Racconti a quattro mani

 

Ci sono anche io

http://remobassini.wordpress.com/2009/08/23/raccontia4mani-2009-lebook/

Il ladro di pelle

“Ciao, mi manchi, sai? Ah senti, scusa: potresti ridarmi la mia pelle? “

“Tutututututututututututututu”.

 

Ma no, ostia! Non si può iniziare una telefonata così, dai. 

Non sarei compresa, mi prenderebbe per pazza. Direbbe che sono strana, assai. 

Cosa devo dimostrare? Io? Io, niente. 

Che son quella alternativa, quella che non sa dire mi manchi e basta?

Ma dai, siamo seri, Annalisa, perdio!

Rimetto giù il telefono, ecco.

 

Ci provo a variare pensiero, ho una pila di bollette sulla tavola da andar a pagare. Ma è più forte di me. Mi manca lui, e mi manca la mia pelle.

 Da quando è partito, io mi sento sempre vestita, anche quando mi spoglio e vado a dormire. E’ questo che mi da fastidio. 

Non mi disturba il fatto che sia andato via. Mica mi ha tirato un ceffone ed ha sbattuto la porta. Non si possiede nessuno, a volte manco sé stessi, figuriamoci se si riesce a possedere un altro. 

No, non è questo il punto. 

Vivo perennemente vestita, da quando lui se ne è andato. Non riesco più a sentirmi nuda.

E mi manca la sua pelle… e mi manca di più la mia.  

La sua è bianca, morbida, direi setosa. Elastica e profumata, quasi da bambolotto. Annalisa?..Macché bambolotto, per piacere!

E’ un uomo, scandisci con me le lettere: U-O-M-O…


Bella pelle, la sua, che mi ci farei un cappotto. 

Sì mi servirebbe proprio, un cappotto così, per riuscire a spogliarmi e risentirmi nuda. 

Invece, anche adesso che sono qui davanti a questo telefono, in mutande e reggiseno, in questo luglio africano, beh, io è come se fossi con il vestito che mi aveva regalato nonna, quello con la gonna stretta e la camicetta con le balze. Ho pure addosso le calze di nylon e le scarpe strette. Insomma, mi sento in un corpo non mio. 

Strano, perché so che queste gambe, queste braccia, questo ventre sono i miei. Ne conosco ogni centimetro, li studio ogni giorno, combatto per loro la mia quotidiana battaglia contro il tempo. Ma ora, lei, la mia pelle, non c’è. E io mi arrabbio. 

Mica era un banale epitelio inerte. No, lei reagiva prima del mio cervello.

Mi ha sempre detto cosa era bene e cosa fosse il male. Le bastava un tocco per capire come sarebbe andata a finire. Tocco sbagliato, meglio lasciar perdere. Tocco giusto? Parliamone. E’ sempre stata mia amica la pelle, ci siamo volute bene.

E adesso che non reagisce, io sono in preda al nervoso. Non sento la differenza tra me e un coniglio scuoiato da marinare.

 

Lui deve aiutarmi a tornar normale. Perché lui c’entra, ne sono sempre più convinta: siamo andati a passeggiare, mi sfiorava le mani e io, ricordo bene, ho cominciato a sentirmi mezza nuda. Siamo andati al ristorante e io mi specchiavo nei suoi occhi ed ero nuda, coi capelli sciolti, ma tenevo le scarpe, sì. 

Poi ho sentito il suo peso addosso, e son rimasta nell’unico modo in cui potevo stare. E la mia pelle ha cominciato a comandar lei. Macché epiteli, noi due avevamo i pori comunicanti. E abbiamo parlato con quelli, senza manco quella timidezza dell’inizio che c’è tra i corpi non noti.

Poi lui se ne è andato, mi ha lasciato anche un curioso biglietto.

Cosa c’era scritto? Ah, eccolo qui: “E’ mia”.

Io avevo pensato ad una cosa, ma adesso che son rimasta senza pelle, mi sa che avevo proprio capito male. 


Questione di igiene

Eccola, l’alba. Maliziosa la luce filtra dalla porta del terrazzo e Silvia si gira a sinistra e allunga la mano. Poi apre l’occhio. Non c’è nessuno accanto a lei. C’è solo il calore del lenzuolo a ricordare che quella metà di letto non era vuota. Quanto è passato? Un’ora o due? Dal calore, si dice Silvia, non deve esser più di un’ora che se ne è andato. 

Scosta la mano e si alza, sbuffando. 

Va in bagno, si siede sul water e si prende la testa tra le mani. E comincia a sentirlo, l’odore, che sale diritto dal ventre e dalla schiena e le cammina attraverso il naso fin dentro il cervello.

E’ acre, pungente. Odore di uomo. 

Silvia sorride, si porta il braccio al naso, per sentire meglio. La sua pelle si è impregnata di quell’odore. E Silvia se lo sente addosso bene, profuma di uomo. 

Si annusa lentamente, senza esagerare. Queste son sensazioni da centellinare _ si dice _ e rallenta. Poi si alza, diretta verso la cucina per preparare il caffè. Istintivamente apre il rubinetto della vasca da bagno. E mentre la moka è sul fuoco, torna a guardare l’acqua che velocemente riempie la vasca. 

Il bagno mattutino con l’acqua fresca è la sua sveglia. Prima di infilare il piede nella vasca, è tutta arruffata, assonnata, con la bavetta del sonno bimbo che si è seccata all’angolo destro della bocca. 

Solo dopo quel tuffo, tutte le mattine, rimette in moto le meningi indolenzite dal sonno. 

 

Stavolta il passo non lo fa, Silvia,  per entrare nella vasca. 

Resta a guardar l’acqua e pensa:  lavandomi, l’odore andrà via. E dovrò aspettare il suo ritorno per riaverlo addosso. Ma tornerà? Quando? Mica l’ha detto. 

E allora corre in cucina: sulla porta del frigo non c’è alcun biglietto, stessa cosa sulla porta d’ingresso. Messaggi, zero. Non pervenuti. 

Tornerà? Ma quando?

Io, senza il suo odore addosso, non resto, si dice Silvia. Delle due l’una, cancellare o centellinare, trattenendo. Mica posso strizzarmi la pelle come un asciugamano bagnato ed estrarre il nettare per depositarlo in una bottiglietta. Mica posso chiamarlo e chiedergli di tornare per lasciare un campione di sé. Mi prenderebbe per folle e avrebbe pure ragione. 

E allora Silvia decide da sola: niente bagno mattutino, l’odore che porta addosso, va preservato. Si infila l’accappatoio, come a voler proteggersi, si dirige al lavandino. Con gesti veloci, si sciacqua la faccia. Almeno quella. Poi un passaggio veloce con la spugna sotto le ascelle. E basta. 

La schiena, il collo, la pancia, vanno salvati dall’azione detergente. Silvia si guarda allo specchio e si sente come una bimba sorpresa a mangiar la Nutella di nascosto, con il dito ancora sporco di cioccolata. Arrossisce al pensiero che le dice che per oggi  l’igiene può passare in secondo piano.

Lei ha solo voglia che quel profumo le resti addosso il più possibile. Vuole odorare di uomo, di lui. 

E c’è solo un modo: non lavarsi nei punti dove lui ha sostato a lungo, divertendosi e divertendola, impregnandole la pelle. 

Silvia annuisce a se stessa, ride e arrossisce. Se sapessero in ufficio, le colleghe la prenderebbero per matta. E per una poco attenta all’igiene.

Una persona non pulita equivale ad una persona da temere. E’ una persona che non si vuole bene. Ma qui non si tratta di affetto per sé _ pensa Silvia _ qui si tratta di preservare una perfezione. E’ una situazione di emergenza.

Lo avesse addosso tutti i giorni, quell’odore, si abituerebbe al fatto di cancellarlo al mattino, in cambio della certezza di ritrovarlo la sera. Ma così non è. E quell’odore è troppo forte, la inebria, la riporta diritta sotto di lui. Non ha voglia di dimenticare, Silvia. Meglio una giornata senza igiene personale _ si dice _ che veder svanire sotto l’acqua la scia chimica di una notte d’amore.

E non sentirsi più la pelle d’uomo.  

 

Il pigiama

“Tu sei una roccia; se non ci fossi, io sarei persa”. Martina mi sorrise e appoggiò la testa sulle mie gambe. Aveva gli occhi gonfi dopo una notte passata a piangermi sulla spalla. Io ero lì, incurante della camicetta bianca che si stava macchiando

di rimmel. Erano gli occhi della mia migliore amica a mollare quella bava nera.

Mi aveva chiamato alla dieci di sera. E mi aveva chiesto di andar da lei. Subito.

“Ci siamo lasciati, vieni per favore. Sto malissimo”. Io ero a letto ma mi infilai di corsa la camicia e i jeans, e corsi da lei, in macchina.

Lungo il tragitto mandai un sms a Pietro. “Che cazzo avete combinato?”.

Ma Pietro non rispose.


Quando Martina mi aprì la porta, capii subito che se la passava male. Niente vestaglia nera, la roba sessuosa, come la chiamavo io. No, indossava il vecchio pigiama felpato rosa, quello che la faceva sembrare un Teletubbies rosato e gonfio. Quello che indossava prima di conoscere Pietro, quando abitavamo assieme.

Odiavo i Teletubbies, odiavo quel pigiama, ma non glielo avevo mai detto. Anche perché glielo avevo regalato io.

“Eccoti, finalmente. Gli ho urlato che non ne potevo più, capisci? Di lui, dei suoi silenzi, del modo in cui mangia, della sua passione per quei cavolo di Lp. E lui se ne è andato senza dire una parola”. Martina si gettò addosso a me , mi aveva scelto come scoglio.

E io rimasi ferma ad accarezzarle i capelli mentre lei mi annegava la camicetta con un pianto continuo. La camicetta che indossavo quella sera me l’aveva regalata proprio Pietro un anno fa ma la portavo solo da pochi mesi.

L’aveva infilata in un sacchetto arancione da cui spuntava un enorme girasole. Quando la provai, notai subito che era stretta. Glielo dissi e lui rispose che aveva trovato solo quella taglia. Era fatto così Pietro. Non diceva mai le cose direttamente, ma lo faceva coi regali. Voleva invitarmi a prendermi cura di nuovo di me.

Il messaggio era arrivato.


A cosa pensavo quella volta che avevo comperato quell’orrendo pigiama da bambina gonfia a Martina? Mi ritrovai a pensarci, mentre lei mi raccontava dell’ultima ora passata con Pietro, dei silenzi, di quel non-ne-posso-

più e della faccia di lui, che la fissava con odio, usò proprio quella parola, e del passo deciso di lui verso la porta.

“Tornerà _ le dissi _ ha lasciato qui tutto, anche le racchette da tennis”.

Martina riesplose a piangere, prendendo nervosamente la scatola dei fazzoletti che avevo lasciato sul tavolino davanti a lei. Mi spiegò che andava male da tempo, che era infelice. Voleva la vita di tutti, disse: una bella casa e la macchina nuova, grande, per i figli che sarebbero arrivati. Pietro invece spendeva solo per la sua collezione di Lp. 

“Tornerà e gli parlerai e gli dirai che lo ami e che vuoi stare con lui _ continuai _ Risolverete. Adesso lui è troppo arrabbiato e tu sei troppo disperata. E’ meglio se state lontani, almeno per una notte”.

“Tornerà, sì”, ripeté lei, accoccolandosi con la testa sulle mie ginocchia, senza più lacrime. “Tu sei una roccia, senza di te sarei persa”, mi disse e si mise a dormire.


Ci aveva creduto. E io mi sentii una merda.

 

Sì, tornerà. Solo per prendere le racchette da tennis, i vestiti, i suoi libri, la collezione degli Lp dei Pink Floyd. E quando se ne andrà,  di nuovo, capirai, cara, che ti ha lasciato sola con la sua assenza.

Porco cane, non si può far finta di niente e tornare a dormire assieme dopo che hai sentito nettamente quelle parole.

Non-ne-posso-più.

Come si fa a guardarsi in faccia dopo che hai detto: mi dai fastidio.

Non è come il solletico della piuma sulla pelle. Non c’è un cazzo da ridere. Davanti non hai più chi ami ma un estraneo, con un odore della pelle che non riconosci.

Non-ne-posso-più. 

Fa male dirlo, fa peggio sentirselo dire.

Che fai? Replichi? Non puoi. Non è che resti senza parole, ma in bocca ti ritrovi con un bolo amaro che devi correre a sputare altrove , il più possibile lontano da chi ti stringeva forte quando avevi la febbre a quaranta e stavi male; da chi guardavi tutte le mattine dormirti addosso.

Martina mica lo sai cosa vuol dire, tu, sentirselo dire. L’hai detto, ti sei liberata. Lo ha sentito, è condannato.

 

Tu vuoi la favola, Martina. A me basta fermar l’incubo.

 Forse le avevo regalato quell’orribile pigiama per trasformarla da bella principessa perfetta in goffa Teletubbies? Ho l’inconscio davvero stronzo, io.

Che stupidaggine, poi, la storia della roccia.  Solo da qualche mese riesco ad alzarmi dal letto, lavar la faccia, vestirmi e piacermi un pochino davanti allo specchio. Ma in bocca ho sempre un retrogusto amaro, e temo si senta. Quel bolo mica l’ho sputato, io. L’ho inghiottito.  

Non-ne-posso-più: si va oltre il vaffanculo, si esige la sparizione. 

E io non c’ero più. Perché non te l’ho detto, Martina? Per non preoccuparti.

 

Guardai il cellulare, lampeggiava. Era arrivato un messaggio.

“Sto vomitando, ci sentiamo”. Era Pietro.

Tutti i baci del mondo

Non volevo ritrovarmi qui, in questo letto che è un  sarcofago grigio di cotone ruvido, sporcato dalla linfa maleodorante che il mio corpo secerne. 

Decubito ergo sum, non cogito, non digito, non coito. Piaghe, puzza, dolore. 

Mai avrei pensato che l’esser immobili e insensibili facesse così male. Fuori non sento niente, non muovo niente. Dentro, c’è un mare di male che mi scorre dentro le vene e se ne esce dalle piaghe del mio corpo marcescente e inattivo. 

Sento e vedo, ma non muovo. Non muovo le gambe, non muovo le braccia, solo le palpebre sono ancora libere e le pupille roteano e le labbra si muovono cercando di emetter suoni che sono oggi, li sento io, solo tentativi di dialogo. Non una comunicazione reale, ma una emissione stentata, impacciata, come avessi un larsen in gola. 

E io che ho sempre pensato di morire baciando e urlando, adesso ho davvero paura. 

La mia voce si sta modificando in un urlo bestiale e incomprensibile e temo di morire. Domani. Da solo. 

Non ho avuto mai così tanta paura come oggi, che la mia voce se ne sta andando. E con la voce, ho paura, si fermeranno le labbra e la lingua e non potrò più parlare e baciare. Allora sì che sarò un morto con gli occhi aperti.

Sono mesi che temo questo momento. Ogni mattina, prima che arrivi l’infermiera a lavarmi, girandomi a destra e a sinistra come se fossi un baco da seta, senza gambe e braccia, ma pieno di merda putrescente che mi esce dai buchi nuovi che il mio corpo ha formato, io canto. 

Lo faccio solo per sentire la mia voce e muoverle queste labbra, per spostar la lingua. Esercizi contro l’ultima paralisi di un corpo che oramai non risponde più. Il mio.

Poi, pulito, aspetto che arrivi mia moglie, e quando lei entra dalla porta, io con gli occhi e questa voce cerco di farle capire che voglio solo una cosa: un  bacio, lungo, lento, con le lingue che son velluto che si intreccia. Che diventa canto silenzioso. Senza effetto larsen.

 

La-la-laaaaa-la-la-la.

Baciami, amore mio, anche se senti la mia bocca che sa di medicina e cloroformio. Che solo se mi baci, io, qui, in questo letto-prigione, mi sento ancora vivo. 

Ma tu, amore mio, ti scosti in fretta. Sarà l’odore, sarà che hai paura di farmi soffocare, sarà che temi un rigurgito, ma ti togli subito. 

Appoggi solo le tue labbra alle mie, di fretta. Sono fredde. Poi ti vai a sedere a fianco del mio letto e mi guardi, con quegli occhi tristi di chi sa che non riavrà mai un marito e manco più lo riconosce. Vedi solo un baco in decomposizione. 

 

La-la-laaaaa-la-la-la.

Se potessi, amore mio, ti regalerei tutti i baci del mondo e tutte le melodie e le parole inventate e usate e lasciate in giro. I baci rubati e quelli regalati, le lingue vellutate e quelle golose, le canzoni dimenticate e quelle che son finite in cima alla hit parade per un giorno o un secolo. Non fa differenza, perché le canzoni e le parole sono come i baci. Danno ritmo all’esistenza, eliminano i suoni fastidiosi e li riempiono di senso o dissenso. Non importa se è melodia o una steccata. Non faccio più differenza oggi tra un vaffanculo o un ti amo. Riuscire a pronunciarli, è già tanto per me e in questo stato pure la bestemmia diventa un dono prezioso. Così è per i baci, tutti quelli che ho dato. 

 

Ne ricordo tanti. Alla bambina dai capelli castani, con le trecce, all’asilo davanti alla fontana. Alla compagna delle elementari, Emma – sì, si chiamava così – che mi regalava sempre metà della sua girella. 

Alla Edy, quella spilungona del ginnasio, tutta gambe e pallavolo. 

E poi a Sandra, arruffata e mal vestita, che avevo conosciuto alla manifestazione pro Palestina e che mi aveva prestato la kefia per proteggermi dai lacrimogeni. 

A Linda, la prima che mi fece baciare altre labbra, e che non mi volle lasciar solo la notte prima degli esami. 

E poi tante anonime bocche che manco ricordo più, in giro per l’Europa quando partii con Edoardo e il biglietto del Inter-rail per la prima vera vacanza da uomini. 

E Paola, che mi baciò solo quando promisi che non avrei più mangiato cipolle e aglio e che subito dopo mi chiese quando ci saremmo sposati. Chissà se è ancora lì che aspetta la risposta. 

Poi vennero Marta e Rebecca e un’altra Sandra, non più arruffata, ma elegante e chic che baciava solo a labbra strette con un piccolo pezzetto di lingua a disposizione. Di classe ma troppo avara, di testa e di corpo.

 

 

La-la-laaaaa-la-la-la.

E dopo sei arrivata tu, amore mio, delicata e sfuggente come una melodia di Satie, con quegli occhi liquidi da ex ragazzina sbandata, i buchi sulle braccia e tanta, troppa fame d’amore. Che potevo fare? Ti ho saziato nutrendoti di baci e musica e con quelli ho riempito tutti i nostri silenzi.

Ecco perché voglio, adesso, subito, senza un se o un ma,  manco una titubanza momentanea dettata dallo schifo, tutte le parole e tutti i baci del mondo. Perché in questa immobilità, il silenzio ora fa davvero paura se non ci sono le tue parole e i tuoi baci a saziare me prima che la mia bocca si paralizzi.

Mi resterà, dopo, solo la pupilla che rotea per disegnare in aria le lettere di tutte le bestemmie che conosco e che posso inventarmi, giorno dopo giorno, perché tanto non mi resta mica altro da fare. 

E allora, porca puttana, Sonia, alzati da quella sedia e vieni a baciarmi finché ho fiato in gola e una lingua da muovere. Che dentro a questo baco putrido, c’è ancora un uomo. 

 

Il collezionista

Ore 17.28.

Gino, il pasticciere, sa bene che la consegna va effettuata il 15 di ogni mese. Non serve più dirglielo. Cinquanta stecchi per il gelato, confezionati all’interno di una plastica sotto vuoto, che Mario , l’impiegato della banca, sarebbe passato a ritirare nel pomeriggio. Non c’era alcun timore. Mario è puntualissimo, paga, sorride, si beve un caffè e se ne va. Gino  è convinto che Mario sia un patito dello stick alla menta fatto in casa, e mica obietta, anche se gli stick artigianali li fa pure lui,. Ma son due  anni che Mario ogni 15 del mese, arriva alle 17,30, spacca il minuto in quattro, paga i 50 legnetti, sorride, discorre un attimo del tempo o del risultato della Juve e poi  beve il suo caffè rigorosamente senza zucchero e se ne va. Lasciando una mancia di 5 euro  per le cameriere. Ce ne fossero sempre clienti così, puntuali e che lasciano sempre la mancia, dice tra sé e sé il Gino, e poco importa a quel punto che il Mario si faccia i ghiaccioli in casa invece di comperarli da lui. 

E’ un signore uno che chiede 50 legnetti per il ghiacciolo domestico. Ben altro gusto rispetto alla plastica che tanti usano per lo stick fai da te. E allora Gino collabora.

A lui,  i signori piacciono, gli ricordano suo padre che mai usciva di casa senza giacca e cravatta, anche dopo la pensione da bancario. 

 

Ore 22.00.

“Ancora? Mario ma hai la fissa?” 

Marina ride mentre Mario la fissa diritta in mezzo alle gambe e con un bastoncino di legno le solletica dentro. In fondo.

“Dai, vieni qui, ho voglia di te”.

“Aspetta un attimo, che ho quasi finito”.

“Non voglio sentire il bastoncino, ho voglia di sentire te, dai”.

Mario è attentissimo, deve far tutto in fretta. Lo sa e non può lasciarsi distrarre dalle moine di Marina. Estrae il bastoncino, corre in cucina e lo infila nella formina piena di acqua. Con un pennarello traccia un “Ma” sulla base dello stecco che fuoriesce dallo stampo e lo caccia in freezer.

Poi chiude la porta del frigo, sorridendo, e torna in camera.

“Eccomi”.

“Era ora, stavo per addormentarmi. Ma ogni volta la stessa storia…”.

Mario le impedisce di proseguire nelle recriminazioni salendole sopra e bloccandole le braccia con le gambe.

Poi Marina emette solo mugugni e Mario se la ride.

E pure lei se la ride. Ha avuto quello che voleva.

“Che buon sapore che hai”.

 

Ore 11.00.

 Mario in mutande in cucina prepara il caffè. Marina non c’è più , se ne è andata all’alba, il letto è sfatto. Sul cuscino è rimasta ancora una lieve traccia del suo odore. Acre ma saporito, mescolato a quello di Mario, pungente come un limone, ma oramai quasi impercettibile. Due odori mescolati dalla chimica, era stato così fin dalla prima sera che si eran visti in quel bar. Lei mangiava da sola. Ricordava tutto, il Mario.

Lei  aveva davanti una mezza pinta di Guinness e un panino al pollo. Ma aveva lo sguardo perso, in direzione della porta, come se aspettasse qualcuno.  E il panino stava freddando.

“…Il mio pensiero vola e va, ho quasi paura che si perdaaaaaaa”.

Si ritrovarono a cantare insieme “Impressioni di settembre” sparata a manetta dall’impianto hi-fi del locale.  Lei persa a guardare la porta del bar; lui perso a guardare lei.

“…Cosa sono, adesso non lo sooooo…”.

Gli sguardi che si incrociano, lei al tavolo, lui al bancone, un sorriso che lega all’improvviso due facce estranee, un comune sentire, una complicità evidente solo a loro, che travalica l’imbarazzo e diventa voglia di capire. L’odore della sua bocca che vuole mangiarlo da dentro, dalla lingua fino al colon, e non smette e lo inquieta dentro l’auto di lui parcheggiata a pochi metri dal pub. E  poi quell’altro odore, che eccita Mario, fino a non fargli capire niente.

 

Ore 11.10.

Mario scuote la testa per scacciare il ricordo di quella bocca e di quelle grandi labbra carnose e sugose. Apre il frigo, tira fuori lo stick, lo lascia riposare qualche minuto sul tavolo di legno, stacca la formina di silicone e si mette in bocca quel pezzo di acqua ghiacciata. Picchietta con la lingua lentamente, per invitarlo a sciogliersi, che ora non sa di niente. Ma  Mario sa che deve avere pazienza, prima o poi arriva il sapore, incollato allo stecco di legno. Per mesi aveva provato infinite varianti per dargli subito sapore. 

Ma la menta e la fragola in sciroppo eran eccessive, gusti assassini. Niente alcol, che non ghiaccia. Nulla di aromatico, avrebbe alterato il sapore. 

Bastava alla fine la cosa più semplice: l’acqua del rubinetto, lasciata decantare 24 ore nell’ampolla aperta, per togliere fin l’ultima traccia di cloro. Acqua pura, per accogliere un umore puro, il miglior profumo di donna.  La sua.

Congelamento,  per fermare il tutto; una notte in frigo, e 50 stecchi al mese a disposizione per evitare errori, per garantirsi una scorta di sapore per i mesi difficili, come facevano i montanari con il cibo quando dovevano affrontare l’inverno, con il gelo che impedisce di metter il naso fuori di casa anche solo per andar a prendere il pane. 

Lui quando aveva voglia di lei, e Marina non c’era, deviava sullo stick.

Ecco, quando Marina spariva e lo faceva per mesi, Mario aveva la scorta del suo sapore e quando si sentiva perso, gli bastava aprire il frigo.

 

Non era nato per fare l’amante, ma per lei lo era diventato. Era un signore, mai avrebbe parlato di un aut aut. O me o lui. 

Era una richiesta eccessiva, da narcisisti. E Mario non lo era, pensava leccando lentamente il ghiacciolo d’acqua. Poi cominciò a sentire il sapore acre, in fondo. 

 Perché stai con lui, Marina, che ti tocca solo nei giorni comandati e manco ti tocca bene, e ti chiede di lavarti, prima e dopo. Perché stai con quello stronzo, Marina, che manco sa distinguere il tuo sapore da  quello di una cotoletta agli spinaci? Perché stai con uno che non perde ore ad annusare i tuoi slip, cercando la tua traccia?

 

Ore 11.20.

Mario scuote di nuovo la testa, per scacciare quei pensieri, quelle parole che non vuole dire perché sarebbero inutili, rovinerebbero tutto e la chimica dovrebbe lasciar il posto ai pensieri.

Separazione, divorzio. Parole troppo pesanti da affrontare a 50 anni.

 E così Mario butta, infastidito dai suoi pensieri, l’ultimo pezzo di ghiacciolo nella pattumiera. Una reazione infastidita, un gesto automatico, comandato dalla pancia. Perché quel sapore che sentiva dentro grattargli l’anima non era suo?

Ma la ragione prevale e il cervello qualche secondo dopo, ordina a Mario di non sprecare. E lui corre verso la pattumiera, prende lo stecco con l’ultimo pezzetto di ghiaccio e se lo infila in bocca. Poi sorride, inghiottendo l’ultimo pezzetto. 

“Ti amo tutti i giorni, anche se non ci sei”.

 

 

Senti

Senti, facciamo un gioco? E’ facile e indolore, anzi è utile, toglie via tutto, specialmente i ricordi. Facciamo che io e te non ci siamo mai visti? Eh, che ci vediamo adesso per la prima volta e tu non sai che faccia ho io e io non posso ricordarmi di te, perché mai ti ho visto prima? Lo facciamo? E’ bello, dai. Tu passi di qua, io passo di là e siccome non ci siamo mai visti prima, non ci vediamo e non ci riconosciamo e di conseguenza passiamo diritti, ognuno per la sua strada, ognuno con la propria andatura, e non c’è un tentennare, manco un inciampo, un cacchio chi mi ricorda? 

Si passa diritti, ognuno per la sua strada, io di qua e tu di là, se preferisci cambiar marciapiede, ti lascio pure la preferenza.

Basta tener lo sguardo diritto, passarsi accanto e non riconoscere manco più l’odore e il calore altrui. Se è tanto, eccessivo, sforzato, facciamo che ci sorridiamo, che è comunque gentile in questo mondo maleducato.

Pensaci, due estranei che passan, uno di là e l’altro di qua, e che si guardano senza riconoscersi ma comunque si sorridono,  è un gesto delicato. Che presuppone che la vita a entrambi ci aggrada così come è , al punto che a un estraneo gli sorridi, mica cammini rasente i muri, per paura che ti sbudelli alla prima occhiata.

Il nostro sia gioco lieve, come il nascondino. Non ci vediamo, ci passiamo accanto come in un passo di Fandango, ci sorridiamo se vuoi, che fa fino e socialmente corretto,  ma non ci fermiamo e manco ci sfioriamo perché non ci riconosciamo. E quindi, ballare e sfiorare e gioire, che é?   E’ inutile.

 I tratti li abbiamo persi, il cervello si resetta prima o poi, senti a me.

Allo straniero lascia il passo.

Lo facciamo, il gioco?  E’ facile, basta dimenticare. Scordare che ogni volta che ci vedevamo ci fermavamo, come cani da punta, ad annusarci per riconoscerci. E finivamo a star vicini vicini, perché il calor mio era il calor tuo, e mi parlavi per ore e ti parlavo per ore. E le mie labbra ti piacevan, perché eran vermiglie anche senza rossetto. E calde, anche se mangiavo ghiaccio.

E se è per quelle labbra che oggi non mi sopporti e mi eviti ma poi quando mi incroci, non mi annusi più, anzi ti scansi come se emanassi fetore e mi dici con gli occhi infastiditi dal sole, che io non sono umana, che sono solo cagna in calore, che ho la perfidia alta e l’ematocrito di conseguenza ne risente, non sarebbe  più giusto, più adulto, se la giustezza non la capisci, camminar uno di qua e uno di là di questo maledetto marciapiede lercio, e giocare a non conoscerci e riconoscerci?

Sarebbe più adulto, sì, perché oggi tu sei vecchio e io sono vecchia, e sono passati decenni. Io farò 70 anni domani, tu ne hai fatti 75 l’altro ieri. Abitiamo da sempre uno di fronte all’altra, ci vediamo tutti i giorni. Ci odiamo da una vita. Non è giunto il momento per te di giocare a non vederci?  Che con tutte queste rughe, chi si ricorda più quando tu hai scritto “Ti amo” su quell’albero? Che oggi manco c’è più, ucciso dal cancro dei platani?  E domani, stanotte, potremmo non esserci più neanche noi?

Non ti pare sia ora?

Me lo compri?

Me lo compri un faro?

Piccolo, in una isola senza nulla attorno, solo lo spazio per correre come in un pazzo girotondo, davanti al mare.

Con una sdraio e un dondolo familiare, con la coperta pronta all’uso, per aspettarti, quando farai tardi.

Me lo compri un faro?

Con una luce gialla che fenda la nebbia, forte come un raggio di sole, calda come il letto che hai appena lasciato.

Piccolo, in una isola senza nulla attorno, solo lo spazio per correre come in un pazzo girotondo, davanti al mare.

Ah, cosa?  Non me lo compri? 

Tu stai a Malibù? Su una spiaggia grande come un campo da calcio e fa così caldo che la coperta manco sai che è?

E la nebbia, ce l’avete la nebbia lì? No, peccato.

Beh certo, e poi tu fai sempre  tardi di tuo, giusto.

 Scusa, ma chi cavolo sei, tu?

Ugo? Scusa, ho sbagliato numero.

Peter

L’ho incontrato in una vallata vicino a Caqui, nel Nordest argentino, durante il mio secondo viaggio nel paese dove si può ancora vedere l’infinito. Avrei voluto portarlo con me ma era senza passaporto e mi era impossibile, convincerlo a lasciare quelle terre.
Ammetto che ancora oggi non riesco a pensare a lui senza sentirmi all’improvviso triste. Perchè Peter in poco più di due ore ha saputo darmi più di tanti altri.
L’ho conosciuto davanti ad una casa, mentre cercavamo le indicazioni per raggiungere alcune interessanti pitture rupestri. E’ apparso dietro ad una bambina uscita da una casa ad un piano tra le piante con un porticato sconnesso, e che era corsa a vedere se ci eravamo persi.
Lei ci parlava, placida e sorridente; lui è spuntato alle sue spalle. Lo sguardo sereno, l’occhio furbo. Si è avvicinato a noi, e si è piazzato di fronte a me in attesa.
“Se volete vedere le pitture rupestri, vi porta Peter”, ci ha detto la ragazzina.
Neanche ho fatto in tempo a chiedere quanto ci sarebbe costato il disturbo.
Lui mi ha guardato, si è girato ed ha cominciato a camminare davanti a noi verso la montagna. Il sentiero passava in mezzo ai rovi, con un percorso tra le pietre su cui si camminava in modo sconnesso. Ma Peter sapeva il fatto suo, anche senza bisogno di cartelli intuiva in che punto si doveva girare a destra rispetto al cespuglio di cafajate o piante dai rami spinosi. Lui non parlava e noi in reverenziale silenzio lo seguivamo lungo la salita in fila indiana. Era lui il nostro capo.
Ogni tanto spariva veloce alla nostra vista. Ma niente paura ; ce lo ritrovavamo davanti all’improvviso, sorridente. Come se la fatica del cammino neanche lo sfiorasse. Oramai eravamo ad un passo dalle rocce, salivamo sfiorandole attenti a non mettere un piede in fallo. All’improvviso davanti ad un costone di roccia Peter si è fermato, come impietrito. Fissava la parete,estasiato, e quello sguardo ci ha spinto a vedere nella direzione in cui voleva lui che guardassimo.
All’inizio non capivamo, pensavamo alla presenza di qualche animale nascosto tra le rocce. Poi lo stupore si è impossessato di noi: le avevamo individuate, stavamo guardando le pitture rupestri. Segni lasciati dagli uomini migliaia di anni fa.
Mi sono seduta su una roccia che sporgeva dal terreno, per guardare meglio e anche riposarmi.
Peter, silenzioso, mi si è seduto vicino. Senza dirci niente, siamo rimasti mezz’ora a fissare la parete, guardando i colori, le forme di quelle tracce antichissime: una scena di caccia , cacciatori dipinti di rosso mattone ed un animale , forse un cervo o un lama, in corsa inseguito dall’uomo che lo voleva uccidere.
Colori che si erano fusi con i toni della roccia.
Io guardavo, ma sentivo accanto a me il calore della presenza di Peter. Per lui, parlava il respiro, cadenzato come un mantra.
Non so perchè l’ho fatto, ma l”ho abbracciato e lui non si è scostato, anzi si è fatto più vicino a me. Abbracciandolo potevo sentire distintamente il rumore del suo respiro e poi il battito del cuore. Rilassato, sereno. Mi sono sentita allora un tutt’uno con quelle terre selvagge e sterminate. Avevo ritrovato davanti ad una roccia il senso dell’infinito che cercavo attraversando le Ande.
Non mi sarei più staccata da quell’abbraccio gentile che mi aveva riempito l’animo di pace, di quiete.
Ma Peter, forse imbarazzato da tanta improvvisa intimità con una sconosciuta, all’improvviso si è rialzato e si è allontanato da me. Riprendendo il cammino verso la casa della sua amica, ogni tanto si voltava a vedere se lo seguivamo.
Voleva essere sicuro che non ci trovassimo in difficoltà durante la discesa. E così è stato, tutto è andato per il meglio e la sua piccola amica era ad attenderci, sorridente, per sincerarsi che la gita fosse riuscita per il meglio.
I saluti sono stati una formalità, come spesso accade tra persone che parlano lingue diverse. Con Peter non sono servite parole, invece. Il suo sguardo fiero e attento indicava che aveva capito quello che mi era successo, che mi ero sentita parte del suo mondo. E gli bastava. Se ne è andato dopo avermi sorriso e baciato la mano sinistra.
Dopo anni ripenso a lui con affetto e tristezza.
Non era bello, non sarebbe mai stato mio.
Ma era un cane e solo lui poteva insegnarmi il piacere della pace interiore.

L'uomo nero

L’uomo nero non lo riconosci finché non ci hai a che fare e ti accorgi che la sua ombra è meno nera del suo sorriso. 

Se sei bambina, l’uomo nero è quello dei sogni, che ha l’ombra lunghissima e le dita lunghe lunghe, che sembrano artigli affilati, e la giugulare te la squarcia con una carezza.

Poi se hai la fortuna di crescere serena, pensi che l’uomo nero non esiste.

 

Marino sembrava l’uomo nero dei sogni, si disse Enza quando lo vide entrare in casa e trattenne il respiro, per la paura. 

Enza aveva undici anni, e vedendo quell’uomo entrare dalla porta di casa , tornò bambina, quando nel letto sognava artigli nel buio e si pisciava addosso, per la paura.

Marino di anni ne aveva sessanta. 

Era alto e magro come un grissino, i pantaloni erano di due taglie più grandi e il maglione era così vecchio che sui gomiti era bucato. In un’altra vita quella maglia doveva era stata color arancio ma a suon di indossarla, mattina e sera, era diventata grigia. Come l’asfalto della strada.

Enza  si accorse di lui dall’ombra che il corpo del visitatore inatteso lasciò sul pavimento di piastrelle dell’ingresso. E sentì il bisogno di correre in bagno. 

Ma suo padre non avrebbe gradito: non si lascia solo un ospite appena varca la porta di casa.

Marino  entrò  in cucina  e si sedette silenzioso e impacciato al tavolo, apparecchiato di tutto punto per il pranzo. 

Enza non riusciva a staccare gli occhi dalle sue mani. I due mignoli avevano un’unghia lunghissima e nera. 

Enza, si disse, che così doveva esser l’unghia dell’uomo nero. 

 

Dove è papà.

 

Marino tentò di sorriderle, ma svelò solo  una bocca per metà senza denti ma con quei canini lunghi e appuntiti e Enza sentì l’angoscia, giù in fondo. Le mani grinzose e piegate dall’artrite sembravano moncherini da cui spuntava quell’artiglio del mignolo. 

Enza non smetteva di fissarne i movimenti, mentre versava la minestra nel piatto dell’ospite sconosciuto. 

Marino si era rifatto serio, fissava la bottiglia di vino davanti a sé e Enza intuì dove lo sguardo andava, lei non lo mollava un secondo e gli fissava occhi e mani, nel timore che partisse uno schiaffo improvviso che le tranciasse in due il collo.

Prese le bottiglia e versò da bere nel bicchiere dell’uomo.

Fu allora che Marino notò il tremolio pauroso del polso di Enza e proferì un “grazie”, così profondo che la ragazzina fece un balzo in alto, con la bottiglia in mano.

“Non sono cattivo, lo sono solo se bevo troppo. Oggi andrà bene”. 

Marino parlava mentre Enza si chinava, tremante, a raccogliere le macchie di vino dal pavimento, aiutandosi con un tovagliolo di carta.

Marino versò il vino del bicchiere dentro la minestra; Enza tentava di respirare.

 

Papà vieni, ti prego.

 

Suo padre era fuori, al cancello di casa, intento a parlare con un signore. Era nonno Bepi, il vicino di casa rimasto invalido per colpa di un ictus. 

La ragazzina fissò la finestra, guardando la figura di spalle di suo padre. E poi girò l’occhio verso l’uomo e vide il piatto con la minestra improvvisamente rossa, pareva sangue diluito, e si disse che era quella la sua ora. E sentì forte l’impulso di correre in bagno. 

Invece corse fuori,  in giardino, lasciando Marino da solo con la sua minestra di vino, con la mano grinzosa che reggeva a fatica il cucchiaio. 

Enza raggiunse suo padre al cancello e respirando forte, si aggrappò al suo braccio, che era sempre stato il suo angolo di pace. 

E stringeva quel braccio come una liana che la avrebbe portata lontano dall’uomo nero che beveva sangue. E la vescica , rallentando il respiro, piano piano, si chetava mentre suo padre le accarezzava i capelli.

 “Enza, hai lasciato solo Marino? Ascoltami, lui non ha nessuno, vive per strada e suo fratello ora è in ospedale. Ti ho sempre detto di essere gentile con gli ospiti, specie con chi se la passa peggio di noi”. 

Enza scese dalla liana.

“Lo so ma mi fa paura, papà”.

“E’ un barbone, Enza, ma è buono. Non farebbe del male a nessuno. Facciamo così, tu porta a casa nonno Bepi e io faccio compagnia a Marino. Va bene?”. 

 Tutto pur di evitare di vedere quel piatto sanguigno e quel mignolo affilato.

E così Enza prese sotto braccio nonno Bepi dal passo strisciante e si incamminò nella stradina a lato di casa. Cento metri li dividevano dalla casa del vecchio che, camminando lentamente, si appoggiava a lei con tutto il corpo tanto che Enza poteva sentirne il peso. Arrivati davanti alla casa in fondo alla stradina, Enza mise la mano nella tasca destra della giacca di Bepi e prese le chiavi. Tutti sapevano che stavano lì. 

Poi aprì il cancello e la porta. 

 

Chissà di che parla papà con quell’uomo.

 

Con la porta aperta, nel corridoio entrò un potente raggio di sole e l’ombra del Bepi si stagliò corta alle spalle di Enza. La casa puzzava di antibiotici e urina, un odore fastidioso. Enza si girò, pronta ad uscire. 

Il suo compito l’aveva assolto, non aveva voglia di tornare a casa ma pensava di fermarsi a far due tiri a canestro nel piazzale sul retro.

Ma nonno Bepi non si spostò dall’ingresso, la fissava senza parlare e con la mano tremolante le fece cenno di avvicinarsi.

Vicina, più vicina, bambina, fino a che l’orecchio di Enza sfiorò la bocca di Bepi, che non parlò ma fece qualcosa. Sorrise mostrando una bocca tutta nera come la pece. E la mano tremante ora era ferma e stringeva, attraverso la maglietta, il capezzolo destro del seno di Enza con tocco deciso e la mano sinistra si infilò dentro i suoi pantaloni della tuta, dentro le mutandine. Enza guardava quella bocca nera , oltre i denti finti,  e si chiedeva cosa c’era lì in fondo. Annusò l’alito fetente che usciva da quel buco nero e si sentì persa. Il dito di nonno Bepi cercava strada e Enza sentì furiosa la paura e il bisogno di fare pipì. Quando sentì male, pensò che un uncino l’avesse afferrata dentro la pancia, e si ricordò delle mani dell’uomo nero dei sogni.

Enza cacciò un urlo. Che subito dopo si spense.

Dietro a nonno Bepi si stagliava la figura di Marino con l’artiglio posato sulla spalla del vecchio a pochi millimetri dal naso di Enza. 

Lei si sentì persa di nuovo , cacciò un secondo urlo e chiuse gli occhi, tremando. Il resto lo disse l’umido che le scendeva tra le gambe.

Non vide nulla dopo  ma sentì, netto,  il rumore di uno schiaffo e di qualcosa che cadeva a terra e una stretta forte che la trascinava via.

 

Papà, dove sei?

 

La stradina era illuminata dal sole.

Marino ora le accarezzava i capelli e la teneva stretta al suo braccio. Enza vide l’ombra lunga dell’uomo sull’asfalto. Poi si girò: nonno Bepi tremante era sulla soglia della porta di casa, a terra, a quattro zampe intento a cercare la dentiera che gli era volata via. Sulla guancia un lungo striscio rosso. 

Il vecchio la fissò e lei vide il nero pece dentro quella bocca e strinse inconsciamente l’artiglio di Marino che le era accanto.

“Non ti farà più male”, lui le disse.

E Enza scordò i pantaloni bagnati. 

“Sai giocare a basket? Li facciamo due tiri assieme?”