Ochenta cartas

E’ uscita oggi l’edizione spagnola di “Ottanta lettere”, tradotto da quella meraviglia di donna di Ana Pace, che mi ha sopportato, mi ha capito e tradotto, mi ha ospitato a casa e pure ha cantato a squarciagola con me in macchina.

Insomma siamo amiche.

Con lei, con Lele Rozza e tutti gli amici di http://www.blonk.it io sto saltellando di gioia.

Sul sito di http://www.blonk.it  trovate l’edizione in italiano e in spagnolo e tutte le indicazioni degli store che li vendono.

Bella

 

Se mi dicono che sono una puttana, un attimo me la prendo ma dura qualche minuto, il fastidio, e poi non ci penso più.

No, dai, mi manda in bestia quando intuisco che pensano quello ma che ci posso fare?

Le lettere che ho spedito ai parlamentari del centrosinistra, quelli che io voto da sempre, inviate con ricevuta di ritorno, per esser sicura che siano arrivate, nel tentativo di spiegare che servirebbe una legge per far in modo che il mio lavoro non venga sporcato dall’appellativo di prostituta, le ho tutte fotocopiate e archiviate dentro un quaderno arancione.

Ma ogni risposta alle mie missive mi ha fatto intuire che loro, gli onorevoli, pensano quello. Che sono una prostituta, anche se non lavoro sulla strada.

Tanti mi hanno risposto “Le faremo sapere”.

Uno mi ha anche telefonato, sornione e ridanciano.

“La aiuto io, posso venire in città il mese prossimo, che ne dice se ne parliamo nel mio hotel?”.

Insomma, ho capito subito che pensava che gli facevo il servizio pure a lui.  Magari gratis.

Ho messo giù senza neanche ringraziare.

 

Andare a spiegare che lavoro fai e che servirebbe una regolamentazione del lavoro che all’estero chiamano di assistente sessuale domiciliare, fa passare la voglia di chiedere qualcosa.

Pare che sei lì a dire che bisogna dare un nome a un pagamento che altrimenti risulta la solita cosa sporca,  ma che tutti cercano da secoli, e si affrettano a dire che è sporco pure quelli che ci vanno di solito ma in pubblico non lo direbbero mai perché non sta bene.

E invece i miei utenti,  tutti, se lo dicono, tra di loro, che questo mestiere esiste e serve come l’infermiera che viene una volta la settimana a vedere come stai, se serve la medicazione e a portarti gli ausili a casa.

Lo sanno anche i loro genitori e pure a loro va bene, perché quando passo io poi in casa c’è la pace e non ci sono baruffe e discussioni.

 

C’è la pace,  scompare la mortificazione del non poter esaudire tutti i bisogni fondamentali.

Sono andata a farmelo spiegare da una psicologa cosa sono questi bisogni fisiologici: mangiare, dormire, fare sesso, respirare.

Andate a vedervi la piramide di Maslow: il fondo è fatto anche di sesso, poi più su c’è il resto: la  sicurezza, l’affetto, l’intimità, l’autostima, la realizzazione, la creatività che è all’apice.

Il sesso è alla base della piramide e allora se una persona non può muovere le mani per farsi una sega o toccare una donna solo perché una donna in quella stanza con lui non ci starebbe mai perché lui sta su una sedia a rotelle e il mondo che gli sta attorno lo descrive impotente e lui invece dentro se lo dice tutti i giorni che la potenza ce l’ha ma resta ferma tra le gambe, inespressa, e se si esprime poi si deprime che non ha modi di esprimersi, che gli dici? Che deve abituarsi a stare senza bisogni fondamentali? Eppure mangia, dorme  e respira. Ma il sesso, no. Perché  stare vicino ad un handicappato richiede tanto amore, pazienza e pace interiore e ci vorrebbe una santa per sopportarli. E il sesso le sante di solito lo mettono da parte perché hanno altro a cui pensare. E allora, cosa fai?

Se sei disabile e non hai qualcuno che ti desidera anche così, che ci fai con quella potenza?

Alla prima occasione ti viene voglia di ucciderti.

Ma se sei uno di quelli che manco a far quello ce la fanno, ti resta la depressione.

 

Il sesso è una necessità per i miei pazienti.

Anche per non morire di vergogna.

Perché quando sbatti la testa contro il muro e l’unica cosa che vorresti è sentire caldo addosso e arrivi ad umiliarti per supplicare tuo padre di sfiorarti in mezzo alle gambe che non ce la fai più e a suon di urlare diventi bestia e tuo padre, che ti ama, pur di farti smettere di essere bestia lo fa, poi, quando tutto si calma, ti viene da avere la forza di muoverle quelle mani, quelle gambe, per sollevarti e andare a toglierti tutto lo sporco di dosso con la paglietta, quella che si usa  per lavare le stoviglie e vorresti esser capace di strofinarti all’infinito, finché lo sporco lascia posto al sangue.

Gli altri, quelli che camminano, che si possono mettere a proporsi ad una donna dalla posizione eretta,  che non hanno niente che non gli funziona in giro per il corpo, che si possono masturbare dove vogliono, storceranno il naso. Queste cose non si  fanno e se si fanno non si dicono.

Non è corretto. E’ immorale.

Se fossimo giusti dovremmo lasciarci liberi di decidere se restare o andarsene, per prima cosa, no? E invece stiamo in un posto dove suicidarsi è un peccato e pensare all’eutanasia, quando sei in un corpo privo di tutti i comandi, è un reato.

Viviamo in una società dove se sei fallato, non ti gasano più, per fortuna, ma ti riempiono la testa del  “questo non si fa”.

Figuriamoci parlare di sesso dei disabili, con i disabili, tra disabili.

E’ una mostruosità.

Potrebbero esserci persone che si approfittano di loro.

 

Io a chi mi fa certe domande, che si capisce che c’è quel sottofondo moralista da puzza sotto il naso, lo chiedo.

Ma te che faresti se non potessi mai più fare sesso, mai più toccare o essere toccato?

Impazzirei, è la risposta più frequente che ricevo.

Ecco, io, i miei clienti non li lascio impazzire.

Libero i loro genitori da squallide catene fatte di paura e vergogna, ci penso io a sporcarmi le mani. Sto ridendo mentre lo dico.

Che poi il sesso è bello proprio se è sporco. Lo spiego ai miei clienti che i loro umori, che all’inizio sono loro che lo dicono che quella cosa unta è lo sporco che hanno dentro, segno che si vergognano di star bene, in realtà è un pezzo di loro che ha bisogno di uscire e vagare, come l’acqua fresca che se la lasci scorrere  è buonissima da bere e se invece la tieni dentro la bottiglia al sole prima  o poi sa di stantio, di morto.

E allora io glielo spiego che se vogliono vivere, possono anche far uscire.

Sia chiaro, io un lavoro ce l’ho, faccio la commessa in un negozio, ho una divisa, giacca nera su gonna nera, calze nere, scarpe nere tacco quattro, estate e inverno.

Tengo i capelli raccolti, porto gli occhiali scuri che sembro una professoressa del mio vecchio liceo classico. Ho 50 anni. Lavoro dalle 9 alle 17. Poi chiudo e accendo il secondo cellulare, apro l’agendina e salgo in macchina e vado da Pietro o da Aldo, da Marisa o dal Gianni. Uso solo le mani e a loro va benissimo.

A volte, quando ho finito, non vado subito via. Ci sono genitori, fratelli, cugini che mi chiedono di restare, mi offrono il caffè o mi preparano la cena. Non si parla mai di quello che faccio, si parla della vita, della mia e della loro. Si parla delle cose di tutti i giorni, dei pannoloni e dei cateteri, dei soldi che non bastano e delle medicine che sono sempre troppe, dei film da vedere, della musica da ascoltare.

A volte torno a casa con i pacchettini pieni di dolci fatti in casa.

E me li mangio in silenzio, da sola, a casa.

Loro, a me, non darebbero mai della puttana.

 

Cronache dal rabbioso Nordest

 

 

 Sul Gazzettino di Treviso di oggi si parla di “Ottanta lettere” (Blonk editore)

 qui il testo:
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Sara De Vido
Il rabbioso Nordest
in cerca di riscatto

Domenica 18 Marzo 2012,
Emozioni digitali. Bit di storie sul Nordest «grasso e opulento» e pagine che scorrono con il tocco di un dito. La letteratura oggi si legge anche su ebook, il libro digitale che si può «aprire» sul proprio computer di casa, o con il proprio tablet. Mitia Chiarin, 42 anni, giornalista professionista, ha fatto delle storie che corrono sul filo del bit la sua passione. Da alcuni anni scrive online e nel suo blog, “Le storie di Mitia”, raccoglie impressioni e racconti. Sedici storie sono state pubblicate in “Ottanta lettere”, un ebook promosso dalla nuova casa editrice Blonk.it di Pavia.
      Sono racconti sul Nordest grasso e opulento fatto di persone alle prese con sogni, desideri e amori e svolte improvvise, e pure «qualche visione» come «la» bancomat che si innamora e regala soldi se vengono digitati al posto dei codici delle poesie. «Non c’è carta ma odore di bit nelle mie storie, – racconta la scrittrice, – e devo dire che l’editoria digitale, grazie all’opportunità che mi è stata concessa da Lele Rozza, direttore editoriale di Blonk.it, offre nuovi spazi di respiro a chi vuole raccontare storie».
      Uno dei racconti, “Cinque rose”, ha preso ispirazione dalla Marca: «Racconta l’incontro tra il capo dei vigili di un comune del trevigiano e un ragazzino di dodici anni, un piccolo venditore di rose, – spiega Mitia. -Il comandante, mentre è al bar, libero dal servizio, si accorge di un ragazzino e delle cinque rose che tiene in mano. Inizia così ad interrogarsi sulla sua vita, sui suoi amori, sull’incapacità di dare concreto aiuto ad un ragazzino straniero che si ritrova in strada, di notte, a lavorare, in un paese, dove, cito, «nessuno si offende manco il segretario della sezione della Lega Nord che ogni due per tre (….) mi manda gli esposti contro i bar dei cinesi e i kebab da asporto che sono covi di malandroni e portano malattie e viene lo scagotto a tutti».
      Perché “Ottanta lettere”?
      «È il titolo di uno dei racconti, forse uno dei più criptici, la storia di ottanta lettere d’amore scritte da un uomo alla sua vicina di casa e infilate sotto lo zerbino della porta di lei. Il racconto di un amore che forse è un incubo, per come si evolve, forse solo un sogno. È il lettore a decidere che senso dargli».
      Che Nordest emerge dai suoi racconti?
      «C’è la provincia grassa, quella che si è costruita da sola, ma che oggi è piena di mancanze. I miei personaggi sono persone che per un motivo o per un altro cercano una riscossa, hanno la rabbia dentro (la “carogna” è uno dei racconti) che amano fino a mangiare e uccidere la compagna, di bambini che hanno la trasparenza dentro e faticano a vivere nel mondo degli adulti, che guardano il mondo con occhi stanchi ma all’improvviso illuminati, e vedono «la gente scema» (altro titolo), di immigrati che diventano la speranza di un ritorno alla voglia di cultura. Personaggi inventati ma che nascono dalle sensazioni che ho quando passeggio o lavoro o parlo con le persone o ne ascolto i dialoghi».
      Verrà a presentare il libro a Treviso?
      «Se qualcuno ci invita, siamo ben lieti di venire».

la versione in pdf

La discarica

Nella terra del pessimismo i desideri  finirono tutti nella discarica, ai margini della città. Non c’era più tempo di desiderare, di creare, di pensare a soluzioni possibili  e diverse. Il comitato nazionale di difesa della patria, prima aveva chiuso i confini, poi per tutelarsi dalla recessione, il comitato aveva deciso di mettere al bando i desideri e di concentrare tutte le attenzioni della nazione su un sano concetto di pessimismo.

Poteva solo peggiorare, erano i mercati e le borse a dirlo e la politica lanciava messaggi precisi.

“Pensa a lavorare, che altro non hai”.

“La patria, prima della famiglia ”.

“Il lavoro nobilita se ce l’hai”.

 

E così in ogni comune le aziende municipalizzate avevano aperto speciali sportelli per la raccolta dei desideri della gente, che si mise in fila, senza manco un dubbio, perché tanto il pessimismo toglieva anche la capacità di chiedersi se quello che stavano facendo era giusto oppure no.

Arrivavano tutti con il loro sacchetto dell’immondizia nero, pieno di desideri da buttare. Fogli di carta con appunti, lettere, libri, quadri, piccole invenzioni in attesa di un realizzatore, cuoricini di stoffa, fotografie di uomini e donne o di paesaggi irraggiungibili.

Dove volevi andare se non c’erano soldi neanche per uscire di casa?

Tutti in fila con il sacchetto nero, sotto il braccio, per consegnarlo all’addetto della municipalizzata incaricato della raccolta. In cambio ricevettero tutti un foglio con numero di matricola ,  con sù scritto nome  e cognome, indirizzo, professione e tipologia del rifiuto buttato.

Una prova, in caso di controllo da parte dei vigili, che erano  cittadini per bene, che avevano partecipato alle iniziative del comitato nazionale di difesa della patria, in nome del pessimismo.

Avevano anche creato una trasmissione televisiva, per dare slancio al fervore del conferimento,  per mostrare la brava gente che si liberava dei desideri, e ogni ricevuta poteva essere estratta per vincere un anno di spesa in una grande lotteria finale.

 

Tutti  i sacchi  raccolti finivano nel camion e venivano portati alla discarica, una per ogni città. A Venezia  la discarica l’avevano posizionata a Marghera nei terreni  di una vecchia fabbrica, troppo inquinati per essere bonificati e consentire nuove costruzioni.

Ai bordi della laguna, la grande discarica di sacchi neri in poche settimane prese forma. Un grande cumulo di plastiche nere che al sole cominciavano a perdere  colore e pure a rompersi, facendo uscire il contenuto.

 

Per primi arrivarono i gabbiani, abituati come erano a cercare cibo in mezzo alle immondizie.

Ma in quei sacchetti non c’era cibo; solo carte, stoffe, fogli, foto che al sole si schiarivano, dentro i sacchetti rotti dai becchi avidi.

Poi arrivarono i topi che la carta l’hanno sempre amata ma solo come assaggio senza mai distruggerla completamente. E si misero a mangiucchiare i bordi per assaggiarne la consistenza, e attraverso l’assaggio qualcuno pensò che il desiderio passava  passava ma non gli credette nessuno visto che i topi erano notoriamente produttivi sul piano della fertilità e allora non si fece caso alla anomala proliferazione di sorci in tutta la grande nazione depressa.

E dopo i topi, arrivarono i rom che avevano sentito parlare della discarica dei desideri buttati via,  per volere nazionale, e visto che loro con il ferro oramai non ci facevano più soldi, che le fabbriche erano state chiuse e il rame lo portavano via gli slavi, ben organizzati, con i camion e le armi,  e partivano in carovane per rivenderlo all’estero, e arrivavano sempre per primi, loro, gli zingari, pensarono che potevano far soldi coi desideri recuperati, spolverati, sistemati, e rivenduti.

E dopo i rom arrivarono gli africani che di desideri non  avevano mai smesso di vivere, anche se erano oramai le terze generazioni, nate tutte in questo paese malandato. Loro, la cittadinanza non l’avevano ancora avuta perché nessun partito li aveva sostenuti non sapendo con certezza per chi avrebbero votato.

Per ogni figlio di stranieri nato nella nazione ci volevano minimo venti anni di attesa, anche se eri nato dentro i confini  e bisognava sostenere un esame così difficile che se andavi alla Bocconi a chiedere di diventare professore senza laurea sicuramente facevi prima.

Loro gli africani all’andazzo si erano abituati, pativano il freddo tanto quanto i tristi, così chiamavano gli italiani di pelle bianca.

Ma loro, i neri,  come li chiamavano i tristi, avevano dentro sempre la fame.

Il governo con un decreto, anni prima, decise  che gli africani dovevano vivere tutti in periferia, a metà strada tra la campagna in cui avevano confinato i palazzi dei rom, costretti  dentro case di mattoni, tutte anonime che li avevano depressi perché a loro serviva il cielo come tetto e nessuno lo poteva sopportare quel grigio e le città dei tristi, tutte illuminate e coi negozi vuoti.

La discarica  a Venezia stava proprio tra le case depresse degli zingari e quelle affamate degli africani.

Da qualche tempo, senza che nessuno se ne accorgesse, rom e africani avevano cominciato a parlarsi, e si dicevano che era difficile per loro stare in città così silenziose come quelle che erano diventate in quel paese della paura. E siccome c’era solo un canale televisivo, quello del comitato nazionale, e solo da lì si avevano le informazioni e non facevano che parlare della crisi mondiale e dei delinquenti rom o africani che commettevano reati, in città nessuno più parlava o dava lavoro o si sedeva tranquillo vicino ad un africano o ad una donna con la gonnellona colorata, anche se questi  erano indaffarati a studiare sui libri per sostenere l’esame che non passava nessuno.

Anche a Venezia non si parlava, ci si guardava di sottecchi, si passava  oltre facendo finta di niente se loro, gli stranieri, avevano bisogno di aiuto. Per reazione al silenzio, rom e africani, invece, avevano superato la diffidenza, avevano cominciato ad aiutarsi e visto che il lavoro per loro mancava si erano messi a darsi una mano. E da lì, dai dialoghi, era venuto fuori che la discarica era una opportunità. Sì.

Recuperare, pulire e rivendere desideri al mercato nero.

Recuperavano e rivendevano sogni, desideri, progetti, speranze.

Organizzavano anche aste clandestine dove giravano ogni giorno  le poche migliaia di euro in contanti rimasti ai tristi.

 

Non si usarono cellulari e computer, facilmente rintracciabili dai servizi di controllo che vietavano il recupero di quello che era stato buttato.

Rom e africani tornarono al passato, al passaparola, sussurrato di bocca in bocca nei bar della città.

E si trovarono presto, col passare dei mesi, una fila di clienti vogliosi di riavere se non il loro desiderio almeno quello di un altro, purché sia un sogno, un qualcosa  a cui pensare nei momenti duri come una opportunità, una soluzione, una via di fuga.

Quelli che avevano fatto la fila per volere del governo si ritrovarono tutti a  farne un’altra, stavolta nella periferia scura,  per ricomprarsi sogni buttati e da nascondere sotto il materasso al posto dei soldi che erano finiti. Rom e africani divennero così i veri padroni della città e la discarica cominciò a svuotarsi, lentamente. Da loro tutti i tristi finirono con il passare.

Quando il governo scoprì l’inganno e organizzò la repressione, decidendo che sarebbero state bruciate tutte le immondizie delle discariche in giro per il paese, i rom e gli africani chiusero le aste, fecero sparire dai retrobottega dei bar i loro punti vendita e si chiusero nelle case tra campagna e periferia.

Una mattina mentre gli elicotteri lanciavano le bombe sopra le discariche, a Venezia si formò una  lunga fila di persone che lasciarono la città e marciarono verso la periferia e poi verso la campagna e poi andarono diritti verso la colonna di fumo della discarica.

Erano i tristi che camminavano, con trolley e valigie e zaini, con le macchine piene di materassi verso la discarica. Erano migliaia, erano silenziosi. Uomini e donne e bambini in marcia, chi in bicicletta, chi in moto.  Quando passarono davanti alle case degli africani e poi davanti ai condomini dei rom, loro, gli stranieri,  urlarono dalle finestre verso quella gente, li invitarono a fermarsi e tornare indietro, che là in fondo era tutto fumo e tiravano le bombe e c’era un sacco di fuoco.

Ma loro, i tristi, andarono avanti fino ai cancelli roventi della discarica, riuscirono ad aprirli, e si misero a camminare tra topi e gabbiani, in mezzo alla terra incandescente.

Avevano tutti  fame.

Di loro non parlò nessuno.

 

Istantanea 56

Sono marmellata
sono buona
sono senza zuccheri aggiunti
solo frutta.
Frutta di me.
Pensando a te, sono diventata marmellata, dopo tanto bollire.
E ho voglia di uscire dal vasetto e salirti su per le labbra.
Ti lascio anche giocare con i diti, che mi piace se fai l’occhio birbo e giochi.
Ti salgo sulle labbra, mi ci appoggio.
Voglio godermi la faccia che fai, birba, mentre mi assaggi.
Godere è anche vedere
Godere è anche sentire
Sono marmellata
buona
solo frutta.
Frutta di me.
Niente zuccheri aggiunti.
L’artificiale non esiste quando una marmellata, che l’hai fatta tu, inconsapevole, ti guarda.

 

 

(questo arriva da un tumblr dove scrivo di getto e oggi l’ho riletto e ho pensato che sta bene qua)

Polveri sottili

 

Si guardarono attraverso i vetri dei finestrini delle loro macchine, ferme, affiancate, in mezzo alla lunga coda.

Lei teneva le mani ben salde sul volante mentre il marito le ricordava che sarebbero arrivati tardi all’appuntamento in Croazia con la proprietaria dell’appartamento che li aspettava per consegnare le chiavi dell’appartamento preso in affitto per le vacanze. Era la sesta volta che lo ripeteva e lei cominciava a spazientirsi. Anche perché se non erano usciti dalla tangenziale per evitare la coda, la colpa era tutta di suo marito.

Lui aveva girato la faccia, stanco e infastidito, verso il finestrino, per non sentire l’alito del collega che era andato a prenderlo e aveva pensato bene di sbagliare strada e adesso malediceva silenziosamente le code in quella tangenziale che era un carnaio e si stava fermi, sempre, che se almeno si correva poteva aprire un attimo il finestrino e far entrare aria di ricambio in quell’abitacolo ammuffito di Punto. Nera.

Lui alzò gli occhi dopo aver fissato lo pneumatico della macchina a fianco. Era liscio.

Lei sbuffò contro il marito e girò la faccia verso il finestrino, per cercare conforto nell’orizzonte. Se lo vedeva.

Si guardarono, attraverso i vetri, e rimasero a fissarsi per cinque minuti buoni.

Tanto non si muoveva nessuno.

Poi lui sorrise, lei sorrise.

Quattro occhi, due bocche, due nasi, quattro mani, quattro piedi si unirono quel giorno sull’asfalto rovente  della tangenziale di Mestre.

Adesso mica è statisticamente facile pensare che l’amore possa sbocciare lungo l’asfalto grigio della tangenziale di Mestre, quella che in ogni messaggio radio sulle condizioni di traffico veniva indicata, fino a qualche anno fa,  come il valico degli ingorghi, con un minimo di dieci ed un massimo indefinito di chilometri di auto e camion e camper, incolonnati verso le località del mare e della montagna. Ogni estate. Dal 1972 a qualche anno fa.

Un posto che tutti temevano, il valico di Mestre, una montagna di auto a passo d’uomo che per percorrerla, dal casello di Villabona fino al cubo, l’orribile edificio di tubi innocenti, messo da qualche mano improvvida sopra la struttura del bar della stazione di servizio, prima dell’uscita per l’aeroporto e l’autostrada per Treviso e Belluno, ci volevano 17 chilometri e 700 metri e se andavi a piedi facevi prima.

E tutti stavano dentro gli abitacoli surriscaldati. 150 mila pezzi di lamiera di ferro ogni giorno, fermi, a far bollire la frizione andando di prima e seconda e stop, col caldo e il tempo che non passa mai e chi vuoi che abbia voglia di guardare fuori, quel che facevano gli altri quando sei incastrato in due corsie, in colonna, col caldo, con l’odore del tubo di scappamento del camion davanti e poi la immobilità diventa spavento che avanti di questo passo quando si arriva?

Ecco come fai a pensare che in una situazione simile nasca un amore? Non lo pensi.

Lei, anni dopo, diceva che era stata una questione di Karma.

Lui, anni dopo, agli amici ripeteva che il destino esiste.

La bionda turista tedesca e l’operaio della campagna padovana, lei stanca del marito insofferente e lui del collega con l’alito cattivo, quel giorno si guardarono e si amarono tanto.

E la cosa mica si esaurì lì, in quella strada inquinata, rumorosa, calda.

Perché a volte l’amore te lo porti dietro anche se dura un niente e diventa, in assenza del quotidiano, un pensiero salvavita.

L’amore, quel giorno, nell’asfalto, aveva gli occhi dolci di una signora tedesca, col ciuffo biondo che le cade sul viso e sembra disegnarle un punto di domanda sopra il naso e lei di punti di domanda nella sua vita ne aveva, oramai, ben pochi perché aveva un lavoro, una famiglia, un marito, una casa presa in affitto in Croazia e il corso da subacqueo da fare per prendere il brevetto.

E aveva le labbra rosee di un operaio padovano che in Germania non c’era mai stato e mai andò ma amava tanto uscire con la barca per andare a pescare in laguna e conosceva tutte le secche, quelle che se non stai attento ti ci impantani con la barca, ma se ci vai con una bella donna torna utile, la secca, in laguna, col sole che cala e i gabbiani che passano a vedere che succede.

 

Le due auto procedettero, passo passo, distanziandosi e riprendendosi, lungo le due corsie e si vedeva  in fondo la sagoma del cubo. E l’operaio e la bionda, si scambiavano sorrisi e sguardi e ad ogni avanzata, prima e seconda e stop, si cercavano.

E lei pensava che per un uomo con una bocca così avrebbe rinunciato a qualsiasi brevetto.

E lui pensava che quel punto di domanda di capelli biondi andava sciolto, con un soffio.

Poi la macchina della bionda mise la freccia per spostarsi sulla sinistra e procedere verso il confine e la Croazia, che c’era quella signora che li attendeva con le chiavi dell’appartamento.

La macchina degli operai lasciò loro il passo tanto dovevano buttarsi sulla destra per prendere la bretella, sperando di non arrivare troppo tardi in fabbrica che mancavano oramai pochi minuti all’inizio del turno e loro erano ancora lì, nell’ingorgo e non a timbrare il cartellino.

Lei guardò dallo specchietto retrovisore, lo spostò per vedere gli occhi di lui che  nella macchina dietro e poi a fianco per l’ultimo metro, girò la testa per seguire la sagoma della macchina di lei finché poteva.

Lei sistemò il ciuffo biondo e pensò che anche se tutto è fermo, qualcosa si stava muovendo.

Lei si toccò le labbra,  con un dito e si disse che aveva bisogno di laguna.

 

Si persero, come le polveri sottili.

Si pensarono tutti i giorni.

Si amarono finché ebbero ricordi.

 

 

Come va?

(se clicchi sull'immagine vai al sito di Blonk.it)

“Ottanta lettere”  continua a girare. Sui kindle, sugli Ipad, sui computer di amici e conoscenti.

Cosa ne pensate? Se volete potete lasciare i vostri commenti anche qui, su questo blog, oppure su Anoobi per esempio, se  vi va.

A me andrebbe di sapere cosa vi passa per la testa dopo aver letto.

Intanto altri libri si sono uniti al gruppo di Blonk.it e per “Ottanta lettere” ci saranno alcune novità che vi dirò, qui, a tempo debito. E ci sono dei ringraziamenti da fare: a  Lele Rozza e al gruppo di Blonk.it che mi hanno accolto come in famiglia. A Sba  che è l’artefice di questo blog. Agli amici disadattati che mi stanno vicino, non faccio l’elenco ma loro sanno. Ad Arturo che c’è ed è una roccia. A Franco che tiene alto il mio morale e il tasso di caffeina. A S. che gli voglio un bene mondo.

A mia sorella e anche lei sa.

Insomma,  si va. Avanti, sempre.

Ps: sto scrivendo. Vedremo che esce. 🙂

 

 

 

Il nostro regalo di Natale

copertina Amalia Muniega

Io e Thunalab abbiamo deciso di fare a tutti un regalino. Io nel 2009 per il “Post sotto l’albero” del sir Squonk avevo scritto l’Amalia Muniega. Poi mi è venuto di chiedere a Thunalab se aveva voglia di immaginarla e raccontarla con un disegno, l’Amalia. E’ venuta fuori questa storia disegnata, di cui tutti e due andiamo fierissimi. Ce la siamo coccolata un pochino, poi abbiamo deciso di farne un ebook che vi regaliamo da oggi.
Lo trovate qui:

http://www.thunalab.it/ebook/AmaliaMuniega.pdf

E’ il nostro regalo di Natale, dedicato a tutti quelli che sanno parlare coi treni.

Il nostro regalo di Natale – un ebook

 

Io e Thunalab abbiamo deciso di fare a tutti un regalino. Io nel 2009 per il “Post sotto l’albero” del sir Squonk avevo scritto l’Amalia Muniega. Poi mi è venuto di chiedere a Thunalab se aveva voglia di immaginarla e raccontarla con un disegno, l’Amalia. E’ venuta fuori questa storia disegnata, di cui tutti e due andiamo fierissimi. Ce la siamo coccolata un pochino, poi abbiamo deciso di farne un ebook che vi regaliamo da oggi.
Lo trovate qui:

http://www.thunalab.it/ebook/AmaliaMuniega.pdf

E’ il nostro regalo di Natale, dedicato a tutti quelli che sanno parlare coi treni.

Lontano

Questo racconto l’ho scritto per Setteperuno.it. Lo hanno pubblicato ad agosto e voglio riproporlo qui, in occasione della giornata contro la violenza sulle donne.
Non mi piacciono molto queste ricorrenze, davanti alla violenza l’impegno deve essere quotidiano, non basta un giorno per lavarsi la coscienza. E davanti alla violenza, specie sulle donne e le persone più indifese, non è possibile tacere.
Nella mia città, Mestre, mesi fa è accaduto un fatto: una prostituta nigeriana è stata uccisa e non si sa ancora chi è stato. La polizia ha diffuso la foto di un furgone, quello dell’assassino probabilmente, e si cerca aiuto tra i cittadini.
Se ne parla in questo articolo, che metto qui, prima del testo di “Lontano”, perché se qualcuno ha visto, è bene che parli. E chiami il 113.

Io “Lontano” l’ho scritto pensando a quella ragazza.

Atto Primo

Corpo che cade, tonfo, come di sacco pieno di ossa sparpagliate. Non so più dove stanno le mie ossa, vedo buio. Il dolore è silenziosa e lunga stanchezza. Il sangue mi esce dalla testa, lo sento il cranio che pulsa, nella caduta il cuore ha volato in alto, fin dentro il cervello e occupa adesso tutto il cranio, che batte e il dolore è lenta e lunga stanchezza che pulsa.
Ho voglia di dormire, tengo gli occhi chiusi che il sangue non voglio vederlo ma la mia mente me le rimanda le immagini di quel che è successo. Sembra un film visto alla tv.
Il mio corpo, sollevato dal letto e caricato in auto; mani forti che mi prendono per le caviglie e i polsi. Io che non reagisco, mi basta non sentir più male. Io che fingo di dormire dopo lo svenimento. Corpo morto, pesante. Mi sollevano quelle mani e all’improvviso l’urto. Sento la schiena che sbatte, credo, contro un mobile, lo spigolo mi penetra nel costato.
Accenno un soffio di dolore, che ho paura di urlare mentre fingo di dormire. Capiranno, penso, che non ne posso più e mi lasceranno perdere.
Voce non ne ho più e mi esce solo quel sibilo. Patetico.
Quelli, che non so più quanti sono, manco se ne accorgono.
Non sentono, come non sentivano prima. E mi stringono polsi e caviglie con più forza e procedono, giù di corsa per le scale. Non l’ho sentito il rumore della porta che si è aperta, giù all’ingresso. Ma ho captato il rumore delle portiere dell’auto aperte col telecomando e il mio corpo scaricato sul sedile posteriore, come sacco vuoto, senza peso perché senza ossa. E dormo mentre sento il rumore del motore che si mette in moto e delle marce inserite con la velocità che aumenta. Hanno fretta evidentemente. Loro di liberarsi di me, io di restare da sola. Le ruote della macchina in curva stridono. Passano cinque minuti o forse dieci, non lo so. Poi la macchina rallenta, il motore non si spegne ma l’auto rallenta, la freccia resta inserita. La macchina accosta; manco ci penso a scendere da sola. Sento la portiera che si apre, i miei piedi che scivolano portandosi dietro tutto il vuoto del mio corpo, tirati da più mani, sento le pressioni differenti ma non ne sono certa. E poi la mia testa perde il contatto con il sedile e rimane un attimo come sospesa nel vuoto e dopo sento il colpo di corpo che cade e ossa sparpagliate, la testa che pulsa, il cuore che salta in alto e scalza via il cervello e il sangue mi cola negli occhi, caldo. E io li chiudo forte, gli occhi. E mi lascio andare al dolore che stanotte sembra non esserci pace per me e trattengo il fiato e il dolore è silenziosa e lenta stanchezza. Lo sento il freddo del marciapiede e la pelle che si incolla all’asfalto che la gratta. Subito la macchina riparte, prima e seconda e terza, inserite di fretta, e , dopo poco, la ruota che sgomma laggiù in curva. Ora sono sola.

Atto secondo

Mi è sempre piaciuto parlare poco e ascoltare. Adoravo il silenzio anche quando stavo a Benin City e mia madre mi diceva che dovevo al più presto partire, andarmene lontano, via da quella merda.
E io mi immaginavo quel lontano come un posto senza odio, dove potevo ballare senza paura e dormire con le finestre aperte, e non aver mai il pensiero dei soldi che non c’erano. Un posto dove diventare ricchi in fretta, dove non c’erano riti e tribù ma palazzi moderni e dignità. Dove non rischiavi ogni sera, tornando a casa da sola, di ritrovarti addosso mani ignote.
Io lo sentivo che in quel posto, lontano, dove mia madre voleva andassi, non sarei mai diventata come il vecchio elefante che avevo visto da bambina mangiare l’immondizia ai bordi del villaggio di nonno. Una volta sola l’ho visto, il vecchio elefante, ma mi è bastata. Mi ha messo addosso la tristezza della morte che attende il suo turno.
Troppo presto ho smesso di giocare con le bottigliette vuote di Coca cola e ho iniziato a lavorare con mamma alla stireria. Non c’era più tempo, manco di andare a cercare gli elefanti, anche quelli vecchi e rugosi che mangiavano l’immondizia, anche se si vedeva che non gli piaceva mica.
E quando mamma mi ha fatto salire sull’aereo, con il passaporto trattenuto dall’elastico delle mutande e la valigia con dentro tutti i miei vestiti, quelli cuciti da lei, mi ha detto che lontano avrei avuto una possibilità e che lei aveva pagato affinché io avessi un lavoro e vivessi serena. E davanti alle possibilità non si resta mai in dubbio. Si va.
I soldi messi via in tanti anni di maglie e mutande stirate li ha usati per il biglietto dell’aereo e il lavoro da cameriera per me in Italia, un posto che ho dovuto cercarlo su internet perché mica sapevo dove stava.
Mamma mi ha detto che dovevo pensarla tutte le mattine e non sprecare soldi per telefonare ma un giorno, quando sarei diventata ricca, dovevo spedire a casa il segno che ero ancora viva. Meglio se in dollari che si cambiano in fretta. Io ho annuito, attenta, e sull’aereo ricordo che ho dormito tanto, rilassata perché stavo per andare lontano.
E quindici ore sono passate in un continuo dormiveglia, un occhio chiuso e l’altro no, con la mano a proteggere il passaporto tenuto dall’elastico delle mutande e a guardare ogni tanto fuori e provare a fare il gioco delle forme con le nuvole, solo che ho visto tantissime capanne e manco un elefante. Poi sono arrivata a Roma e ho aspettato due ore fuori dall’aeroporto che venissero a prendermi e c’era tanto traffico di gente e di macchine che non era diverso da casa mia, solo che le macchine erano diverse, moderne, e c’erano un sacco di persone con la pelle bianca. Le donne facevano finta di non vedermi e ho pensato che potevano passarmi attraverso. Gli uomini mi sorridevano e si davano di gomito uno con l’altro, passandomi a fianco. Mi pareva di esser senza le mutande e io con la mano controllavo sempre che il passaporto stesse fermo sotto la pressione dell’elastico.
Poi è arrivata quella donna, che mi ha chiamato col nome che usava mamma e mi ha fissato a lungo prima di dirmi di darle il passaporto e di seguirla che mi avrebbe portato a lavorare. E io da quel giorno non ho più visto il passaporto e ho cominciato a togliermi le mutande.

Atto terzo

Ci sono sere che fa così caldo d’estate che l’asfalto della strada toglie il respiro anche a mezzanotte e io non le metto le mutande. Non mi chiamano più neanche con il nome che usava mamma.
Adesso uso nomi diversi, quando arriva il controllo dei carabinieri io me ne invento uno al momento, tanto i documenti non li ho. Dico che ho trent’anni ma ne ho fatti 23 pochi mesi fa.
Quando si fermano i signori, con la macchina, dopo esser passati due volte per la strada per guardarmi bene, io di solito gli dico che mi chiamo Joy, Gioia. Che ci sia di gioioso in me mica lo so dire…
Ma è il nome di mia sorella più piccola, che è rimasta in Nigeria con mamma, nella stireria. Io spero che a lei vada meglio; sono sicura che mamma pensa di mandare lontano anche lei. Ma il lontano che pensavo io non è quello che pensavamo noi, a casa, a Benin City.
Trenta di bocca, cinquanta in figa. C’è la concorrenza delle moldave e bisogna abbassare i prezzi per restare attraenti. Se non guadagno, la signora mi tiene senza mangiare e mi chiude in camera.
E poi arriva Paulo, il suo amico, a riempirmi di botte. Io pensavo che lontano, qui dove sto, su un marciapiede della Pontebbana, provincia di Treviso, stavo meglio che a casa mia e invece la signora mi insulta perché è ancora questione di tribù e di soldi, come in Nigeria. Mi picchia Paulo e mi picchiano anche i clienti.
Io pratico il silenzio come forma di difesa. Sto zitta. Ma imparo, ascolto tutto. Ho trovato una sera mentre mangiavo un kebab prima di cominciare a lavorare un libro tutto stropicciato buttato in un cestino dell’immondizia. Si intitola “La mia Africa” e l’ha scritto una signora danese ( un altro posto che ho dovuto chiedere per capire dove era) che si chiama Karen. Mi hanno detto che parla dell’Africa e voglio leggerlo.
Una sera al controllo dei carabinieri, gli ho detto al maresciallo che mi chiamavo così, Karen. E lui ha riso forte. Che stronzo.
“Eh certo e adesso mi dici che sei pure alta e bionda, eh?”. E io ho annuito, che mi hanno detto alla casa che ai carabinieri bisogna sempre dire di sì. E lui mi ha dato uno schiaffo.
“Sei più nera della notte, troia”. Quella parola io lo so cosa vuol dire, è una delle prime che ho imparato in Italia. Adesso ne voglio imparare altre, più gentili, leggendo questo libro. Almeno passo bene il tempo libero nella casa quando non riesco a dormire. Mi capita di restare ore ad occhi aperti di pomeriggio, quando mi butto sul letto per dormire che poi la sera dalle 22 sono a lavorare. Ma non ci riesco.
Non dormo perché ho paura di sognare il vecchio elefante in mezzo all’immondizia. Se sogno, lui viene sempre a trovarmi. Mi viene a trovare da quando sto qui, nella provincia di Treviso. Smette di mangiare in mezzo alla sporcizia, mi guarda, solleva lentamente la proboscide e con quella si toglie un occhio, lo strappa via, e me lo mette tra le mani e io, nel sogno, lo metto al posto del mio occhio sinistro. Poi mi sveglio tutta sudata. Mi sa proprio che ho preso gli occhi tristi dell’elefante e li ho fatti miei.

Atto quarto

Se una persona è cattiva te ne rendi conto subito da come si comporta con chi non ha modo di difendersi. Nella mia famiglia mi hanno sempre detto di star lontano da chi ha gli occhi cattivi. Al villaggio del nonno c’erano ragazzini che quando arrivava il vecchio elefante a mangiare nei bidoni dell’immondizia, andavano a buttare la benzina dentro la latta e davano fuoco, e lui, il bestione, si bruciava la pelle pur di prendere le bucce. Aveva tanta fame. Tornava a quel bidone per quello, secondo me. Una volta, mi ha detto la mamma, i ragazzini gli sono corsi dietro con i coltelli e ridevano e l’elefante correva piano che era vecchio e loro, i ragazzi, gli hanno aperto squarci nella pelle rugosa, con il sangue che colava ovunque. Ma lui è sempre tornato, dopo, al bidone delle immondizie.
Io dovevo riconoscerli gli occhi cattivi quando quei tre mi hanno chiesto se volevo andare con loro per centocinquanta euro che sono tanti soldi per tre rapporti. E dovevo dire che mi dovevano portare indietro quando non hanno preso la stradina che gli avevo indicato ma sono andati via sgommando e ridendo fino a quella casa che era di un loro amico.
Quando si è chiusa la porta alle mie spalle, con la serratura che ha girato tre volte, io ho capito che quei tre erano cattivi. Non sono stata attenta. Erano due giorni che non dormivo.
E quello che mi hanno fatto, dopo, ha solo confermato che sei sei debole il cattivo gode. Più imploravo, più loro hanno riso di me e dei miei no. Mi hanno chiamato sporca negra, mi hanno lavato con il sapone e la spazzola dei piatti, perché dicevano che puzzavo. Mi hanno detto che ero lì per una cosa, divertirli. Come i ragazzini con i coltelli del villaggio, loro volevano vedermi sanguinare e hanno usato di tutto, persino le bottiglie della birra che io non ho mai visto qualcuno fare cose simili e mi sono protetta col silenzio, sperando che sarebbe finito tutto in fretta e invece no, loro non si sono stancati finché io non ce l’ho fatta più e ho gridato forte e dopo ho sentito il cuore entrarmi nel cervello e cominciare a battere come un tamburo e sono caduta sul letto svenuta. E solo allora hanno smesso.
Ma hanno continuato a ridere quando mi hanno caricato in macchina e portato via dalla casa. Hanno sghignazzato quando mi hanno buttato sul marciapiede. Ho sbattuto la testa sul cordolo e allora hanno smesso di parlare. Io adesso non vedo più niente. Sento l’asfalto che mi gratta la pelle e ho voglia di dormire senza aspettare che qualcuno si accorga di me. Il dolore è lenta e silenziosa stanchezza. Il vecchio elefante è qui, lo sento, è venuto per i miei occhi ma quelli sono già andati. E allora aspetta. Il tamburo nella testa batte ma piano.
La morte, quando arriva, fa rumore. Anche qui, lontano.