Si guardarono attraverso i vetri dei finestrini delle loro macchine, ferme, affiancate, in mezzo alla lunga coda.
Lei teneva le mani ben salde sul volante mentre il marito le ricordava che sarebbero arrivati tardi all’appuntamento in Croazia con la proprietaria dell’appartamento che li aspettava per consegnare le chiavi dell’appartamento preso in affitto per le vacanze. Era la sesta volta che lo ripeteva e lei cominciava a spazientirsi. Anche perché se non erano usciti dalla tangenziale per evitare la coda, la colpa era tutta di suo marito.
Lui aveva girato la faccia, stanco e infastidito, verso il finestrino, per non sentire l’alito del collega che era andato a prenderlo e aveva pensato bene di sbagliare strada e adesso malediceva silenziosamente le code in quella tangenziale che era un carnaio e si stava fermi, sempre, che se almeno si correva poteva aprire un attimo il finestrino e far entrare aria di ricambio in quell’abitacolo ammuffito di Punto. Nera.
Lui alzò gli occhi dopo aver fissato lo pneumatico della macchina a fianco. Era liscio.
Lei sbuffò contro il marito e girò la faccia verso il finestrino, per cercare conforto nell’orizzonte. Se lo vedeva.
Si guardarono, attraverso i vetri, e rimasero a fissarsi per cinque minuti buoni.
Tanto non si muoveva nessuno.
Poi lui sorrise, lei sorrise.
Quattro occhi, due bocche, due nasi, quattro mani, quattro piedi si unirono quel giorno sull’asfalto rovente della tangenziale di Mestre.
Adesso mica è statisticamente facile pensare che l’amore possa sbocciare lungo l’asfalto grigio della tangenziale di Mestre, quella che in ogni messaggio radio sulle condizioni di traffico veniva indicata, fino a qualche anno fa, come il valico degli ingorghi, con un minimo di dieci ed un massimo indefinito di chilometri di auto e camion e camper, incolonnati verso le località del mare e della montagna. Ogni estate. Dal 1972 a qualche anno fa.
Un posto che tutti temevano, il valico di Mestre, una montagna di auto a passo d’uomo che per percorrerla, dal casello di Villabona fino al cubo, l’orribile edificio di tubi innocenti, messo da qualche mano improvvida sopra la struttura del bar della stazione di servizio, prima dell’uscita per l’aeroporto e l’autostrada per Treviso e Belluno, ci volevano 17 chilometri e 700 metri e se andavi a piedi facevi prima.
E tutti stavano dentro gli abitacoli surriscaldati. 150 mila pezzi di lamiera di ferro ogni giorno, fermi, a far bollire la frizione andando di prima e seconda e stop, col caldo e il tempo che non passa mai e chi vuoi che abbia voglia di guardare fuori, quel che facevano gli altri quando sei incastrato in due corsie, in colonna, col caldo, con l’odore del tubo di scappamento del camion davanti e poi la immobilità diventa spavento che avanti di questo passo quando si arriva?
Ecco come fai a pensare che in una situazione simile nasca un amore? Non lo pensi.
Lei, anni dopo, diceva che era stata una questione di Karma.
Lui, anni dopo, agli amici ripeteva che il destino esiste.
La bionda turista tedesca e l’operaio della campagna padovana, lei stanca del marito insofferente e lui del collega con l’alito cattivo, quel giorno si guardarono e si amarono tanto.
E la cosa mica si esaurì lì, in quella strada inquinata, rumorosa, calda.
Perché a volte l’amore te lo porti dietro anche se dura un niente e diventa, in assenza del quotidiano, un pensiero salvavita.
L’amore, quel giorno, nell’asfalto, aveva gli occhi dolci di una signora tedesca, col ciuffo biondo che le cade sul viso e sembra disegnarle un punto di domanda sopra il naso e lei di punti di domanda nella sua vita ne aveva, oramai, ben pochi perché aveva un lavoro, una famiglia, un marito, una casa presa in affitto in Croazia e il corso da subacqueo da fare per prendere il brevetto.
E aveva le labbra rosee di un operaio padovano che in Germania non c’era mai stato e mai andò ma amava tanto uscire con la barca per andare a pescare in laguna e conosceva tutte le secche, quelle che se non stai attento ti ci impantani con la barca, ma se ci vai con una bella donna torna utile, la secca, in laguna, col sole che cala e i gabbiani che passano a vedere che succede.
Le due auto procedettero, passo passo, distanziandosi e riprendendosi, lungo le due corsie e si vedeva in fondo la sagoma del cubo. E l’operaio e la bionda, si scambiavano sorrisi e sguardi e ad ogni avanzata, prima e seconda e stop, si cercavano.
E lei pensava che per un uomo con una bocca così avrebbe rinunciato a qualsiasi brevetto.
E lui pensava che quel punto di domanda di capelli biondi andava sciolto, con un soffio.
Poi la macchina della bionda mise la freccia per spostarsi sulla sinistra e procedere verso il confine e la Croazia, che c’era quella signora che li attendeva con le chiavi dell’appartamento.
La macchina degli operai lasciò loro il passo tanto dovevano buttarsi sulla destra per prendere la bretella, sperando di non arrivare troppo tardi in fabbrica che mancavano oramai pochi minuti all’inizio del turno e loro erano ancora lì, nell’ingorgo e non a timbrare il cartellino.
Lei guardò dallo specchietto retrovisore, lo spostò per vedere gli occhi di lui che nella macchina dietro e poi a fianco per l’ultimo metro, girò la testa per seguire la sagoma della macchina di lei finché poteva.
Lei sistemò il ciuffo biondo e pensò che anche se tutto è fermo, qualcosa si stava muovendo.
Lei si toccò le labbra, con un dito e si disse che aveva bisogno di laguna.
Si persero, come le polveri sottili.
Si pensarono tutti i giorni.
Si amarono finché ebbero ricordi.