramonto alle nove della sera, la signorina Juanina si siede al pianoforte e comincia a suonare. Passa tutto il giorno ad insegnare scale e solfeggio ai giovani delle famiglie bene di Cartagena, e al calar della sera chiude il portone di casa, congeda la governante, e si ritira nella stanza da musica. Apre le grandi finestre che danno su calle de la Estrella, si siede davanti al pianoforte, si sfiora le mani, allenta il colletto della camicetta e scioglie i lunghi capelli castani. Poi comincia a suonare. Davanti a lei non ci sono spartiti, la musica le esce dalla testa e dal cuore. Loro comandano i movimenti delle dita sui tasti bianchi e neri. E in calle de la Estrella tutto si ferma. Tacciono i venditori ambulanti, fanno silenzio anche gli studenti della vicina scuola di odontoiatria che smettono il cicaleccio divertito da adolescenti in libera uscita. Anche i turisti, sentendo la musica, alzano il naso sudato verso le finestre del palazzo e ascoltano la struggente e solitaria melodia. Che ogni giorno e’ diversa, come ogni tramonto mai e’ identico a quello che lo ha preceduto. Il concerto di Juanina inizia quando il sole scende a baciare il mare e scompare dietro le mura della citta’ vecchia. Il canto del suo pianoforte parla d’amore, le note scendono in strada lievi o decise, irruenti o quasi timide. E calle de la Estrella ogni sera si ferma ad ascoltare la melodia che esce dal cuore di Juanina Da Silva. La seria insegnante di musica di Cartagena libera cosi’ il suo desiderio che nasconde dalla mattina fino al tramonto. E lo libera solo quando il sole bacia il mare; e’ il desiderio ad ordinarle di suonare, per raccontare una storia. La sua passione per Alvaro Hernandez, il libraio di calle de la Estrella. La libreria di Alvaro stava davanti al palazzo della Da Silva. Un giorno il libraio aveva attraversato la strada e bussato al portone del palazzo, con una richiesta. “Voglio avere l’orecchio assoluto. L’ho letto su un libro; lei, maestra, mi insegni ad averlo”, fu la richiesta del libraio. Juanina guardo’ stupita quel quarantenne, con gli occhiali e i capelli lunghi, il fisico asciutto e gli spiego’ che l’orecchio assoluto era una dote, un dono e che non si poteva imparare. O ce l’avevi o no. Ma l’insegnante poteva comunque aiutare Alvaro Hernandez a studiare per imparare a conoscere la musica. Ci voleva costanza e dedizione. Alvaro accetto’ subito ma quando senti’ il prezzo per le lezioni che gli veniva richiesto, penso’ di rinunciare: non poteva permettersi quel costo, aveva ancora un anno di affitto della libreria da pagare e gli affari non decollavano. L’insegnante gli sorrise e offri’ in fretta la soluzione: ogni tre lezioni, una sarebbe stata pagata in libri. Come Alvaro aveva sete di musica, Juanina aveva sete di libri. E cosi’ trovare un accordo tra loro fu facile. Tre volte la settimana, Alvaro al tramonto chiudeva bottega, attraversava la strada e andava a studiare musica fino alle nove della sera dalla signorina Juanina. Lo studio presto fu seguito da un fitto dialogo, che durava ore. Lei raccontava le vite dei compositori, lui le storie dei grandi classici della letteratura, da Madame Bovary alle lezioni americane di Calvino, e le portava libri. Un mese dopo, Alvaro entro’ nella sala da musica con un pacchetto: dentro c’era un libro di poesie con una dedica: “Musica per il tuo cuore, composta dal mio cervello”. Dopo la lezione, consegno’ il libro a Juanina e accompagno’ il gesto con una carezza sul viso stupito di lei, emozionata per l’inatteso regalo. L’insegnante sorrise e Alvaro si senti’ autorizzato ad andar oltre, appoggiando le labbra su quelle di lei e stringendola a se’ in un abbraccio dolce e potente. Juanina si senti’ persa nel mare in tempesta: sentiva solo un sapore di miele caldo scenderle dalla bocca alla gola e poi, giu’ fino al ventre. Non poteva smettere e prolungo’ quel bacio. Si sentiva libera: sciolse i capelli, togliendo con un colpo della mano il fermaglio e trattenne a se’ Alvaro che le sfiorava il seno. Cercava costantemente le sue labbra al sapor del miele bollente. Si amarono tutta la notte, sul pavimento della sala da musica. Lei avida di calore, lui gioioso di veder godere una donna in quel modo tra le sue braccia. L’alba li accolse felici e spossati, nel sonno. Alvaro si rivesti’ in fretta, per lui era tardi. Lascio’ Juanina stesa sul pavimento, i capelli arruffati e il volto gioioso di quarantenne senza rughe e dal ventre rotondo. Fu la prima e ultima notte che si amarono. Juanina sapeva che Alvaro era sposato ma lei non voleva allontanarlo dalla sua famiglia. Lo desiderava, lo voleva ieri come oggi e pure domani, e questo le bastava. Ma lui, davanti a tanta passione, si senti’ perso, anche lui nel mare in tempesta, ma come un annegato. Divento’ sfuggente, e non volle più rivederla. Colpa di Juanina e del suo eccessivo ardore, le spiego’. E Juanina combatte’ invano, spedi’ lettere senza risposta, cerco’ di incontrarlo. Poi scelse il silenzio. Smise di cercarlo. Continuava a vivere come aveva vissuto: le lezioni dalle otto al tramonto, poi dopo cena usciva con Edoardo, il dottore che la corteggiava da anni. Ma dal tramonto alle nove della sera si chiudeva nella sala da musica e lasciava suonare il suo cuore. Di notte Juanina sognava di far l’amore con Alvaro e ogni loro gesto diventava una nota impressa su un ideale spartito, senza il bisogno di carta e matita. Al tramonto quella composizione onirica diventava la melodia che si diffondeva in calle de la Estrella, con la complicita’ del vento. La musica arrivava diritta fino alla porta della libreria di Alvaro. Il libraio aveva proibito contatti e lettere, ma non poteva impedire a Juanina di suonare e la melodia del desiderio di lei ogni sera andava a trovarlo. Juanina aveva cercato di dimenticare, si dava ad Edoardo ma nella foga dell’amplesso era sempre Alvaro a far capolino nel suo letto, sottraendola all’abbraccio senza miele e passione dell’uomo che la desiderava da anni. E godeva ricordando la bocca, i capelli, i colpi del bacino del libraio. Una musica corporale e umorale l’aveva imprigionata e quella melodia le usciva da dentro al calar del sole. L’ultimo canto di una voce muta e inascoltata. Lei continua a suonare; Alvaro, invece, ha venduto la libreria. Pur di non sentire il pianoforte di Juanina aveva comperato dei tappi per le orecchie. Non voleva sentire, per non tornare a volere quella donna che non poteva avere, senza distruggere la sua pacifica esistenza di padre e marito. Il desiderio lo puoi seppellire ma non scompare e la musica di Juanina aveva finito per penetrargli nelle ossa. La sentiva ovunque, tutto il giorno, e comincio’ a girare con i tappi nelle orecchie mattina e sera anche quando l’ex amante non stava suonando, e la calle era muta. Fini’ che lo considerarono pazzo: la moglie vendette la libreria e gli affido’ un pezzo di terra nella villa di campagna dei genitori, a Santa Marta. E Alvaro spari’ cosi’ da Cartagena, ma, dicono, senta ancora la musica di Juanina in testa. Lei invece ogni giorno al tramonto, lascia cantare il suo desiderio. E cerca invano in altri uomini quel sapore di miele bollente.
Hello world!
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