Quelli del collettivo

Ricevo da Franco Malaguti questa pubblicazione con la storia dei ragazzi del collettivo Biancotto, che ha ispirato il racconto “Mazza e Pindolo”, che trovate su “Schegge di liberazione 2011”.

Potete leggerlo qui
http://www.fondazionegiannipellicani.it/sites/default/files/NoiBiancotto.pdf

Lontano

“Lontano” è un racconto in quattro atti che ho scritto per il blog collettivo di “Sette per uno”.

Lo potete leggere qui:

http://www.setteperuno.it/2011/06/lontano-atto-primo/

http://www.setteperuno.it/2011/06/lontano-atto-secondo/

http://www.setteperuno.it/2011/06/lontano-atto-terzo/

http://www.setteperuno.it/2011/06/lontano-atto-quarto/

L’amante svegliato (amarcord 2008)

Ho ritrovato questo, scritto nel 2008 in risposta ad una chiamata dell’Accalappiacani
( http://www.laccalappiacani.it/2008/temi-svolti/).
Il tema era “sveglierò tutti gli amanti, parlerò per ore ed ore”: commentare il brano della celebre canzone di R. Cocciante mettendosi nei panni di un amante svegliato”.

L’AMANTE SVEGLIATO

Ahhhhhhhhhhh! Chi è questo che urla a quest’ora di notte? E suona pure al citofono…
Chi saresti tu?
Cocciante Riccardo?
Che vuoi?
Svegliare tutti gli amanti e parlare per ore e ore?
E proprio al mio citofono vieni a suonare?
E come sapevi che stasera ho un uomo in casa, che è di là che dorme della grossa, sto scemo. Sì, abbiamo fatto l’amore! Ma a te che ti frega, scusa?
Ahhhh, siamo amanti e tu ci hai svegliato. Ben fatto, ma qua la sveglia sono solo io.
E vuoi parlarmi di Margherita, perchè lei vuole l’amore.
Ok, ma scusami, Riccardo, e io che c’entro?
Mi hai svegliato in piena notte, urlando come un gatto evirato…Sì, questa lunga notte è nera più del nero, ma io stavo dormendo, lo capisci, accoccolata addosso ad un uomo che mi piace.
No, non si chiama Riccardo e no, io non mi chiamo Margherita.
Sono Marta, e mi hai svegliato, ti dicevo, mentre me ne stavo accoccolata a lui. Che continua a dormire ( ma quanto dorme questo e non sente il casino che fa questo nano?).
Sì anche io vorrei che al risveglio non mi possa più scordare, Riccardo.
Ma se continui ad urlare così, finisce che pensa che sono io la matta, non tu, e mi molla. E invece vorrei che domani si alzasse, preparasse il caffè e se ne andasse senza disturbare e poi la sera mi chiamasse.
Senti, Riccardo, mica solo tu pensi all’amore.
Pure io c’ho le mie storie e tu vorresti invece che scendessi a correre con te per le strade e che ci mettessimo a ballare. Ma io non ho voglia, sono in sottoveste.
E lui è di là, caldo e addormentato. Io , invece, oramai sono sveglia.
E quasi, quasi vado di là e lo sveglio, così lo rifacciamo, l’amore. Che tu canti e basta e io invece qua al freddo mi è tornata la voglia, almeno mi riscaldo.
Sì, anche io come Margherita, lo faccio una notte intera. Che ti credi, che solo lei sia buona, bella, dolce, vera. Che solo Margherita ama?
Ma guardati in giro!
No, ti prego, non intendevo dire che devi andare a suonare ad altri citofoni. Stai qua, oramai mi hai svegliato nano. Costruirle una culla?
Ma che sei pedofilo!
No, non lo faccio e poi è notte fonda, sono in sottoveste, ho freddo e ho voglia di andare a prendermi un pochino di vero amore da quello di là…che continua a dormire.
Ma che sonno pesante ha?
Non sente come urlo a questo citofono?
Margherita, lo so, Riccardo, non può farti male. Ma… invece di star qui ad urlare al mio citofono che è tua, perché non vai sotto casa sua a dirglielo?
Le parli, la baci, magari lei è lì che aspetta solo te (povera stella) e così la smettiamo…
Riccardo…? …
No, non mi chiamo Margherita, sono Marta. Sì hai svegliato una amante.
E sei contento? Sì?
Ah, lei sta dormendo e tu non puoi riposare?
Sai come si dice, canta che ti passa. Tu l’hai preso alla lettera, vero?
Non puoi star fermo con le mani nelle mani?
Beh, ti arrangi. Io stasera ho già dato…
Sì il sole domattina splenderà, anzi se stai giù lo vedi arrivare tra un paio d’ore.
Se resto con te?
No, guarda ho da fare. Tu canta, io adesso me ne torno a letto.
Perché l’amore mica si canta solo, si fa anche. Meglio spesso, sì.
Beh comunque vallo a dire a Margherita…
Ecco una bella idea, costruisci un silenzio che nessuno ha mai sentito. Così è la volta che me ne torno in pace da quell’altro che se la dorme.
Margherita è tua? E chi te la porta via!
E poi ti sbagli. Se è la Margherita che conosco io … quella della via in fondo alla strada, beh la mattina si fa la barba e va a lavorare in carpenteria. Ok, è la tua pazzia…Ma è un uomo, mettitela via!

L’amore a tempo

Adelina si era abituata a pensare che l’amore fosse solo a tempo, quello rubato alle altre. Non lo faceva per denaro. Le era solo capitato di inciampare sempre sullo stesso tipo d’uomo. Quello scontento di sé e della sua vita, dopo anni di tetto coniugale condiviso e di abitudini, e bisognoso di una scossa di vitalità per sentirsi ancora vivo.
Lei non li cercava, mai. Loro la vedevano e non potevano farne a meno. Adelina pensava che l’amore era come una pianta, che andava innaffiata ogni giorno e che ogni giorno ci dovevi parlare senza mai dimenticare di stupirti di una foglia nuova, di un fiore che sbocciava; senza mai far finta di vedere il ramo secco e curarlo subito.
Eppure aveva finito con l’abituarsi al poter amare solo a tempo, una volta ogni settimana, una volta ogni quindici giorni, una volta ogni tre settimane. L’amore suo aveva la scansione delle sere e dei pomeriggi liberi dei suoi amanti alle prese con bugie, con scuse, con appuntamenti inesistenti inventati, pur di vederla. Il resto dei giorni del mese Adelina li passava a struggersi nel non vederli, a cercare di non pensarci troppo, a rotolarsi da sola nel letto, di notte.
Mai Adelina aveva voluto vedere le altre, le mogli e le fidanzate tradite. Non aveva bisogno di confronti con loro, si sentiva necessaria e non una abitudine.
Sempre aveva finito con il pronunciare il “ Ti amo”, quando voleva farla finita. Sua mamma lo diceva sempre che gli uomini impegnati davanti all’amore scappano, non restano mai. Se restano è solo nelle favole che si raccontano alle bambine per farle dormire.
Alle adulte la verità va sventolata in faccia per non farle rincretinire.
E allora Adelina, quando si annoiava troppo nelle sue giornate solitarie, glielo diceva “Ti amo” ai suoi uomini. Non era per niente convinta dentro ma lo diceva, per spingerli senza toccarli verso l’uscio e poter poi chiudere la porta a chiave, sicura che non sarebbero tornati.
Perché loro, gli uomini, entravano nel suo letto per ricaricarsi di sorrisi, risate, gentilezze e sentirsi per un periodo non l’oggetto privilegiato di ogni recriminazione.
Adelina lo sapeva che erano amori a tempo ma non aveva mai rinunciato perché li aveva visti arrivare stanchi e assetati di qualcosa che manco loro sapevano e dopo due settimane che la frequentavano, loro erano tutti briosi e sorridenti e giravano per il paese a testa alta, tenendo il cappello sotto il braccio come se fosse un mazzo di fiori e si vedeva che in quel letto avevano perso fluidi ma avevano guadagnato in solidi ed erano pronti a sopportare tutto, anche una moglie annoiata e una fidanzata insoddisfatta.
E Adelina si alzava al mattino e andava a pettinarsi i capelli lunghi e neri allo specchio, e si sentiva dentro, tra la vagina e la pancia, un enorme generatore di energia elettrica, una potentissima turbina che se voleva, ne era certa, poteva illuminare a giorno tutto il paese. E far sparire le stelle in cielo. Si sentiva potente l’Adelina.
Loro salutavano e andavano a casa, era sempre la stessa storia, e lei si metteva in carica. Poi, regolarmente, capitava un giorno che lei si accorgeva che loro, tutti, erano lì non tanto per restare ammirati davanti alla potenza del generatore ma per scroccare energia elettrica. Ammiravano l’effetto, non la causa.
E allora lei di mattina, di solito, dopo averli accarezzati e baciati tutta la notte, se ne usciva con quel “ Ti amo” e li mandava via a pensare e poi si metteva a contare in attesa del loro ritorno all’uscio, col cappello tra le mani, e lo sguardo corrucciato di chi deve rinunciare al giocattolo preferito, per sentirsi dire che non ce la facevano ad andare avanti così e che se ne tornavano a casa senza più suonare al suo campanello. Il ragionier Moldani era stato il più lento a decidere.
Ci aveva messo esattamente cinque anni e tre giorni.
Aveva resistito perché a casa proprio perdeva ogni energia davanti alla moglie perennemente arrabbiata con la bilancia, la madre e di conseguenza lui. L’appuntato Alberti era stato il più veloce: tre giorni e 17 ore, il tempo di tornare a casa in Puglia, disfare la valigia e mangiare cozze e patate preparate da mammà per la licenza premio.

Adelina, adesso che è vecchia e ha un giardino bellissimo che cura tutti i giorni, quando parla di loro dice che li ha amati, tutti, nessuno escluso. A tempo, certo, ma con affetto. Per ciascuno ha comperato una sveglietta colorata il giorno prima della dichiarazione, ha detto quel che doveva dire e poi ha puntato l’ora esatta del “Ti amo” e ha tirato una martellata. Rompendo le sveglie ha interrotto il tempo. E a lei pare di non aver più i minuti contati, adesso.

Mazza e Pindolo

“Mazza e pindolo” lo puoi leggere sul libro di “Schegge di Liberazione”, che esce oggi in versione cartacea, oppure lo puoi scaricare in versione ebook, seguendo questo link.

E’ un racconto di fantasia ma il collettivo Biancotto a Venezia è esistito davvero.
E buona Liberazione a tutti 🙂

La scatola

L’aveva trovata nella piazza del paese, appoggiata ad una panchina, quella scatolina. Era di legno chiaro, con un coperchio dello stesso colore ma striato da colpi di pennello in varie tonalità. Rosso, giallo, blu.
Non più di cinque centimetri di lunghezza per tre di larghezza.
Stava appoggiata sopra il verde della vernice della panchina ed era impossibile non notarla. Enrico si stupì che nessuno, prima di lui, quella mattina, l’avesse vista e fosse stato preso dalla curiosità di prenderla e vedere cosa c’era dentro. Ad Enrico, che su quella panchina si era seduto mentre aspettava l’autobus per andare al lavoro, la curiosità era venuta.
Con la mano aveva sfiorato la piccola scatola, poi l’aveva stretta dentro al pugno della mano con forza perché nel frattempo era arrivato il bus e ci doveva salire. E l’aveva infilata nella tasca del giubbotto.
Lo aspettavano all’assemblea in fabbrica, che erano sei mesi che alla Baldoni, erano in cassa integrazione e tutti i giorni loro, gli operai dell’altoforno anche se quello era spento e aveva smesso di far così caldo che quando ci entravi ti sentivi sciogliere e svenire, al lavoro ci andavano lo stesso, chi per organizzare le manifestazioni e chiedere udienza al sindaco, chi, come Enrico, perché a casa non aveva niente da fare.
Non aveva una moglie e manco figli, Enrico, che lo aspettavano. Non aveva fidanzate da portare in giro la sera e neanche un cane.
C’era stato un tempo, sei mesi fa, in cui sì, il cane c’era e pure la fidanzata, poi quando era arrivato il delegato sindacale in fabbrica a comunicare che per un anno sarebbe scattata la cassa integrazione e che era meglio se nel frattempo si cercavano tutti altro da fare, in nero, sennò era un casino con il fisco, lui disse alla Carolina, la sua morosa, che le cose erano cambiate, che non si poteva pensare più a niente, da fare, assieme, e le chiese di portarsi via di casa lo spazzolino, le creme, i vestiti e pure il cane, Pallina, che non era neanche suo visto che gli era entrato in casa assieme a Carolina. E di chiudere bene la porta.
Enrico cambiò anche la serratura, soldi ben spesi, disse, che se la vita devia così brusca, e ti lascia in mutande, come fai a pensare a far contenta una morosa e accarezzare un cane, se non sai come sarà non dico il futuro ma la tua faccia tra sei ore, alla fine di un turno che ti imponi da solo, per avere qualcosa da fare?
In assemblea, dentro la sala mensa, che non odorava più di pasticcio con le polpette, stava parlando Ettore, il suo compagno del turno C. Diceva che non bisognava mollare e perdere la speranza, che il sindaco aveva chiesto un incontro al curatore fallimentare e che bisognava continuare la protesta. E tornare ad organizzare un corteo, per far vedere che quelli della Baldoni non mollavano.
Era uno studiato, Ettore, era andato al liceo scientifico e non alla scuola professionale e Enrico stava bene con lui, gli pareva che aveva sempre qualcosa da dirgli. Ma andava bene anche se stava in silenzio, Ettore, che aveva quella faccia sicura, di chi sa come andrà a finire.
Quando Ettore finì di parlare e si sedette accanto a lui, Enrico si ricordò della scatola, la estrasse dalla tasca del giaccone e gliela passò sotto la tavola, appoggiandola al suo ginocchio.
“Cosa è, secondo te”, gli chiese.
“Cosa c’è dentro?”, gli rispose Ettore. Enrico alzò le spalle.
Ettore allora sollevò il coperchio della scatolina, tenendola nel palmo della mano. Dentro c’erano due bamboline di pezza. Piccolissime e pure bruttine, a guardarle bene. Il tronco era di carta arrotolata, di colore rosa, con gli occhi e la bocca appena accennati da un puntino nero; le gonne erano pezzetti di stoffa, uno rosso, l’altro bianco, tenuti legati da una serie di giri di filo rosso e nero. Ai lati due pezzetti minuscoli di legno formavano le braccia.
“Bamboline. Ho sentito parlare di una usanza cilena. Quella di mettere delle bamboline sotto il cuscino così loro prendono i sogni belli e li mettono via e poi un giorno il sogno succede”.
Ettore parlava con la sua solita faccia sicura. “Lì da quelle parti i sogni li considerano cose serie. Dicono che le bamboline li curano e poi anche li passano, di persona in persona”.
Aveva finito. Enrico riprese la scatolina e la mise nel giubbotto della giacca.
Poi si rivolse all’amico: “Io è da quando non faccio più l’amore che non sogno, Ettore”.
“Lo so”, gli rispose l’altro alzandosi dalla sedia per andare al bagno.
“Capita pure a me”.

Passarono i giorni, la scatolina con la bambole era finita nel cassetto del comodino della casa di Enrico. Dimenticata. Del resto c’era altro a cui Enrico doveva pensare: il mutuo della casa da pagare, le bollette riempivano la buca delle lettere. I soldi stavano finendo.
Enrico si alzava la mattina con un pessimo umore, guardava la cassetta all’ingresso e tirava diritto con una rabbia dentro, che ad ogni passo, assumeva la forma di un bolo che gli bloccava il respiro e gli toglieva pure l’appetito. Trascorreva da inutile delle giornate inutili in un posto così inutile come solo una fabbrica ferma sa essere, quando non c’è il cicaleccio del cambio turno, l’allegria della pausa pranzo. Sentiva la mancanza persino dell’assordante calore dell’altoforno. Sguardo perso nel vuoto, si chiedeva dove erano finiti quei colpi assordanti. Era pur sempre ritmo, qualcosa che gli ricordava che nel petto il suo cuore batteva ancora. Viveva in un mondo spento. A 45 anni avrebbe potuto saltellare invece di trascinarsi, incazzato, quel magma incastrato dentro, tra trachea e stomaco.
Silenzioso pure lui.

Ettore lo accompagnò a casa a fine giornata, era preoccupato per l’amico sempre più apatico. Sapeva bene cosa era. La paura di non farcela.
La sentiva anche lui, ma Ettore a differenza di Enrico la scacciava via, appena ne avvertiva l’odore in giro per la testa. Si metteva a sistemare casa, telefonava alle amiche promettendo di passare presto, faceva ordine e buttava le cose vecchie. Pensò che con Enrico poteva funzionare. Buttare le cose vecchie, aprire i cassetti e liberare spazio. Un esercizio manuale che occupava il tempo e offuscava quel pensiero martellante.
La paura è come stare in mare aperto senza un tronco a cui appigliarsi, senza uno scoglio su cui poggiare i piedi, senza manco un filo su cui dondolare. Solo galleggiamento, le gambe che sbattono cercando un ritmo che la stanchezza fa arrancare.
Ettore costrinse Enrico all’esercizio, cominciando dai cassetti del comodino vicino al letto. E togliendo fazzoletti e scatole di preservativi vuoti e forcine della Carolina, chissà dove era finita quella, e biscotti del cane oramai sbriciolati, saltò fuori la scatolina delle bamboline.
Fu Ettore a prenderla in mano, non visto da Enrico, tutto preso dal furore dell’ordine e intento a svuotare e buttare, senza guardare. Tolse il coperchio, prese in mano la bambolina rossa e la infilò sotto il cuscino. In quei momenti tutto poteva tornare utile, pensò.

Enrico andò a dormire, stremato da una serata di pulizie dei cassetti. Aveva lasciato nell’ingresso di casa i sacchi neri con le cose da buttare. Cadde dentro un sonno pesante, come un sacco in un pozzo ma senza tonfo e il bolo accoccolato dentro la trachea dormiva pure lui.
Dopo due minuti, o due ore, mica lo sapeva, aprì gli occhi. C’era una luce accesa, nell’ingresso. Si stupì di non aver spento la lampada alogena, lui che era attentissimo a queste cose. Si alzò a fatica dal letto per andare a spegnere la luce e fu di colpo buio in casa. Pensò di aver immaginato e tornò ad appoggiare la testa sul cuscino e sentì allora una mano accarezzargli la testa. Aveva paura ma sentiva quel calore e il bolo si alzò dalla trachea alla bocca e gli venne la voglia di vomitare. Corse in bagno a piedi nudi, accese la luce dello specchio. E li vide.

Lui abbracciava lei, cingendole i fianchi e fissandola negli occhi. Lei teneva le mani sulle spalle di lui e ricambiava lo sguardo, sorridendo. Avevano entrambi i capelli bianchi, le rughe sul viso, ma le mani dalla pelle olivastra sembravano quelle di due ragazzini. Lui indossava una camicia bianca e pantaloni neri, lei un vestito nero e uno scialle, grandissimo, che tratteneva con i gomiti. Rosso e lungo fino ai piedi di lei. C’era silenzio e Enrico che li fissava attraverso lo specchio prima pensava ad una allucinazione, poi voleva chiedere chi fossero, ma non gli usciva voce, che il bolo si era bloccato in bocca. I due lo guardarono, ricambiando il suo sguardo, e cominciarono a ballare. Due passi a sinistra, uno in avanti, due a destra. Era come se fosse un solo movimento, il loro. Nel silenzio del bagno, ad Enrico sembrò di sentirla nella testa la musica che stavano ballando, era un valzer sommesso. E poi gli parve anche di sentirli parlare, ma non c’erano bocche che si muovevano, c’erano solo quei due vecchi ballerini dalle mani giovani. Che gli parlavano con il pensiero. Enrico si accoccolò sulla tazza del water per ascoltarli meglio, quei due amanti che avevano passato una vita a cercarsi nei sogni, che non avevano mai avuto il coraggio di dirselo che si volevano, ed erano finiti a morire a migliaia di chilometri di distanza uno dall’altra da soli, poveri e senza figli. E adesso quei sogni che avevano lasciato tra la stoffa delle bamboline, li avevano fatti ritrovare e ogni notte ballavano assieme, finalmente. E se Ettore li vedeva era grazie alla bambolina che lo aveva accarezzato nel sonno. L’anziano gli disse che la paura era proprio quel mare senza appigli. La sua donna gli disse che la paura è quel magma in bocca che fatichi anche a respirare. E loro, assieme, gli dissero che se c’era silenzio l’unico modo per non sentirsi soli era cercarsi un ritmo dentro, sul tempo del cuore. Che quello è un rumore che non è mai uguale ad un altro.
E in coro, mentre ondeggiavano sulle note di valzer, i due gli dicevano che non sarebbe passata la paura, no, ma almeno non sarebbe diventata terrore.
I sogni non si abbandonano mai, li si lascia alle bamboline che li faranno passare da una vita all’altra. Per scacciarlo, il terrore.

Fu un discorso silenzioso, con quel valzer di sottofondo. Enrico si risvegliò a mezzogiorno che ancora lo sentiva risuonare nelle orecchie. Aveva dormito sul tappetino del bagno, la riga dell’orlo del tappeto si era come stampata sulla guancia sinistra.

Andò a preparare il caffè, poi corse in camera da letto e aprì il cassetto. La scatolina di legno era lì. Alzò il cuscino, prese la bambolina dal vestito rosso e ricambiò la carezza. Poi la infilò nella scatolina, accanto all’altra. Oramai sapeva cosa doveva fare. Il prossimo sogno l’avrebbe regalato a loro. Per battere il terrore.

L’eliminatore

“E’ la terza volta che provo il suo rimedio, signor Guadalupi. E non funziona”.

Ersilia Santini teneva tra le mani la boccetta vuota. Si rivolse a Guadalupi, dopo un breve silenzio, obbligato, visto che l’uomo era al telefono con un cliente.

“Non funziona? Questo lo dice lei, signora Santini. Vuole che le mostro di nuovo tutte le lettere dei clienti soddisfatti che mi hanno scritto per ringraziarmi? Chiamo la segretaria e, se vuole, le può rileggere tutte”.

Ersilia Santini tacque. Si limitò a spingere la boccetta sul tavolo verso la faccia del signor Guadalupi.

“Ci sarà qualche errore, nella preparazione. Le ripeto che non funziona. Non è cambiato nulla neanche questa settimana, io continuo a stare male e non passa. Eppure prendo un cucchiaio al giorno, come mi ha detto lei”.
Guadalupi la fissò negli occhi, senza neanche guardare la boccetta che la donna gli aveva parato davanti.

“Signora Ersilia, a volte ci sono casi più difficili di altri. Mi ricordo quello del professor Calvari che era così innamorato della preside del liceo dove lavorava che non dormiva più di notte. Abbiamo dovuto lavorare sul dosaggio. Però lei mi deve aiutare”.

Ersilia Santini annuì.
“Come, signor Guadalupi?”.

“Ersilia lei ci deve credere che è possibile”.

“Ma io ci provo! E credo a lei”

“Evidentemente non a sufficienza”, replicò l’uomo alzandosi dalla seggiola e camminando su e gìù per la sala da pranzo, trasformata in studio.

Gianni Guadalupi, pensionato delle Poste, settant’anni ben portati, invece di portare al parco i nipotini, come tutti i nonni della sua età, si era inventato un lavoro a domicilio. Quello dell’eliminatore.
Ammazzava l’amore su mandato dei suoi clienti, stanchi di provare sentimenti non ricambiati, rimbalzati o avvizziti dal dolore e dalle peripezie a cui erano costretti.
Se lo era fatto stampare anche sul biglietto da visita quel titolo. Aveva la sua storia come credenziale e tutti in paese gli avevano subito creduto, perché tutti sapevano chi era.
Di giorno lavorava all’ufficio postale. Di sera per venti anni di seguito si era seduto al bancone della trattoria della Florinda e le aveva parlato d’amore. E lei mai una volta aveva fatto un cenno di comprensione e assenso, con il capo artificialmente imbiondito e poi, con il passar degli anni, naturalmente ingrigito. La Florinda non sentì mai nessuna delle sue parole semplicemente perché lo vedeva come un cliente qualsiasi, con il bicchiere di vino sempre in mano.
Così tanti anni ci vollero al Guadalupi per capire che non avrebbe mai parlato davvero alla Florinda e una sera, convinto di essere diventato trasparente al mondo, tornando a casa col passo desolato, si fermò davanti ad un campo di zingari e una donna anziana, con le rughe che le avevano scavato il viso, fino a nasconderle pure gli occhi, gli venne incontro e gli chiese se aveva bisogno di una mano, che si vedeva che era affranto.
Lui, ubriaco di vino e tristezza, le urlò contro che gli serviva subito un medico, meglio, un assassino per uccidere l’amore inutile che portava dentro il petto. La vecchia donna lo trascinò fino alla sua tenda, lo fece entrare e sdraiare sul letto e poi gli diede da bere da una boccetta scura e lo invitò a rilassarsi e nel farlo gli cantò una canzone dalle parole incomprensibili.
Guadalupi si svegliò la mattina dopo, completamente sudato. Non ricordava nulla dei sogni di quella notte, ma aveva i polsi segnati, come se fosse stato legato con delle corde. Uscì dalla tenda e non trovò nessuno, il campo zingaro era partito in fretta e furia e i fuochi erano stati spenti con l’acqua. In tasca del giaccone ritrovò la boccetta scura, piena di liquido nerastro. Tornò a casa e dormì il resto della giornata, senza pensieri. Poi la mattina dopo andò in ufficio e gli amici lo videro strano e sereno, senza più lo sguardo perso davanti al vetro attraverso il quale parlava ai clienti. E la sera nessuno lo vide entrare alla trattoria della Florinda. Lui era andato diritto a casa, a guardare la televisione. E a rigirare tra le mani la boccetta scura. E quando gli amici lo andarono a cercare dopo giorni, stupiti di non vederlo più cantar le lodi della Florinda, oramai sciupata, lui mostrò loro la boccetta e spiegò che lì dentro stava il rimedio che gli aveva trasformato il cuore in una pietra. Liberandolo.
Con un amico chimico analizzò il contenuto: stramonio in parti uguali con aceto e limone. E allora pensò di trasformare la fortuna in un lavoro e cominciò a produrne di boccette scure e a prescriverle ai malati d’amore del paese, contando sul fatto che tutti sapevano che lui era guarito. E ora viveva benissimo, senza più lacrime.

Ora davanti aveva il suo caso più difficile, quello di Ersilia Santini, vedova inconsolabile che ogni notte tra le lenzuola di flanella del suo letto matrimoniale, faceva l’amore con Nando. Solo che lui, il marito, stava da 15 anni sotto un cumulo di terra, al cimitero di San Pancrazio, e lei, ancora bella e con gli occhi azzurri color cielo, provava tutti gli oggetti che aveva in casa e ne comperava di nascosto di nuovi, atti a riprodurre la sensazione che solo lui aveva saputo darle, e urlava nei suoi amplessi solitari il nome di lui e nel quartiere la gente non dormiva più a sentir le urla e poi i pianti di quella vedova, inconsolabile nel corpo e nel cervello.
E i cani nelle case dovevano star di notte tutti con la museruola, per evitare che si mettessero a rispondere coi loro ululati.
Ersilia aveva sentito il nome di Guadalupi dal maresciallo Salvi che era andato a casa a recapitarle il terzo esposto in due mesi per schiamazzi e rumori molesti. I vicini si erano stancati e avevano deciso di zittirla con le querele e il maresciallo, impietosito dalle scuse vergognose della donna, l’aveva invitata a cercar aiuto dall’eliminatore.
Solo lui poteva chetare le sue urla e le notti dei vicini.

Guadalupi la storia la conosceva e Ersilia gli faceva pena. Lui sapeva benissimo quanto poteva esser inconsolabile un amore che non era morto da solo e voleva, nonostante tutto, alimentarsi.
Gli stava simpatica quella donna, vogliosa di amore in ogni poro della pelle eppure così compita, così rannicchiata nelle sue spalle da sembrare una delle tante cinquantenni spente del paese.
Sì offrì con piacere di aiutarla e per tre volte preparò il medicamento, ma con lei non funzionava. Guadalupi non capiva il perché. Aveva funzionato con tutti, chi subito e chi con due trattamenti.
Al terzo tentativo fallito, nessuno era arrivato.

“Ha smesso almeno di piangere?”, chiese alla donna.

“Sì, il pianto non arriva più. Pare che ho finito le lacrime”.

“E questo è un buon segno”, disse Guadalupi.

“Ma allora perché penso sempre a Nando e lo cerco e lo voglio?”, disse la Ersilia.

“C’è qualcosa della vostra storia che io non so, signora? Sicura di avermi detto tutto del vostro matrimonio?”

“Sì, signor Guadalupi. Le ho detto tutto”.

“Non capisco. Guardi…le faccio avere una quarta preparazione e stavolta andiamo a due cucchiai al giorno. In caso di effetti collaterali, in primis giramenti di testa e sogni troppo nitidi, sospenda subito. E mi raccomando controlli il battito cardiaco ogni giorno, perché deve scendere. Metta una mano qui sul mio petto. Sente? E’ pietra! Così deve diventare”.

La signora Ersilia toccò con un dito il petto dell’eliminatore e sentì che la pelle era spessa come il marmo. Il cuore di Guadalupi era intrappolato dentro la gabbia durissima, non si sentiva nemmeno un battito.

“E’ vero”, disse lei abbassando gli occhi. “Ma a pensarci bene, c’è una cosa che non le ho detto. Pensavo fosse inutile, ma a questo punto non lo so più”.

“E allora mi dica, signora!”. Guadalupi era indispettito.

“La trasfusione di sangue, signore. Due anni dopo il matrimonio, in un incidente in auto, io fui ricoverata in ospedale. Ero molto grave, avevo perso molto sangue e Nando mi diede il suo sangue con delle trasfusioni. Andò sei volte in ospedale a donare il sangue per me, che i nostri gruppi erano compatibili. E me lo diceva sempre quando andavamo a passeggiare assieme: Nel tuo sangue, c’è il mio”.

Guadalupi sbiancò. Non gli pareva vero ma doveva esser quello il motivo. Era colpa del sangue se non funzionava il medicamento. Il passaggio da un amante all’altra aveva creato una barriera inaccessibile a qualsiasi pozione, perché l’amore di Nando adesso si riproduceva nel corpo di Ersilia, al ritmo quotidiano dei suoi globuli rossi.
La mandò via, con la quarta boccetta, e la raccomandazione di non superare mai i due cucchiai al giorno e di farsi legare al letto, per resistere ai sogni della notte. Guadalupi sapeva che avrebbe fallito ancora. Non poteva tollerarlo. Per preservare la sua onorata attività, e la credibilità di eliminatore, doveva fare solo una cosa.

Quattro giorni dopo il maresciallo Salvi ordinò ai suoi uomini di sfondare la porta di casa della signora Ersilia, che dalla sera dopo la visita da Guadalupi non aveva più aperto la porta di casa ai parenti e non urlava più. Salvi, preoccupato, aveva suonato più volte e poi, spazientito, aveva deciso che bisognava entrare in quella casa. Trovò la signora Ersilia stesa sul letto, le mani legate al parapetto di ottone. Sul comodino la boccetta scura, intatta. La pelle di lei era bianchissima. Il lenzuolo e la camicia da notte erano inzuppati di sangue essiccato. Secondo il medico legale, arrivato dal capoluogo, la donna era morta dissanguata.
Salvi, con la faccia stanca di chi con la morte proprio non riesce a giocarci a tressette, dopo sei ore passate tra puzza di sangue secco e cloroformio, andò a suonare alla porta dello studio di Guadalupi. Il maresciallo sperava di trovare aiuto per capire chi aveva fatto un simile scempio.
La segretaria gli disse che il signore non voleva ricevere visite ma il maresciallo insistesse al punto che andò da solo ad aprire la porta dello studio, senza attendere che lo annunciasse.
Trovò Guadalupi, con la camicia aperta, intento a tirare martellate contro uno scalpello che teneva puntato al centro dello sterno. Tirava colpi e bestemmiava Dio e tutti i santi perché non vedeva sangue.
O almeno così Salvi scrisse poi nel rapporto di aver sentito.
Guadalupi si fece portar via senza fare alcuna resistenza. E non disse mai più una parola.

La Cesira

“Gentile ragionier Montini,
la ringrazio per averci sottoposto la sua ultima invenzione ma devo comunicarle che la nostra azienda non la ritiene in linea col proprio core business. La ringrazio per l’attenzione che ci ha riservato.
Cordiali saluti”.

Ancora un diniego. Attilio Montini rilesse la mail di risposta dell’azienda milanese e poi premette senza indugio sul tasco cancella. Novanta mail a diverse aziende italiane per chiedere un appuntamento per presentare Cesira; niente, manco un vediamo; gli avevano risposto tutte no, non interessa.

La Cesira lo fissava dal fondo dello studio, lui lo sapeva che lei lo stava guardando da sotto il telo di cotone verde che la ricopriva. “E’ andata male anche stavolta”, le disse guardandola, ordinata e coperta, dietro al divano.
“Non interessi proprio a nessuno”.

Eppure il ragionier Montini aveva allegato assieme alla scheda tecnica della sua invenzione pure le testimonianze di quanti l’avevano provata. Novanta invii, novanta no. Eppure cinquanta persone si erano messe a disposizione in tre anni di prove e di aggiustamenti, di ritocchi e verniciature. E tutti, superata la prova, avevano detto: “Sì, è successo qualcosa, mi sento ricaricato”. E se ne erano andati via col sorriso dopo aver firmato la dichiarazione che la Cesira, eccome, se funzionava.
E c’era gente che arrivava da tutto il quartiere, con il passaparola nei bar, e chiedeva solo di vederla da lontano e si diceva voglioso di provare. Per carità c’era anche chi, tolto il telone verde, rispondeva: “Tutto qui?”. Erano quelli che andavano via delusi, subito.
Montini versò nel bicchiere che aveva davanti un altro goccio di whisky, comperato in offerta al supermercato. Pensava a loro, agli scettici, che la pensavano come tutti gli esaminatori o segretari particolari o amministratori delegati che ricevevano le sue mail di proposta di incontro e dopo aver letto la scheda della sua invenzione se ne uscivano con un “Embè, chi la vuole sta cosa?”.
Era l’anno delle televendite che facevano far soldi vendendo i macchinari per potenziare il cinismo, la cattiveria e l’individualismo.
Macchine che collegate al televisore facevano tutto loro. Bastava restare a guardare. Con un’ora di seduta al giorno nessuno aveva più paura di uscir di casa da solo e affrontare gli altri. Garanzia di tre anni, inclusa.
Si diventava bravissimi a fregarsene di tutto e tutti e se c’era la depressione, a far capolino nel weekend, si ovviava con l’ultimo ritrovato della ricerca. La Cocamela: melatonina in parti uguali di cocaina, che da cinque anni era stata dichiarata sostanza lecita. La vendevano direttamente i farmacisti. Solo che il prezzo lo facevano sempre loro.

Il mercato comanda, pensò Montini.
Ma al centro sociale del paese la Cesira era sulla bocca di tutti, Tutti ne parlavano benissimo e c’era chi, come il colonnello in pensione Carlo Rambaudi, quando sentiva quel nome, c’aveva un fremito che le assistenti dovevano star attente che il pacemaker non gli impazzisse di colpo, tanto era agitato. E si agitava pure la signora Canciani, che tutti lodavano per i suoi capelli bianchi sempre in piega. Eppure quando lei pensava alla Cesira, mentre con le amiche giocava a scala quaranta al tavolo 7 del centro sociale, si scompigliava tutta la capigliatura e pareva che era stata a correre nei campi e la pelle bianca, con le rughe dei suoi 70 anni pieni di dignitosa semplicità, diventava rossa come se avesse corso. Tanto.
Si agitava Gino il macellaio, che dopo l’incontro con la Cesira, aveva trovato il coraggio di chiedere alla signora Carli di ballare con lui.
Si agitavano tutti al centro sociale, tutti quei 50 che la Cesira l’avevano toccata e si erano detti: “Cosa ci sarà mai di male?”.
E poi tutti l’avevano scritto che dopo si erano sentiti bene, che avevano la corrente addosso, la voglia di fare, la nostalgia diventava sorriso e c’era solo una cosa, obbligatoria: provare, riprovare e provare ancora. L’avevano scritto tutti che la macchina del ragionier Montini funzionava.
Ma evidentemente a nessuna azienda interessava la commercializzazione su larga scala di una ricarica di cuori stanchi.

Montini scrisse qualcosa al computer, finì tutto di un fiato il bicchiere di whisky; ne aveva bevuto di meglio decisamente nella sua vita ma poco importava adesso.
Si alzò dalla seggiola e si spostò fino al divano. Si sedette con le gambe sulla seduta, la faccia verso la Cesira coperta. Con un solo gesto, tolse il telone verde.
Era del 1952 , nera. Ma sembrava appena uscita dalla fabbrica tanto era lucida, senza tracce di ruggine e con i freni a bacchetta ancora perfetti. Era montata su un carrellino che permetteva di far girare le ruote senza che il copertone toccasse terra. Erano libere, le ruote.
Una bici d’epoca trasformata in cyclette. Sotto la sella c’era un tubo di gomma collegato ad un cappellino da ciclista, di quelli con il frontino, senza scritte, tutto giallo.
Montini prese il berretto tra le mani e lo calcò sulla testa, attento a sistemare bene il tubo di gomma affinché scendesse lungo la schiena, senza che gli fosse di intralcio. Salì sulla bici, con un movimento sicuro. Appoggiò i piedi sui pedali che cominciarono a girare a vuoto, complice il sostegno del carrellino e pedalò al ritmo dei ricordi che si facevano strada dal cappellino al sellino.
Alla settima pedalata si sentì pronto, con un sorriso beffardo strinse forte con le mani le maniglie, alzò le natiche verso l’alto staccandosi dal sellino e sentì le gambe forti come mai. Abbassò la testa fino a toccare il manubrio e si lanciò in picchiata e nella pedalata, furibonda, si sentiva una forza dentro capace di far ballare il valzer a qualsiasi donna del quartiere. Ma lui aveva una sola strada, quella tra le gambe della Gina, la barista del centro sociale. La Cesira dava il ritmo giusto, il tubo faceva il suo lavoro.

Montini voleva solo lei, Gina. Se lo era detto tante volte e tante volte aveva lasciato perdere, che a 60 anni la vita è un passo lento su un marciapiede e non una corsa in discesa su una bici del 1952.
Ma aveva ragione suo padre, che alla Cesira ci aveva creduto prima di lui, prima che il mondo dimenticasse che l’amore è energia, che sopravvivere non è vivere, che il coraggio non si vende su un canale tv, che gli occhi bassi finisci con l’indossarli sempre.
Cinquanta volontari ci erano saliti e lui, Montini, aveva fatto il guardingo che la scienza prevede che mai ti lasci andare e tutto controlli e tutto valuti e invece quella volta, stanco di novanta no, e ubriaco di whisky sottomarca, pensò alle parole di suo padre, si mise a pedalare come un ossesso e ogni pedalata il cuore si gonfiava e il cervello chiedeva solo che alla fine della discesa la Gina le aprisse quelle gambe, così lui con la Cesira ci sarebbero finiti dentro finché c’era fiato.
E così fece, gonfiando cervello e calzoni, finché non si addormentò con la faccia sul manubrio e il sedere sul sellino, il cappellino sudato in testa e il tubo sbrindellato nella foga.

La mattina dopo a mezzogiorno si svegliò con il respiro affannoso. Passò davanti al computer rimasto acceso, toccò lo schermo che si illuminò, rilesse quel che aveva scritto la sera prima. Prese a spingere il carrellino coperto dal telone verde fino al garage attiguo alla cucina. Attaccò il carrello alla sua Punto. Guidò in silenzio.
Il caffè lo prese al centro sociale, davanti al sorriso della Gina. Ballarono finché non fece buio. Continuarono per altri 30 anni.

Ottanta lettere

Le aveva scritto 80 lettere d’amore, ognuna per ciascun giorno che seguì l’unica notte che lei comparve alla porta di casa sua e chiese di entrare.
Andò diritta verso la camera da letto e si stese sul lenzuolo, vestita, e gli disse che sentiva un dolore, strano, che non sapeva spiegare.
E allora lui si stese accanto a lei ed era così agitato per la sua presenza, lì vicino, che si mise a chiederle, con insistenza, dove era che sentiva male. E lei gli prese la mano e la appoggio alla pancia e gli spiegò che era proprio quello il punto in cui sentiva quel vuoto che voleva portar via tutto. Lui, agitato, pensò di fare l’unica cosa possibile. Tenne la mano bella larga a fermar quel vento che voleva venir fuori dalla pancia di lei. E ci rimase così fino al mattino, anche se la mano gli faceva male, la sentiva pesante e la circolazione rallentava. Anche se sentiva il suo respiro silenzioso e avrebbe preferito con quella mano accarezzarle i capelli biondi, per ore.

All’alba lei riaprì gli occhi e lo ringraziò con un bacio. Poi gli disse che il vuoto era scomparso, e con lui il vortice cattivo. Era fortunata di poter contare su qualcuno come lui, che la ascoltava in silenzio e le metteva la mano per fermare il dolore, quando serviva. Lui le disse che, se lei voleva, lo avrebbe fatto ancora.
Ma lei si alzò dal letto, andò in cucina a preparare il caffè e poi a lavarsi il viso nel bagno di casa mentre lui era ancora a letto a sfiorarsi le labbra calde per quel bacio inatteso e pure così sperato. Quando la moka brontolò sul fuoco, annunciando che il caffè era pronto, lei se ne era già andata senza un saluto, senza una parola.
Lui sentì il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva mentre si alzava dal letto per andare a spegnere il fuoco. Era rimasto da solo, con la mano indolenzita e un mal di stomaco che montava, dentro, come se avesse mangiato della spugna espansa. Lasciò il caffè dentro la moka a freddare e cominciò a scrivere su un tovagliolo di carta.
Le scrisse che quel bacio gli aveva aperto un buco nella pancia e che non sapeva adesso come riempirlo, quel vuoto, senza la sua mano appoggiata al suo addome. Le scrisse che quel bacio, inatteso eppure così sperato, gli aveva messo dentro una fame che nessuna pietanza poteva placare. Poi prese il tovagliolo di carta e lo infilò dentro la fotocopiatrice, per copiarlo sul cartoncino giallo che usava per scrivere ai clienti. Infilò il foglio in una busta e uscì sul pianerottolo di casa. L’appartamento di lei era giusto davanti al suo. Si erano incontrati per giorni e giorni solo al mattino, per uscire e andare al lavoro. E si erano detti per giorni solo Buongiorno, come va? Visto che pioggia che c’è?
Erano andati avanti così fino a quella sera, quando lei scelse di bussare alla sua porta e entrare. Da allora tutte le mattine, al risveglio, dopo averla sognata, lui le scriveva una lettera e la infilava sotto lo zerbino davanti alla sua porta. Poi rientrava e si preparava il caffè. Caldo, solo così aveva ragione d’essere.
Lui aveva costantemente quella fame addosso che nessun cibo riusciva a placare e solo scriverle lettere d’amore, in cui le raccontava le ore notturne passate a sognarla, i giochi, i baci e la sua vita prima di sfiorarla, quella notte, sembravano chetarlo un pochino.
Passarono ottanta giorni, ottanta lettere sotto lo zerbino, senza che lei mai una volta tornasse a bussare alla sua porta. O gli dicesse qualcosa, oltre al buongiorno mattutino, quando si incrociavano per le scale.
Era come se non fosse accaduto nulla, come se quella notte non ci fosse stata e come se non ci fossero state quelle lettere.
Arrabbiato, pensò che l’indifferenza era figlia solo di un impeto di fantasia, che l’amore era solo inventato.
Allora, in preda ai dolori per la fame e con lo spasmo dello stomaco che sembrava urlare come la bora, lui prese tutti gli ottanta tovaglioli di carta che aveva raccolto dentro una scatola da scarpe. Infilò il berretto in testa, indossò il giubbotto e uscì. E andò in quel ramo del canale vicino a casa, dove da piccolo suo padre non lo lasciava mai andare perché la gente del paese diceva che lì, sul fondo del canale, c’erano alghe così lunghe e così fitte, che arrivavano a misurare decine di metri e se ci cadevi dentro era impossibile uscirne vivo. Solo le anguille potevano sopravvivere.
E visto che era tutta una fantasia, lì avrebbe fatto morire la sua.
Prese la scatola da scarpe, tolse il coperchio e lanciò dentro l’acqua gli ottanta tovaglioli di carta e li guardò galleggiare per un pochino e poi, gonfi di acqua li vide scendere giù verso il fondo scuro. La rabbia lasciò il posto alla tristezza.
Lui se ne tornò a casa e se ne andò a letto, sentiva dolori ovunque e dormì fino a sera, nascondendo la testa sotto le coperte, perché quella casa gli sembrava così fredda, senza più parole d’amore.
Fuori fischiava la bora, fredda e vendicativa.
Il giorno dopo un pescatore che era andato a controllare la sua barca, per trainarla sulla riva del canale, lanciò l’allarme. In mezzo al canale era spuntato un albero, enorme e brutto. Le alghe si erano intrecciate una all’altra e le vesciche, dopo aver cercato invano uno spiraglio di luce, sotto la coltre di tovaglioli di carta sciolti dall’acqua, appena sotto la superficie, avevano puntato diritte al cielo per farsi strada per più di cinque metri, portandosi dietro le sorelle più piccole e verdi e quelle più vecchie e marroni e le parole dai tovaglioli avevano finito con il passare su ogni alga, come tatuaggi scuri.
Ora l’albero così strano e brutto a vedersi, si stagliava nel mezzo del canale e bloccava il passaggio a tutte le barche e c’era la processione di gente curiosa che voleva vedere. C’era chi passava tutto il pomeriggio a decifrare le parole, nere, che si mescolavano seguendo gli intrecci delle alghe marroni e verdi. E c’era chi diceva che se le leggende erano tali era perché c’è sempre un fondo di verità e anche se lì le anguille non erano mai arrivate, i Sargassi esistevano, pure in città.
Anche lui andò a vedere e riconobbe ogni sua parola, marchiata sulle alghe, e pensò che erano potenti come le anguille.
Rientrato a casa, gettò uno sguardo allo zerbino davanti alla porta di casa della vicina e notò il rigonfiamento. Sollevò il tappeto e ritrovò tutte le sue lettere. Ottanta, mai aperte, in mezzo alla polvere. Le raccolse da terra e le portò in casa e poi piano piano aprì ogni busta.
Erano tutte vuote.

Orecchie spente (una favoletta di dopodomani)

Aveva cominciato senza accorgersene. Era sceso dall’autobus che da Marghera lo aveva portato a piazzale Roma e aspettava il vaporetto per Rialto. Era una mattina di quelle che avresti sbagliato fermata apposta per andare al Lido a passeggiare. Che non era ancora caldo abbastanza per spogliarsi e andare in spiaggia, ma c’era il tepore giusto per camminare e godersi il sole. E in autobus prima e in vaporetto poi, Giovanni, aveva dovuto infilare le cuffiette a volume spento, per non sentire il cicaleccio degli altri viaggiatori che lo disturbava.
Parlavano di cose che non lo interessavano.
Discutevano dell’ultimo libro di cucina in vetta alle classifiche; del disco del nipote del premier che aveva vinto il festival delle voci giovani della nazione; del politico in mutande finito in copertina del giornale del partito di governo. Gli altri quotidiani erano falliti per le cause intentate contro di loro da questo o quel politico del partito unico di governo, quel grande patto di salvezza nazionale che aveva messo assieme i principali partiti ed era salito al potere per salvare l’Italia che era in emergenza. Nel 2020, otto anni dopo, pareva non fosse cambiato niente. Ma nelle librerie si trovavano solo libri di cucina, gli unici che vendevano migliaia di copie.
Se cercavi un romanzo, un libro di racconti, un classico della letteratura italiana e straniera dovevi andare alle biblioteche comunali, pagare una tassa di iscrizione di 50 euro l’anno e versare 5 euro a libro preso in prestito. Giovanni per studiare italiano, faceva così.
Andava alla biblioteca civica e si faceva prestare un libro. Cinque euro alla volta. E per leggere senza esser disturbato dai discorsi stanchi degli altri pendolari, infilava nelle orecchie le cuffiette dell’Ipod ma non lo accendeva. Gli bastava il gesto per procurarsi attorno alla testa quel giusto grado di silenzio che lo aiutava a leggere in santa pace. Giovanni era arrivato in Italia venti anni fa e per sostenere l’esame per il permesso di soggiorno di lunga durata, l’ennesima novità del governo, leggeva. Giovanni aveva sentito in tv che il prossimo anno avrebbero potuto far l’esame gli stranieri in Italia da ventuno anni ( ogni anno il governo alzava l’asticella del periodo minimo di residenza) e lui si sentiva oramai pronto ma leggeva sempre e di tutto e ovunque, nei bar come in vaporetto.
Quel giorno andò diversamente dal solito. Con le orecchie spente, non si era manco accorto che leggeva a voce alta. Glielo aveva insegnato suo nonno, che in Moldavia, a casa sua, ci era morto tre anni fa.

“Se non vuoi sentire e stare male, spegni le orecchie”, gli aveva detto una mattina che l’aveva trovato in camera a piangere mentre in cucina suo padre litigava con sua madre e volavano schiaffi come piatti affilati.
E così Giovanni che sapeva spegnere le orecchie, leggendo la “ trilogia della città di K” si era coinvolto così tanto che con tutto quel silenzio attorno e il sole che gli grattava la fronte dal vetro del vaporetto, si era messo a leggere a voce alta.
E si era accorto di quel che faceva e degli sguardi degli altri, che lo fissavano come se si fosse messo quel giorno le mutande in testa, solo quando alzò gli occhi dal libro e vide la tabella dell’imbarcadero di calle Vallaresso e non quella di Rialto.
Rosso in faccia, davanti a tutti quegli sguardi indagatori, si affrettò a scendere per non perder anche quella fermata e si sentì poi uno che camminava con le mutande in testa e si mise a sistemare i capelli, la giacca, il nodo della cravatta per non sentirsi strano.
E passava davanti alle vetrine e si guardava per capire cosa non andava.
Mentre camminava a passo svelto per tornare verso Rialto, oramai certo di arrivare in ritardo al negozio dove lavorava come commesso, un signore gli si affiancò e gli sorrise.
“Lei ha una bella voce, lo sa?”, gli disse l’uomo. Giovanni non ricambiò il sorriso ma alzò la testa di scatto come per dire che aveva capito.
“E’ tanto che non sentivo leggere. Che libro è quello?”, continuò a chiedergli il tipo.
Sarà un poliziotto, pensò Giovanni, e gli mostrò la copertina della “Trilogia”, che teneva sotto il braccio.

“Ho capito. Volevo solo dirle grazie che ha letto per noi”, disse il signore sfiorando la copertina del libro con un dito. “E’ tanto che non ne vedo uno”, si lasciò scappare poi. E se ne andò dalla parte opposta. Senza aggiungere altro.
Giovanni si era fermato a guardare lo sconosciuto che se ne andava di nuovo verso San Marco e pensò che viveva in un posto davvero strano se leggere un libro era diventata una azione così stupefacente. Per cosa è famosa la Moldavia? Forse solo per i lavoratori in nero. L’Italia invece la conoscono tutti, per Leonardo Da Vinci, Dante, l’architettura, l’arte, Baggio e Vasco Rossi. Un sacco di cose.
E questi non hanno detto una parola quando le librerie hanno smesso di vendere libri e si sono dimenticati delle biblioteche. Gente strana gli italiani, che si lamentano in un cicaleccio continuo di dolori, malcontenti e tristezze, ma gli va bene tutto.
Ecco, era cominciato così.
Spegnendo le orecchie e lasciando andar la voce al passo dell’occhio. Giovanni il giorno dopo era risalito sul bus e poi sul vaporetto, aveva indossato le cuffiette dell’Ipod, e aveva aperto il libro. E si era messo a leggere, a voce alta, nel suo silenzio.
E man mano che i giorni passavano, neanche gli serviva più spegnere le orecchie perché in vaporetto, si era accorto, quando saliva lui a piazzale Roma, tutti facevano silenzio e stavano a sentire quel che la sua bocca diceva. E il signore che l’aveva ringraziato quel giorno, gli teneva sempre il posto e gli toccava la spalla quando stavano per arrivare a Rialto. E lo sconosciuto e Giovanni, man mano che passavano i giorni, si salutavano con la mano, in salita e in discesa.
Così Giovanni non aveva più saltato una fermata. E ogni mattina alle 7.30 saliva sul vaporetto e leggeva la “Trilogia”.
Tre, quattro pagine a viaggio.
Solo la mattina in cui era alle ultime pagine, ne mancavano cinque, e lui voleva finire quel libro così strano, capire cosa succedeva, e la gente attorno a lui pure, tutti saltarono la fermata di Rialto e finirono diritti fino all’imbarcadero del Lido, a Santa Maria Elisabetta.
Giovanni prese fiato. Gli mancavano poche parole: “Il treno è una buona idea”.
In cento lo applaudirono mentre chiudeva il libro. Poi se ne andarono tutti assieme a passeggiare verso la spiaggia, che c’era finalmente il caldo giusto per andare a fare il bagno in mare. Da allora, non smisero più di leggere, assieme.