L'uomo nero

L’uomo nero non lo riconosci finché non ci hai a che fare e ti accorgi che la sua ombra è meno nera del suo sorriso. 

Se sei bambina, l’uomo nero è quello dei sogni, che ha l’ombra lunghissima e le dita lunghe lunghe, che sembrano artigli affilati, e la giugulare te la squarcia con una carezza.

Poi se hai la fortuna di crescere serena, pensi che l’uomo nero non esiste.

 

Marino sembrava l’uomo nero dei sogni, si disse Enza quando lo vide entrare in casa e trattenne il respiro, per la paura. 

Enza aveva undici anni, e vedendo quell’uomo entrare dalla porta di casa , tornò bambina, quando nel letto sognava artigli nel buio e si pisciava addosso, per la paura.

Marino di anni ne aveva sessanta. 

Era alto e magro come un grissino, i pantaloni erano di due taglie più grandi e il maglione era così vecchio che sui gomiti era bucato. In un’altra vita quella maglia doveva era stata color arancio ma a suon di indossarla, mattina e sera, era diventata grigia. Come l’asfalto della strada.

Enza  si accorse di lui dall’ombra che il corpo del visitatore inatteso lasciò sul pavimento di piastrelle dell’ingresso. E sentì il bisogno di correre in bagno. 

Ma suo padre non avrebbe gradito: non si lascia solo un ospite appena varca la porta di casa.

Marino  entrò  in cucina  e si sedette silenzioso e impacciato al tavolo, apparecchiato di tutto punto per il pranzo. 

Enza non riusciva a staccare gli occhi dalle sue mani. I due mignoli avevano un’unghia lunghissima e nera. 

Enza, si disse, che così doveva esser l’unghia dell’uomo nero. 

 

Dove è papà.

 

Marino tentò di sorriderle, ma svelò solo  una bocca per metà senza denti ma con quei canini lunghi e appuntiti e Enza sentì l’angoscia, giù in fondo. Le mani grinzose e piegate dall’artrite sembravano moncherini da cui spuntava quell’artiglio del mignolo. 

Enza non smetteva di fissarne i movimenti, mentre versava la minestra nel piatto dell’ospite sconosciuto. 

Marino si era rifatto serio, fissava la bottiglia di vino davanti a sé e Enza intuì dove lo sguardo andava, lei non lo mollava un secondo e gli fissava occhi e mani, nel timore che partisse uno schiaffo improvviso che le tranciasse in due il collo.

Prese le bottiglia e versò da bere nel bicchiere dell’uomo.

Fu allora che Marino notò il tremolio pauroso del polso di Enza e proferì un “grazie”, così profondo che la ragazzina fece un balzo in alto, con la bottiglia in mano.

“Non sono cattivo, lo sono solo se bevo troppo. Oggi andrà bene”. 

Marino parlava mentre Enza si chinava, tremante, a raccogliere le macchie di vino dal pavimento, aiutandosi con un tovagliolo di carta.

Marino versò il vino del bicchiere dentro la minestra; Enza tentava di respirare.

 

Papà vieni, ti prego.

 

Suo padre era fuori, al cancello di casa, intento a parlare con un signore. Era nonno Bepi, il vicino di casa rimasto invalido per colpa di un ictus. 

La ragazzina fissò la finestra, guardando la figura di spalle di suo padre. E poi girò l’occhio verso l’uomo e vide il piatto con la minestra improvvisamente rossa, pareva sangue diluito, e si disse che era quella la sua ora. E sentì forte l’impulso di correre in bagno. 

Invece corse fuori,  in giardino, lasciando Marino da solo con la sua minestra di vino, con la mano grinzosa che reggeva a fatica il cucchiaio. 

Enza raggiunse suo padre al cancello e respirando forte, si aggrappò al suo braccio, che era sempre stato il suo angolo di pace. 

E stringeva quel braccio come una liana che la avrebbe portata lontano dall’uomo nero che beveva sangue. E la vescica , rallentando il respiro, piano piano, si chetava mentre suo padre le accarezzava i capelli.

 “Enza, hai lasciato solo Marino? Ascoltami, lui non ha nessuno, vive per strada e suo fratello ora è in ospedale. Ti ho sempre detto di essere gentile con gli ospiti, specie con chi se la passa peggio di noi”. 

Enza scese dalla liana.

“Lo so ma mi fa paura, papà”.

“E’ un barbone, Enza, ma è buono. Non farebbe del male a nessuno. Facciamo così, tu porta a casa nonno Bepi e io faccio compagnia a Marino. Va bene?”. 

 Tutto pur di evitare di vedere quel piatto sanguigno e quel mignolo affilato.

E così Enza prese sotto braccio nonno Bepi dal passo strisciante e si incamminò nella stradina a lato di casa. Cento metri li dividevano dalla casa del vecchio che, camminando lentamente, si appoggiava a lei con tutto il corpo tanto che Enza poteva sentirne il peso. Arrivati davanti alla casa in fondo alla stradina, Enza mise la mano nella tasca destra della giacca di Bepi e prese le chiavi. Tutti sapevano che stavano lì. 

Poi aprì il cancello e la porta. 

 

Chissà di che parla papà con quell’uomo.

 

Con la porta aperta, nel corridoio entrò un potente raggio di sole e l’ombra del Bepi si stagliò corta alle spalle di Enza. La casa puzzava di antibiotici e urina, un odore fastidioso. Enza si girò, pronta ad uscire. 

Il suo compito l’aveva assolto, non aveva voglia di tornare a casa ma pensava di fermarsi a far due tiri a canestro nel piazzale sul retro.

Ma nonno Bepi non si spostò dall’ingresso, la fissava senza parlare e con la mano tremolante le fece cenno di avvicinarsi.

Vicina, più vicina, bambina, fino a che l’orecchio di Enza sfiorò la bocca di Bepi, che non parlò ma fece qualcosa. Sorrise mostrando una bocca tutta nera come la pece. E la mano tremante ora era ferma e stringeva, attraverso la maglietta, il capezzolo destro del seno di Enza con tocco deciso e la mano sinistra si infilò dentro i suoi pantaloni della tuta, dentro le mutandine. Enza guardava quella bocca nera , oltre i denti finti,  e si chiedeva cosa c’era lì in fondo. Annusò l’alito fetente che usciva da quel buco nero e si sentì persa. Il dito di nonno Bepi cercava strada e Enza sentì furiosa la paura e il bisogno di fare pipì. Quando sentì male, pensò che un uncino l’avesse afferrata dentro la pancia, e si ricordò delle mani dell’uomo nero dei sogni.

Enza cacciò un urlo. Che subito dopo si spense.

Dietro a nonno Bepi si stagliava la figura di Marino con l’artiglio posato sulla spalla del vecchio a pochi millimetri dal naso di Enza. 

Lei si sentì persa di nuovo , cacciò un secondo urlo e chiuse gli occhi, tremando. Il resto lo disse l’umido che le scendeva tra le gambe.

Non vide nulla dopo  ma sentì, netto,  il rumore di uno schiaffo e di qualcosa che cadeva a terra e una stretta forte che la trascinava via.

 

Papà, dove sei?

 

La stradina era illuminata dal sole.

Marino ora le accarezzava i capelli e la teneva stretta al suo braccio. Enza vide l’ombra lunga dell’uomo sull’asfalto. Poi si girò: nonno Bepi tremante era sulla soglia della porta di casa, a terra, a quattro zampe intento a cercare la dentiera che gli era volata via. Sulla guancia un lungo striscio rosso. 

Il vecchio la fissò e lei vide il nero pece dentro quella bocca e strinse inconsciamente l’artiglio di Marino che le era accanto.

“Non ti farà più male”, lui le disse.

E Enza scordò i pantaloni bagnati. 

“Sai giocare a basket? Li facciamo due tiri assieme?”


  1. minchia che mal di stomaco! avevi ragione, non dovevo leggerlo prima, ma neanche ora che stavo mangiando!
    un bel calcio in pancia!

  2. Nero e bianco, si somigliano.

  3. Bellissima scrittura, che sa annodare stomaco e pensieri…

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