Archivio Categoria: racconti 2011

Polveri sottili

 

Si guardarono attraverso i vetri dei finestrini delle loro macchine, ferme, affiancate, in mezzo alla lunga coda.

Lei teneva le mani ben salde sul volante mentre il marito le ricordava che sarebbero arrivati tardi all’appuntamento in Croazia con la proprietaria dell’appartamento che li aspettava per consegnare le chiavi dell’appartamento preso in affitto per le vacanze. Era la sesta volta che lo ripeteva e lei cominciava a spazientirsi. Anche perché se non erano usciti dalla tangenziale per evitare la coda, la colpa era tutta di suo marito.

Lui aveva girato la faccia, stanco e infastidito, verso il finestrino, per non sentire l’alito del collega che era andato a prenderlo e aveva pensato bene di sbagliare strada e adesso malediceva silenziosamente le code in quella tangenziale che era un carnaio e si stava fermi, sempre, che se almeno si correva poteva aprire un attimo il finestrino e far entrare aria di ricambio in quell’abitacolo ammuffito di Punto. Nera.

Lui alzò gli occhi dopo aver fissato lo pneumatico della macchina a fianco. Era liscio.

Lei sbuffò contro il marito e girò la faccia verso il finestrino, per cercare conforto nell’orizzonte. Se lo vedeva.

Si guardarono, attraverso i vetri, e rimasero a fissarsi per cinque minuti buoni.

Tanto non si muoveva nessuno.

Poi lui sorrise, lei sorrise.

Quattro occhi, due bocche, due nasi, quattro mani, quattro piedi si unirono quel giorno sull’asfalto rovente  della tangenziale di Mestre.

Adesso mica è statisticamente facile pensare che l’amore possa sbocciare lungo l’asfalto grigio della tangenziale di Mestre, quella che in ogni messaggio radio sulle condizioni di traffico veniva indicata, fino a qualche anno fa,  come il valico degli ingorghi, con un minimo di dieci ed un massimo indefinito di chilometri di auto e camion e camper, incolonnati verso le località del mare e della montagna. Ogni estate. Dal 1972 a qualche anno fa.

Un posto che tutti temevano, il valico di Mestre, una montagna di auto a passo d’uomo che per percorrerla, dal casello di Villabona fino al cubo, l’orribile edificio di tubi innocenti, messo da qualche mano improvvida sopra la struttura del bar della stazione di servizio, prima dell’uscita per l’aeroporto e l’autostrada per Treviso e Belluno, ci volevano 17 chilometri e 700 metri e se andavi a piedi facevi prima.

E tutti stavano dentro gli abitacoli surriscaldati. 150 mila pezzi di lamiera di ferro ogni giorno, fermi, a far bollire la frizione andando di prima e seconda e stop, col caldo e il tempo che non passa mai e chi vuoi che abbia voglia di guardare fuori, quel che facevano gli altri quando sei incastrato in due corsie, in colonna, col caldo, con l’odore del tubo di scappamento del camion davanti e poi la immobilità diventa spavento che avanti di questo passo quando si arriva?

Ecco come fai a pensare che in una situazione simile nasca un amore? Non lo pensi.

Lei, anni dopo, diceva che era stata una questione di Karma.

Lui, anni dopo, agli amici ripeteva che il destino esiste.

La bionda turista tedesca e l’operaio della campagna padovana, lei stanca del marito insofferente e lui del collega con l’alito cattivo, quel giorno si guardarono e si amarono tanto.

E la cosa mica si esaurì lì, in quella strada inquinata, rumorosa, calda.

Perché a volte l’amore te lo porti dietro anche se dura un niente e diventa, in assenza del quotidiano, un pensiero salvavita.

L’amore, quel giorno, nell’asfalto, aveva gli occhi dolci di una signora tedesca, col ciuffo biondo che le cade sul viso e sembra disegnarle un punto di domanda sopra il naso e lei di punti di domanda nella sua vita ne aveva, oramai, ben pochi perché aveva un lavoro, una famiglia, un marito, una casa presa in affitto in Croazia e il corso da subacqueo da fare per prendere il brevetto.

E aveva le labbra rosee di un operaio padovano che in Germania non c’era mai stato e mai andò ma amava tanto uscire con la barca per andare a pescare in laguna e conosceva tutte le secche, quelle che se non stai attento ti ci impantani con la barca, ma se ci vai con una bella donna torna utile, la secca, in laguna, col sole che cala e i gabbiani che passano a vedere che succede.

 

Le due auto procedettero, passo passo, distanziandosi e riprendendosi, lungo le due corsie e si vedeva  in fondo la sagoma del cubo. E l’operaio e la bionda, si scambiavano sorrisi e sguardi e ad ogni avanzata, prima e seconda e stop, si cercavano.

E lei pensava che per un uomo con una bocca così avrebbe rinunciato a qualsiasi brevetto.

E lui pensava che quel punto di domanda di capelli biondi andava sciolto, con un soffio.

Poi la macchina della bionda mise la freccia per spostarsi sulla sinistra e procedere verso il confine e la Croazia, che c’era quella signora che li attendeva con le chiavi dell’appartamento.

La macchina degli operai lasciò loro il passo tanto dovevano buttarsi sulla destra per prendere la bretella, sperando di non arrivare troppo tardi in fabbrica che mancavano oramai pochi minuti all’inizio del turno e loro erano ancora lì, nell’ingorgo e non a timbrare il cartellino.

Lei guardò dallo specchietto retrovisore, lo spostò per vedere gli occhi di lui che  nella macchina dietro e poi a fianco per l’ultimo metro, girò la testa per seguire la sagoma della macchina di lei finché poteva.

Lei sistemò il ciuffo biondo e pensò che anche se tutto è fermo, qualcosa si stava muovendo.

Lei si toccò le labbra,  con un dito e si disse che aveva bisogno di laguna.

 

Si persero, come le polveri sottili.

Si pensarono tutti i giorni.

Si amarono finché ebbero ricordi.

 

 

Come va?

(se clicchi sull'immagine vai al sito di Blonk.it)

“Ottanta lettere”  continua a girare. Sui kindle, sugli Ipad, sui computer di amici e conoscenti.

Cosa ne pensate? Se volete potete lasciare i vostri commenti anche qui, su questo blog, oppure su Anoobi per esempio, se  vi va.

A me andrebbe di sapere cosa vi passa per la testa dopo aver letto.

Intanto altri libri si sono uniti al gruppo di Blonk.it e per “Ottanta lettere” ci saranno alcune novità che vi dirò, qui, a tempo debito. E ci sono dei ringraziamenti da fare: a  Lele Rozza e al gruppo di Blonk.it che mi hanno accolto come in famiglia. A Sba  che è l’artefice di questo blog. Agli amici disadattati che mi stanno vicino, non faccio l’elenco ma loro sanno. Ad Arturo che c’è ed è una roccia. A Franco che tiene alto il mio morale e il tasso di caffeina. A S. che gli voglio un bene mondo.

A mia sorella e anche lei sa.

Insomma,  si va. Avanti, sempre.

Ps: sto scrivendo. Vedremo che esce. 🙂

 

 

 

Il nostro regalo di Natale

copertina Amalia Muniega

Io e Thunalab abbiamo deciso di fare a tutti un regalino. Io nel 2009 per il “Post sotto l’albero” del sir Squonk avevo scritto l’Amalia Muniega. Poi mi è venuto di chiedere a Thunalab se aveva voglia di immaginarla e raccontarla con un disegno, l’Amalia. E’ venuta fuori questa storia disegnata, di cui tutti e due andiamo fierissimi. Ce la siamo coccolata un pochino, poi abbiamo deciso di farne un ebook che vi regaliamo da oggi.
Lo trovate qui:

http://www.thunalab.it/ebook/AmaliaMuniega.pdf

E’ il nostro regalo di Natale, dedicato a tutti quelli che sanno parlare coi treni.

Il nostro regalo di Natale – un ebook

 

Io e Thunalab abbiamo deciso di fare a tutti un regalino. Io nel 2009 per il “Post sotto l’albero” del sir Squonk avevo scritto l’Amalia Muniega. Poi mi è venuto di chiedere a Thunalab se aveva voglia di immaginarla e raccontarla con un disegno, l’Amalia. E’ venuta fuori questa storia disegnata, di cui tutti e due andiamo fierissimi. Ce la siamo coccolata un pochino, poi abbiamo deciso di farne un ebook che vi regaliamo da oggi.
Lo trovate qui:

http://www.thunalab.it/ebook/AmaliaMuniega.pdf

E’ il nostro regalo di Natale, dedicato a tutti quelli che sanno parlare coi treni.

Samopal

Samopal sistemò il pacchetto sotto al deambulatore celeste e uscì dal centro sociale, tra un’ala di compagni che lo guardavano fieri e gli battevano le mani sulle spalle, per incitarlo.
Pina era l’ultima della fila del comitato di saluto.
“Piero, tesoro, vorrei vederti tornare”.
Pina gli disse quelle parole, a voce bassa, quasi vergognandosi. Sapeva che il suo Piero stava facendo qualcosa di importante, ma insomma, lei lo voleva veder tornare.
“Non mi chiamare Piero, dai. Vedrai che torno”.
Samopal, all’anagrafe Piero Panni, 73 anni, un passato in consiglio di fabbrica a Porto Marghera e poi il lavoro nel sindacato e poi quindici anni passati a lavorare in una cooperativa come impiegato, nell’entroterra veneziano.
Da tre anni era finalmente in pensione, con la minima.
Lui guardò la Pina con la faccia di chi sa che ha una missione da portare a termine e l’amore deve attendere.
Bella cazzata, pensò Samopal.
Ci aveva messo anni per arrivare alla pensione e accorgersi di amare la sua vicina di casa, la Pina. E adesso, in pochi minuti, chissà cosa sarebbe rimasto. Di lui.
Samopal si diresse con questo pensiero verso il cortile del centro sociale, camminando lento, tenendosi stretto alle maniglie del deambulatore. Sapeva perfettamente che gli altri, i compagni, lo stavano fissando.
E lui riusciva solo a pensare che, nonostante tutto, quei tre anni da pensionato, passati a casa, con una come la Pina a fianco, non erano stati affatto male. Perché dove la trovi una che quando la baci ha la bocca che sa di caco. E che se mangi il caco viene là e ti lecca la faccia, le dita, gli angoli della bocca, che lo vuole mangiare anche lei, ma non da sola, assieme a te, proprio. E allora il caco era diventato il frutto della sua ritrovata virilità a 70 anni, con la gioia di andar in doppietta a pochi secondi di distanza, che una come la Pina, cosa vuoi, era incontentabile. E Samopal pensò che tutto, alla fine, lo doveva avere un senso, anche se lui fino a quel momento non l’aveva capito bene e invece mentre camminava, passo passo, lento lento, tirando i manici del deambulatore, aveva chiaro che se stava facendo tutto questo, e aveva il coraggio di farlo, e si era cambiato il nome da Piero in quello di Samopal, era perché lui non si arrendeva.
Non si era arreso negli anni del consiglio di fabbrica, non si era arreso fino all’attività nel sindacato. Poi sì, l’aveva fatto. Si era stufato di quell’andazzo generale che i furbi sono i meglio e gli onesti sono solo coglioni.
Ma poi, con una compagna come la Pina vicino, tutto era cambiato e al centro sociale quando gli amici cominciarono a dire che qualcosa bisognava fare, che era ora e tempo di impegnarsi, lui e la Pina pensarono che era giusto agire e cominciarono a portare le giacche arancio, color del caco, che era il frutto del loro amore e del loro sesso, e se c’è, porcoquaporcolà, del sesso sano a settant’anni vuoi non poter fare quello che sto per fare io?
Samopal non si arrende.
Se l’era detto così tante volte in quei quindici giorni di preparativi, che, ricordarselo di nuovo, gli serviva per darsi la carica e camminare, mentre gli altri lo fissavano dal portone del centro sociale. Lo sapevano tutti che sarebbe andato, passo passo, lento lento.
Ci avrebbe messo il necessario.
Solo Pina non sapeva esattamente a fare cosa. Per carità lei sapeva che c’era un pacco da consegnare e che Samopal era stato scelto per la consegna e che dopo avrebbero tutti parlato di lui ma lei non sapeva esattamente cosa c’era nel pacco.
Sapeva a grandi linee ma Samopal quella mattina, quando lei gli aveva fatto un sacco di domande a letto, dopo avergli garantito un dolce ammainabandiera, non gli aveva spiegato tutto nei particolari.
Samopal lo aveva fatto non perché non si fidasse di lei, anzi, era la sua compagna, che è più di una moglie a pensarci bene.
Solo non voleva vederla piangere, perché anche le lacrime della Pina sapevano di caco e lui con il deambulatore davanti non avrebbe resistito e non si sarebbe messo a camminare.
La lotta richiede impegno, perseveranza e pure qualche bugia. Sì.

Samopal ci mise 45 minuti a percorrere il chilometro e mezzo che divideva il centro sociale dall’ufficio dell’Inps del paese. Quarantacinque minuti che passò a caricarsi come una molla, con la mente a ripensare a quegli ultimi anni, che non erano stati solo di amore ma anche di rabbia.
Con la pensione che doveva arrivare ai 67 anni e che venne posticipata per legge tre anni dopo, perché non c’erano più soldi nelle casse dell’Inps. Con una disoccupazione schizzata in alto e un paese in cui un italiano su due non lavorava e non erano solo giovani ma anche i cinquantenni a stare a casa senza prospettiva.
In quel 2022 gli anziani erano i più delusi, secondo i sondaggi, dal governo di salvezza nazionale che da dieci anni governava la crisi che doveva durare poco e invece era diventata la quotidianità.
Le elezioni non le volle nessuno perché c’era la crisi e le pensioni vennero congelate e c’era chi a 70 anni entrava in ufficio temendo l’infarto alla scrivania e se eri tra quelli che un lavoro non lo avevano più ti davi ai traffici al nero, di qualsiasi tipo, pur di campare.
Al centro sociale Scotti, non quello del riso ma quello del milionario, aperto dal Gianni che con la vincita alla nota trasmissione tv anni prima aveva rilevato la vecchia bocciofila, si erano ritrovati in tanti a cercare qualcuno con cui parlare. Perché erano anni silenziosi, di paura, di manifestazioni vietate e di governi che si rimpastavano di mese in mese ma non c’era uno straccio di consenso e allora la Pina, che era la sorella del Gianni, un giorno aveva portato il Piero, là, per fare una partita a carte e non stare sempre da soli, e lì il Piero aveva trovato alcuni vecchi colleghi di fabbrica e del sindacato, alcuni ancora iscritti al Pd e pure altri, che erano amici una volta e che poi erano diventati leghisti e poi erano rimasti anche loro delusi.
E quei vecchi si erano messi a parlare e lamentela chiama lamentela e fastidio porta rabbia.
E così si erano decisi, un giorno.
Bisognava far capire che così non si poteva andare avanti e allora Piero era diventato Samopal e chi è vecchio lo sa il perché.
E se bisognava lottare, Samopal pensò che doveva essere lui il primo, quello che doveva lanciare il segnale e altri poi sarebbero arrivati.
Ci misero quindici giorni a studiare come fare e cosa doveva fare Samopal e quel giorno, il 25 aprile del 2022, che era il giorno della Liberazione ma oramai da cinque anni non lo si festeggiava più perché c’era la crisi, il governo di salvezza nazionale e tutte le feste erano state bandite tranne il Natale e il 1 novembre, che i morti comunque van rispettati, lui, Piero, prese il pacchetto, lo infilò sotto il deambulatore celeste, passò davanti ai compagni schierati che gli davano pacche di incitamento, parlò alla Pina e uscì in strada. Era una bella mattina di aprile, fresca ma non fredda, assolata e il palazzo dell’Inps con le sue vetrate a specchio rifletteva i raggi del sole e Piero si guardò nella porta finestra dell’ingresso, vide riflessa la sua camicia arancione, pensò al gusto del caco, al sapore della bocca della Pina e tirò fuori il pacchetto da sotto il deambulatore.
Aprì il coperchio e la dentiera lo guardò dalla scatola.
Era composta da una base di plastico su cui erano stati posizionati i denti della vecchia dentiera del Gianni, che lui aveva deciso di donare alla causa. Il detonatore lo avevano posizionato sugli angoli, così quando si doveva muovere la bocca, lui scattava.
Ci avevano provato per giorni nel retrobottega del centro, mentre la Pina e le altre donne, vendevano torte fatte in casa e panini e bottiglie di vino ai clienti per sovvenzionare la causa.
All’idea dei denti e all’esplosivo ci aveva pensato il generale, che era un appassionato di storia della Prima guerra mondiale.
Samopal guardò la dentiera, alzò la testa verso il palazzo dell’Inps, fece cenno alla guardia giurata di aprirgli la porta. Quello stava guardando una puntata di un talk show in televisione e fece scattare la serratura, senza preoccuparsi. Samopal avanzò col deambulatore urlando “Merdeeeeeee, siete delle merdeeeeeee”.
Lo gridò tre volte prima che il vigilantes gli andasse contro urlandogli: “Nonno, basta! Non rompere”.
Samopal gli sorrise e dalla tasca della giacca arancione tirò fuori la dentiera e la infilò in bocca. Strizzò l’occhio alla guardia, chiese scusa alla Pina per la bugia, e chiuse di scatto la bocca, facendo sbattere i denti.

Il bar della piazza

Il cappotto l’aveva buttato sullo stendino in terrazzo, a prendere aria dopo quella notte pregna di tabacco.
A Marghera era un sabato di ottobre, bello, di sole, lievemente ventoso. C’era il mercato e la gente parcheggiava un pochino ovunque, vicino a casa di Martino, per andare a fare le spese.
Con le fabbriche chimiche oramai quasi tutte chiuse, Marghera non si svegliava più la mattina con quel puzzo di uova marce che Martino aveva imparato a riconoscere come l’odore di casa. Per tanti anni quando tornava dai suoi viaggi, in treno o in macchina, era l’odore di uova marce che si cominciava a sentire da Malcontenta e che entrava nella macchina o nel vagone dai condotti dell’aria a dire che si stava per tornare a casa.
Marghera in quell’ottobre con le fabbriche del Polo agonizzanti, mostrava al di là del muro di capannoni di via Fratelli Bandiera, il grande viale dei camion che di notte lasciava spazio ad ogni semaforo alle prostitute nigeriane, il suo volto vero di città giardino. Gli alberi profumavano.
Era la rivalsa dopo una delle tante bizzarrie dei primi del Novecento, sperimentate lì a due passi da Venezia.
Piazzare le fabbriche davanti alla città dal passo lento e dal vociare costante e costruire, come per chiedere scusa, quel quartiere operaio nel verde più verde. Martino viveva lì e non avrebbe voluto stare in nessuna altra parte.
Il cappotto l’aveva steso sullo stendino in terrazzo, in quella giornata limpida e senza polveri, per togliere l’odore del fumo.
Aveva trascorso la notte in un locale di piazza Barche, nel centro di Mestre. Piazza Barche per i mestrini, piazza XXVII Ottobre per la toponomastica. Mestre che in una notte aveva perso centinaia di piante per lasciar posto alla smania di costruire, ha ancora strade e piazze con nomi doppi, quelli della tradizione e quelli della toponomastica ufficiale.
Un’altra bizzarria del Novecento.

Era un locale nuovo, quello in cui Martino aveva passato la notte. Non l’aveva mai visto prima e manco mai l’aveva sentito nominare. Passeggiava in piazza, quando aveva visto un gruppo di persone intente a parlare davanti ad una porta che dava su un locale stretto e tutto scuro, con le luci basse. E si era stupito perché sotto al porticato davanti all’ingresso c’erano due grandi casse che sparavano fuori decibel a tutto volume e una strobo, una di quelle palle fatte di vetrini che giravano nelle discoteche degli anni Ottanta (sempre Novecento era), e lui, Martino, si era fermato a fissarla a bocca aperta che erano anni e anni che non ne vedeva una così. Erano anni in verità che non entrava in una discoteca.
Il locale era di quelli modernissimi, pareti grigio scuro, belle bariste in pantaloni a sigaretta e magliette aderentissime e tacco con plateau. Altissime, magrissime, con la coda di cavallo liscia, lunga che ricadeva sui colli esili come quelli di certe africane che aveva visto e segretamente amato nei suoi viaggi.
I clienti erano tutti vestiti bene, le donne con le gonne strette e il tacco dodici; i ragazzi con la giacca elegante, qualcuno anche con la cravatta. Tutti in mano avevano qualcosa da bere. Tutti bevevano.
Manco una birra degna del nome, pensò Martino, guardando il gruppo delle spine.
Pareva la festa di inaugurazione, una di quelle situazioni in cui tutti sfoggiano un sorriso di circostanza e sperano di far passare le ore senza problemi, dopo una giornata di lavoro.
E allora Martino si era deciso a passeggiare in mezzo alla gente tra il porticato con la musica e i tavolini, tutti occupati, e l’ingresso del locale, una stanza piccola, con la porta impegnata dall’andirivieni delle bariste e delle cameriere, che portavano fuori vassoi di tramezzini e di bicchieri di birra e vino bianco.
L’unica persona, che non chiacchierava o beveva, era una ragazza, vestita di nero. Aveva i capelli neri ricci e stava seduta davanti ad una delle grandi casse, come se il rumore non le desse per niente fastidio. La osservò meglio. Aveva un cappotto grigio scuro, di quelle stoffe che si usavano una volta, fustagno.
Ai piedi portava delle scarpette basse di vernice rossa; stringeva al petto una borsa di panno con sopra una grande faccia di gatto. Portava gli occhiali, con le stanghette rosse. Guardava verso un punto non preciso della piazza, come se fosse attirata da qualcosa, lì in fondo, lontano.
Osservandola meglio Martino capì che in mezzo a quei ricci scomposti che toglievano la visuale dal suo collo, la ragazza indossava delle cuffie. Il supporto le faceva da un cerchietto ma su di lei il cerchio di gomma e pure le due cuffie sparivano in mezzo al tripudio di ricci neri, intricati come le mangrovie. Fossero stati verdi i capelli, sarebbe stato un bel vedere davvero, pensò Martino.
La ragazza guardava lontano e muoveva la testa, piano, al ritmo della musica che sentiva nelle orecchie e Martino si chiedeva se il ritmo era simile a quello della musica delle casse perché a lui sembrava di sì, ma non poteva esserne sicuro e allora si fece coraggio e andò a sfiorarle la spalla. E lei inarcò la schiena con un gesto veloce, presa di soprassalto da quel tocco e lo guardò attenta.
Martino dovette urlare per farle la domanda.
“Scusa coooosaaaaaa staiiii ascoltandooooooo?”, le urlò contro, tentando di superare il rumore delle casse, per far sentire la sua voce.
“Niente”, risposte lei.
“Comeeeeee nieeeeente?”, ribattè lui.
La ragazza gli sorrise e lo tirò per il cappotto togliendolo da davanti le casse della musica.
“Le cuffie non sono collegate a niente. Vedi il cavo con lo spinotto? Lo tengo in tasca, mi serve per far finta che sto ascoltando musica, così non mi vengono a disturbare. E invece ascolto la musica delle casse, mi metto qua perché mi piace sentire il rumore dei bassi prodotti dalle casse, mi concentro su quelli e mi passano i momenti fastidiosi”.
“Fastidio di che?”. Martino era curioso.
“Fastidio per tutte queste parole inutili. Sono venuta qui con una amica a cui piace quel tipo, quello biondo là in fondo. Lei gli cicaleccia dietro, io mi annoiavo e mi sono messa qui”.
“Ma questo locale è nuovo?”, continuò a chiedere Martino.
“Boh – rispose la ragazza – mai sentito o visto prima. Senti, ti va se ce ne andiamo a passeggiare?”.
Martino annuì e la seguì. Percorsero a piedi 45 volte la piazza, dal porticato del bar fino ai parcheggi vicino al canal Salso. Si dissero un sacco di cose. Ma Martino il giorno dopo mentre sistemava il cappotto sullo stendino ricordava solo le cose essenziali.
Elena, 20 anni, studentessa a Ca’ Foscari, padovana, bella, capelli neri, ricci come le mangrovie che se erano verdi era stupendo.
Dita piccole; tre anelli d’argento; vestito nero; scarpe rosse; occhiali con stanghette rosse; bocca rosa dal gusto dolcissimo.
Martino ricordava perfettamente che lasciandola davanti al porticato di quel locale, a notte fonda, l’aveva baciata e lei, Elena, aveva ricambiato. E poi si era rimessa sulle orecchie le cuffie mollandogli il più bel sorriso che lui avesse mai visto, Africa compresa.
E lei gli aveva detto qualcosa ma senza voce, solo muovendo le labbra e l’aveva ripetuto tre volte. E lui non aveva capito e per paura di fare la figura del fesso aveva sorriso ed era andato via.
Martino il giorno dopo nello stendere il cappotto in terrazzo, aveva sentito che c’era qualcosa nella tasca e ci aveva trovato dentro un cuoricino di plastica rosso, piccolo. E così aveva indossato la tuta e il giubbotto e senza neanche bere il caffè, aveva preso la macchina ed era tornato in piazza Barche. Era convinto che al locale avrebbe trovato qualcuno che c’era la sera prima e che magari Elena l’aveva vista e gli poteva dire dove trovarla. Lui era convinto che quel pezzo di plastica glielo aveva messo lei in tasca, senza farsi notare.
E così era arrivato in piazza e si era messo a camminare su e giù per i portici cercando l’ingresso del bar. E invece c’erano un negozio di scarpe, uno di saponi artigianali, una banca, una edicola, un negozio di tappeti chiuso da decenni. Ma di bar manco l’ombra.
Era andato così a chiedere informazioni all’edicolante e quello, che aveva aperto alle cinque, l’aveva guardato stranito e gli aveva detto che no, non c’era alcun bar nuovo nella piazza e mai c’era stato e che no la sera prima non c’era stata alcuna festa, ché lui aveva chiuso tardi e avrebbe visto e che insomma, Martino, forse aveva sbagliato piazza o città perché non era successo niente di quello che lui raccontava.
E Martino non gli aveva creduto e aveva fermato una pattuglia di vigili e aveva chiesto a loro se avevano visto la festa al bar e anche loro gli avevano ribadito che no, non era successo niente. E nessuno aveva chiamato alla centrale per il troppo rumore.
Martino se ne era così tornato a casa mortificato, convinto di essere ad un passo dalla follia se vedeva cose che nessuno vedeva.
Aveva lasciato il cuoricino di plastica rossa sul comodino e alla sera era andato a dormire, sentendosi un pochino matto, un pochino scemo.
Quella notte sognò il bar, sognò Elena, la vide sorridere e infilare le cuffie e poi dire le parole mute.
E capì ogni sillaba.

Fermata Gioia

Quando la vede pensa a Milano, il posto dove l’aveva notata per la prima volta. E dove si era innamorato di lei. C’era stato tre settimane fa quando aveva percorso un tratto della M2 per arrivare a Garibaldi
dove lo aspettava Pino, l’amico del circolo di subbuteo che era andato a lavorare a Milano da qualche mese e che, sistemata casa, l’aveva invitato per un weekend milanese. Che poi, a dirla bene, era stato non un weekend ma solo una serata di sabato passata a guardare la Madunina, come la chiamano i milanesi, a infilare il tacco tra le palle del toro, dentro una galleria, e a passeggiare tra la gente indaffarata a divertirsi. Milano era troppo per Alfio, troppo città, troppa gente. Ma aveva visto lei e aveva capito che ci si può ancora innamorare a 50 anni.
E come tutti gli innamorati, si ricordava tutto, ogni singolo gesto e situazione. E amava Milano, pur non sopportandola.
Appena sceso dal treno da Venezia in stazione centrale, Alfio aveva finito con il perdersi tra i tapis roulant alla ricerca di un gabinetto prima di entrare in metropolitana, e con il foglietto con le indicazioni date dal Pino al telefono, in una mano, e con il trolley a strisciare sul pavimento nell’altra, si era messo a seguire i cartelli verso la fermata della M2, la linea verde, quella che doveva prendere per raggiungere la stazione Garibaldi.
Era sceso dal treno agitato Alfio e nel correre, cercando con l’occhio l’indicazione per la metropolitana e contemporaneamente guardandosi attorno alla ricerca dell’insegna dei gabinetti della stazione, che aveva bisogno di pisciare, perché il bagno del treno era fuoriuso e in quello delle donne non ci aveva voluto andare, metti che poi arriva una signora e si infastidisce, e pure a ragione, di trovare un uomo che occupa la tazza delle donne, e sai che figura da provinciale, Alfio aveva finito con il dimenticare di trattenere il bisogno e la vescica nel camminare convulso, mentre l’occhio andava alla ricerca dell’insegna
giusta e invece c’erano solo negozi attorno, in quella stazione, e troppa gente, la vescica, dicevo, aveva mollato la presa e uno schizzo caldo gli era finito sulle mutande e lui camminava sentendo il caldo dell’urina che si faceva strada tra i tessuti, il cotone della mutanda e quello dei jeans. Poi per fortuna l’insegna del gabinetto era comparsa lì in fondo, dopo la salita delle scale mobili, e Alfio
aveva accelerato il passo.
Si era trovato davanti un signore, in tuta verdina.

“Costa un euro, le serve che le cambio monete?”.
“Cos’è che costa?”, gli aveva risposto Alfio passando oltre e trovandosi davanti una serie di sportellini di vetro, che bloccavano l’accesso ai bagni e accanto delle lastre d’acciao con la scritta: “Insert coin”.
“L’uso del bagno, signore”, aveva replicato l’uomo.
“Si paga per pisciare a Milano?”. Alfio si era girato a guardarlo stupito.
“Sì, si paga. Ha un euro? O cambio?”, gli aveva risposto l’addetto dei bagni, sbattendo la mano sulla tasca e producendo un rumore metallico. Aveva la tasca piena di monete.
Si erano fissati un attimo e Alfio è sicuro di averlo visto abbassare lo sguardo fino alla patta dei pantaloni e temendo che quello notasse la macchia di urina, aveva abbassato il foglietto per coprirsi le parti basse.
“No, ce l’ho grazie”.
E aveva tirato fuori dalla tasca la moneta.
Inserito l’euro nella fessura dell’ “Insert coin”, le porte di vetro avevano ondeggiato come tende e si erano aperte di lato. Alfio si era infilato poi nella prima porta aperta dei gabinetti degli uomini.
Puzza di merda.
Dentro al cesso Alfio si era seduto sul water guardando il cavallo dei jeans. La macchia di urina si notava, eccome, sotto la cerniera dei jeans scoloriti, quasi bianchi. Meglio cambiarli, visto che aveva la valigia dentro il gabinetto e dopo aver finito di pisciare, liberandosi di quella cosa calda che oramai lo opprimeva, aveva aperto il trolley e tirato fuori un altro paio di pantaloni, neri, per sicurezza, e pure un paio di mutande pulite, sempre nere. E si era cambiato in quel metro quadrato scarso attorno al water, dopo essersi pulito con la carta igienica.
Sua madre gli aveva preparato la valigia come piaceva a lui, tutto piegato e stirato, pantaloni in un sacchetto, le maglie e la camicia in un altro, il pullover sotto, che tanto se si sgualcisce non importa. Poi Alfio era uscito dal gabinetto, era andato a lavarsi due volte di seguito le mani al lavandino fuori dai bagni e poi aveva atteso che la porta di vetro si riaprisse per uscire.
“Deve premere il bottone con la freccia alla sua destra”, gli aveva urlato contro l’addetto dei bagni.
E quello aveva abbassato lo sguardo ai pantaloni di Alfio, che pensò che queullo sicuramente aveva notato che lui si era cambiato e lo stava prendendo o per un pisciatore incapace di trattenere o peggio per uno che guarda la gente nella stazioni e viene nelle mutande. Meglio andare via, subito. E allora gli era passato accanto salutandolo con la mano e chiedendo: “Per la metropolitana?”.

“Vada di là”, gli aveva risposto l’uomo distratto da altri viaggiatori, alle prese con gli sportelli di vetro da aprire.
Alfio aveva poi ripreso il cammino finché non aveva visto l’insegna della M2 e si era deciso a seguire il flusso di gente ritrovandosi poi all’improvviso a pochi passi dai binari proprio mentre arrivava il convoglio, e sempre trasportato dalla gente, tramortito dallo spostamento d’aria calda, si era ritrovato dentro la cabina. Aveva afferrato con una mano un sostegno di plastica mentre con l’altra aveva stretto il manico dell’asta del trolley e si era messo a contare, mentalmente, le fermate.
Due. Prima, Gioia, poi Garibaldi e arrivo. Pino lo aspettava là.
Pochi minuti e una voce metallica aveva annunciato l’arrivo alla fermata Gioia.

E Alfio aveva guardato fuori e l’aveva vista.
Bellissima, lei gli sorrideva dal binario davanti a lui. Lo fissava. I capelli castani e lunghi le scendevano a boccoli leggeri sul viso, due occhi verdi lo guardavano rapito. Lei gli sorrideva, a lui è cascato il trolley per terra. E l’ha seguita con lo sguardo finché non l’ha persa di vista quando il vagone ha ripreso la sua corsa verso Garibaldi. Di sicuro era vestita poco, per andare in giro in metropolitana, da sola, aveva pensato Alfio.
Lui da quel momento non ha capito più niente.
E’ convinto di averla vista altre due volte, quel sabato sera a Milano, mentre passeggiava con Pino, dopo la pizza. Non ricorda bene, perché lui si è bloccato a guardarla mentre lei lo ha osservato, ha raccontato agli amici a casa, stavolta con una mano tra i capelli e una posa a metà tra il “prendimi qui in mezzo a tutti” e il “mi sono appena svegliata”.

Una meravigliosa creatura, una dea ha sicuramente il suo volto, dice Alfio quando parla di lei. E da quando è tornato da Milano ne parla spesso e la vede, dice, tutti i giorni alla fermata dell’autobus, quella prima del capolinea a cui scende per andare e tornare dal lavoro.
Di quel sabato sera a Milano Alfio non ricorda altro da tre settimane se non lo sguardo di lei che lo fissa. E’ sicuro di amarla. E quando sente parlare di Milano pensa che quella città l’ha fatto innamorare e allora la fermata in cui la vede tutti i giorni, al mattino alle 7.30 mentre va in fabbrica e alla sera alle 20 quando torna dopo la palestra, lui la chiama la fermata “Gioia”, anche se sa benissimo che non c’è alcuna metropolitana, che non vive a Milano ma alla periferia di Venezia in un paesetto che è un dormitorio e dove una donna così bella si annoierebbe.
Ieri sera Alfio però si è deciso, è passato con il bus che lo porta a casa, è passato davanti alla fermata Gioia, l’ha vista quella dea, bellissima, stesa su un materasso a carponi e si è detto che una femmina così bella non se la poteva mica far scappare.
Che da come lei lo guarda tutti i giorni, era doveroso scendere e parlarci. E allora si è alzato dal seggiolino del bus e ha urlato contro all’autista del bus, chiedendogli di fermarsi e farlo scendere. E l’autista che lo conosce bene Alfio, che lo vede ad ogni turno di guida, si è fermato, pensando che quello stesse male ed ha aperto le porte.
Alfio è corso giù e si è messo a correre verso la fermata del bus, illuminata, e mentre correva pensava che doveva dirlo a quella donna che era innamorato e che se lei voleva si poteva provare, che era giusto, che l’amore arriva anche a 50 anni e bisogna provarci, anche se ci si spella le mani nel tentativo e si soffre, ma poi c’è la gioia dello stare assieme…
La corsa è finita davanti a quegli occhi che lo fissano, la pelle rosa, la curva del seno che prepotente esce dal reggiseno.
Alfio non ha saputo più che dire e ha pensato che doveva solo appoggiare le labbra e sfiorare quelle di lei. Lo hanno trovato lì, attaccato alla gigantografia della modella di una nota marca di intimo femminile, i vigili urbani e lui non voleva staccarsi dal manifesto, tra urli e pianti.
Così riferisce il verbale.

Nessun debito

Io debiti nella mia vita, finora, manco uno. Sarà capitato massimo tre volte di aver lasciato il pane da pagare all’alimentari sotto casa ma io entro sera torno e saldo e comunque se ho lasciato il conto da pagare era perché loro, quelli dell’alimentari, non avevano da darmi il resto. Me le ricordo quelle giornate passate con il fastidio, lieve, addosso, di non aver fatto il giusto.
No, io i debiti non li faccio. Mai.
Non chiedo soldi in prestito e non faccio credito a nessuno. Mi viene da sorridere mentre lo scrivo. Non faccio credito a nessuno, io. Come potrei? Lavoro da vent’anni in un’agenzia di recupero crediti. Sono un esattore, quello che arriva nelle case quando gli avvertimenti telefonici e le raccomandate di intimazione a pagare non hanno sortito effetto. Arrivo io e pignoro, cioè confisco beni che secondo me arrivano ad avere il valore del debito, spese accessorie e more comprese.
Mi presento bene con il doppiopetto grigio antracite e la cravatta blu, la camicia bianca e le scarpe nere, non cedo ad alcun discorso in dialetto, scandisco bene le parole anche per presentarmi quando suono ai campanelli per farmi aprire. A volte dico chi sono e non mi aprono, segno il nome sulla lista con una x e così mi ricordo che ci devo tornare o telefonare per far capire che faccio sul serio.
Se mi aprono la porta e mi fanno entrare, io non accetto caffè e bicchieri d’acqua, dolci e discorsi lacrimevoli. Apro la cartellina con la pratica, quantifico il dovuto e procedo al pignoramento. Se tentano di provocarmi insultandomi, e capita sempre più spesso, mantengo la calma e faccio quel che devo fare. Se mi mettono le mani addosso per aggredirmi, chiamo i carabinieri. E scatta la denuncia.
Non risparmio nessuno, se mi insultano faccio finta di non sentire, se mi aggrediscono li denuncio. Ho già collezionato una risma di querele di parte che il mio capo ogni volta che mi vede, per scherzare, mi chiama “Terminator”. Io sorrido, penso che magari prima o poi faccio carriera meglio di lui, e che di simile a Schwarzenegger non ho neanche una falange del piede. Tra l’altro io ho i piedi piatti. Non me lo vedrei un colosso così camminare come me.

Quando finisce la giornata di lavoro e torno a casa cerco di dimenticarmi in fretta le tante facce incontrate durante il giorno.
Da un anno a questa parte sono sempre di più: ho una ventina di pratiche al giorno e comunque più di dieci appuntamenti non riesco a farli. Perché si perde tempo. Ad aspettare che aprano, se aprono, e poi che la smettano di piangere, bestemmiare, implorare, insultare, prima di capire che resteranno senza macchina, tv o frigorifero quando io avrò finito.
Fanno debiti per tutto, del resto. Macchine non pagate, rate dei computer e dei cellulari non saldate, frigoriferi, cucine. Soprattutto rate delle carte di credito. C’è gente che ne ha dieci, le revolving, e spende e perde il conto dei soldi spesi e poi vorrebbe tanto giocare alla roulette russa con una pistola alla tempia. Sarebbe meno fastidioso che incontrare me.
C’è quello che è in cassa integrazione e non ce la fa a pagare le rate della casa arredata con la moglie. C’è quello che chiede prestiti e poi si gioca 500 euro in un pomeriggio coi “gratta e vinci” perché metti che la fortuna ci veda bene. Rigorosamente quella, la fortuna, sta guardando da un’altra parte.
C’è anche quello, però, che gira con due porsche e ha un appartamento da urlo, che quando ci sono entrato mi è venuto da togliermi le scarpe per non rovinargli il parquet, e lui non aveva pagato le rate della macchina del figlio. Perché tanto, mi ha detto, chi va a controllare?
I cassintegrati si mettono a piangere, quelli ricchi e spesso lo sono non per capacità ma perché non pagano niente, manco i 300 euro del restauro del mobile del nonno, mi ridono in faccia e mi sventolano davanti il biglietto da visita del loro avvocato. Mi chiamano tutti allo stesso modo, comunque: sciacallo, rovinafamiglie, testa di cazzo; esattore di merda. Dovrei fare differenze?
No.
Sono facce che dimentico in fretta dentro la pratica a loro assegnata. Spesso mi toccherà riprenderlo in mano il fascicolo per farli pagare. E allora magari torno a ricordarmi qualcosa.

Mi è capitato di pignorare anche qualche ex fidanzata di un tempo, non ho concesso attenuanti del cuore.
Gli amici del bar mi dicono che sono cinico, che loro non ce la farebbero mai a fare il mio lavoro. Lo vedo che a modo loro mi stimano, incuto anche un pochino di timore.
Io quando mi chiamano così, cinico, ho un lieve fremito alla patta dei pantaloni.
I miei amici del bar li capisco, sono offuscati dai sentimenti che invece io tengo a bada, lontanissimi da me da anni, e vivo bene uguale. Non mi sono sposato, avrei potuto, mi sarebbe piaciuto. Non è andata.
Perché? – So che me lo vuoi chiedere.

Che ti frega, per me sei un anonimo qualunque. Avessimo bevuto almeno due spritz assieme coi ragazzi del bar, allora, forse, dopo aver allentato il nodo della cravatta, e ripeto forse, ti direi qualcosa. Di solito non lascio sospesi manco se sono ubriaco e quello non mi capita affatto di rado.
Sappi, comunque, e ti basti per ora, che le donne sono i più grandi esattori che ci siano in circolazione ma non è un caso se loro questo lavoro preferiscono non farlo. Perché per loro, le donne, i soldi contano molto meno delle sensazioni.
Prova a mettere una bella donna un anno in una casa lussuosa, piena di gioielli e vestiti alla moda. Dopo un anno, quando le sarà passata la voglia di giocare alle bambole, e si sarà ricordata chi è lei davvero, ti manderà a quel paese se non l’avrai vestita e curata a suon di sensazioni.
Quelli che dicono che le donne guardano al primo appuntamento la macchina che hai e se hai il portafoglio pieno di soldi sono degli emeriti imbecilli. E’ tutta una finta, solo i cretini ci cascano.
Le donne sono specialiste dei sentimenti, ci sguazzano; senza quelli sono pesci che boccheggiano e allargano le branchie per non morire. L’occhio gli diventa subito giallo.
Se sei guardingo o hai una paura fottuta, loro ti annusano come i cani e lo sentono l’odore che hai dentro. Se ti tieni lontano loro ti ronzeranno attorno come mosche sulla merda. E la puzza la sentono, ma ci mettono sopra un sacco di nomi diversi.
Non è che amano i bastardi, sono solo abituate ad averci a che fare. E comunque, loro, le donne, riscuotono sempre. Ma non in denaro, in dignità e autostima. Se ti portano via casa e stipendio in alimenti, e adesso bestemmi in aramaico contro la loro avidità, quando ti metterai al tavolino a fare bene i conti della tua insulsa vita capirai che l’ammontare non sarà mai superiore al valore della tua dignità persa.
E allora come con i clienti del recupero crediti, clienti obbligati, che loro proprio non vorrebbero esserlo, io con le donne sono assolutamente un cinico. E me ne vanto. E non ci voglio avere niente a che fare. A meno che non sia io il cliente.
Se ho un prurito, anche adesso c’ho il fremito, solo a scriverla la parola cinico, prendo la macchina e vado a farmi un giro. Una da pagare per 20 minuti la trovo sempre. Una faccia come tante, di quelle che non ricordo. Cinquanta euro e non ho neanche il problema di dovermi ricordare il nome di lei. Poi le cose si chiamano con i nomi che devono avere: culo, pompini, stai zitta.
Con le puttane è tutto semplice. Il cliente sono io, loro non mi vedono come un portatore sano o insano di sentimenti. Io sono semplicemente un lavoro. Pago, ottengo, mi rimetto i pantaloni e ingrano la prima. Loro se non riscuotono o se le picchi, chiamano i carabinieri. Altrimenti è tutto semplice, senza debiti.

La bustina del tè

“Hai visto? Anche oggi le Borse sono in fortissima perdita”.
Dario attende una risposta e, non sentendola arrivare, solleva lo sguardo dal giornale per vedere se Mara lo sta ascoltando. Lei guarda fuori dalla finestra della cucina, la tazzina del caffè vicino alle labbra. Soffia lentamente per raffreddarlo. Risponde solo dopo cinque minuti.
“Con i soldi che abbiamo noi in banca, manco giochiamo a Monopoli. Che te ne frega della Borsa…”, dice lei, senza voltarsi verso il marito.
Lui riabbassa gli occhi sul giornale. Ma le notizie hanno perso di colpo di interesse.

E’ la prima volta che Mara parla a Dario dopo una serata e una notte difficile, trascorsa una a fianco dell’altro, stando attenti ad evitare qualsiasi contatto, quasi per evitare che la voglia di calore dei rispettivi corpi li costringesse ad avvicinarsi.
Quando si vive assieme c’è questa abitudine al riconoscere nel calore dell’altro una parte di noi. Il sonno, di solito, riavvicina i corpi. Anche quelli arrabbiati.
La sera prima, a cena, era bastata una parola di troppo di Mara, che contestava a Dario di non aver chiuso la porta del frigorifero, per far scatenare la rabbia di lui.
“Sei una belva in agguato, a caccia di ogni mio errore per rinfacciarmelo. Non ti sopporto più”, le aveva urlato contro lui.
Mara aveva sgranato gli occhi, gli aveva lanciato una occhiata furente e poi si era chiusa in camera da letto a guardare la televisione.
E quando Dario l’aveva raggiunta all’una di notte, per dormire, lei era già persa chissà dove nel suo sonno.
Vicino al suo fianco destro aveva posizionato uno sbarramento. Al centro del letto, Dario guardò il tubo di cuscino, quello che lei usava spesso per sollevare i piedi stanchi la sera. Era la barriera che lei solitamente alzava per allontanarlo. Ogni volta che litigavano lei non replicava alle sue sfuriate
ma creava barriere contro la sua vicinanza. O andava a dormire in salotto pur di stargli lontano. Poi il giorno dopo, quando aveva voglia, ricominciava a parlare. Dario, la mattina, si svegliava sempre con il bisogno di lei; il suo corpo reagiva subito, pronto e allegro.

Ma stavolta quando si è girato sul fianco per sfiorarla ha finito con il premere la sua allegria contro il cuscino ed è rimasto interdetto. Per l’ennesima volta, quella barriera tra loro sanciva un risveglio triste.
Mara, dopo ogni discussione, si chiude in camera e alza la barriera in mezzo al loro letto. Dario va a sfinirsi di seghe in salotto, guardando i film porno sul pc. I gemiti di quegli estranei soffocano dentro le sue orecchie protette dalle cuffie e lei manco se ne accorge.
Dario appoggia sulla tavola il giornale e mescola lo zucchero dentro la tazzina del caffè.
Guarda Mara che gli da le spalle.
Avrebbe preferito, si dice, una evoluzione alle loro baruffe, un bel ring coi guantoni per darsele di santa ragione e poi, una volta stremati, ridere e fare di nuovo all’amore.
E’ stanco di litigare per delle stupidaggini. “Lavoro, porto a casa uno stipendio decente – pensa – Certo non possiamo permetterci regali extralusso e viaggi ai Caraibi o weekend alle Terme. Ma non abbiamo una vita di stenti e segreti. C’è amore tra noi”.
Dario sente la stanchezza di litigare se dimentica la porta del frigo aperta, il calzino finisce sotto il letto a riempirsi di polvere e la tavoletta del cesso resta, troppo spesso, sollevata. Ha provato a segnarsi le cose per ricordarsele ma spesso torna a casa stanco e se ne dimentica.
Mara, per ogni sua azione sbagliata, parte con la ramanzina. Gli pare di sentire sua madre ogni volta che lei mette la quinta sulle sue recriminazioni. E a lui tocca arrabbiarsi, per togliersi dall’impaccio.
Nei primi anni del loro matrimonio non era così _ si dice ancora Dario _ non guardavano con pignoleria ad ogni difetto dell’altro.
Poi l’astio ha bussato alla loro porta e si e’ piazzato sul divano ad osservarli. Presto avrebbe finito per il percorrere ogni angolo di quella casa, si dice Dario. Il matrimonio è la tomba dell’amore. E loro due, pensa Dario, stanno scavando una lunghissima trincea.

Mara guarda fuori dalla finestra e pensa che un’altra giornata noiosa sta cominciando in quella casa dove tutto è abitudine. Si annoia, Mara, di tutto. Da mesi non vede la sua vita se non come una noiosa ripetizione di gesti e azioni. Un dejà-vu continuato, di cui può anticipare parole e pure gesti e situazioni. Un giorno sempre uguale senza neanche l’emozione di veder se la marmotta, uscendo dalla tana, vede la sua ombra o meno. Non le era successo niente di particolare per diventare così apatica. Una mattina ha acceso la radio e un medico parlava di menopausa e spiegava che di solito arriva ai 50 anni. Mara li avrebbe compiuti tra un anno e pensò, quel giorno, ascoltando il medico, che sparita la fertilità, non si sarebbe più sentita donna. E il malumore, di fronte a quella improvvisa consapevolezza, divenne il suo confidente. Si alza la mattina ed è arrabbiata. Ogni gesto di Dario la infastidisce, le sembra di aver a che fare con un bambino. Ma lui di anni ne aveva 52 e a quell’età si è adulti.
Ma gli uomini non hanno scadenze se non quando entrano in una bara. Le donne, invece, pensa Mara, scadono prima e lei si sente addosso le lancette delle ore che passano. E così passa le giornate ad annoiarsi e al ritorno a casa del marito sfoga il malumore rimproverandolo e ogni volta che lui le si fa più vicino per giocare lei si scansa, timorosa che lui avverta la prossima trasformazione. Teme che lui senta l’odore della scadenza in arrivo. E si arrabbia. Le piacerebbe _ si dice _ un giorno fare qualcosa di diverso: tirare uno schiaffo a Dario, magari, e non battere la ritirata nella sua fortezza tra i cuscini.
Certo, la mattina ha voglia di Dario, del suo odore e del suo corpo. Ma cerca di non pensarci, ha paura di provare e non sentire più niente.

“Ma tu mi desideri ancora?”. Le parole di Dario le rimbombano in testa come una martellata, all’improvviso mentre vaga nei suoi pensieri.
“Ma che stai dicendo, certo che ti desidero”, risponde lei girandosi verso il marito.
“Oh, finalmente mi guardi. E’ un’ora che fissi la finestra e mi dai le spalle”.
Mara legge sulla faccia di Dario tutta la sua incapacità di capirla.
E’ domenica, un’altra noiosa domenica a casa.
A lei torna la voglia di tirargli quello schiaffo e andare in strada a passeggiare. A Dario viene voglia di tirarle un manrovescio e andare al bar.

Lei scaccia il pensiero e va in salotto. Il computer di lui è in stand by sul tavolino davanti alla televisione. Lei sfiora la tastiera e lo schermo si accende inquadrando una foto porno. Un uomo si masturba su un divano mentre una ragazza gli sta seduta sopra la faccia. Sembrano spassarsela.
Mara pensa che anche lei e Dario se l’erano spassata, molto. Poi pensa che Dario è un porco.
Lui l’ha raggiunta, vede la foto, le sorride.
“Sai, Mara, mi manchi”. Lo dice quasi per scusarsi della foto dimenticata sul computer.

“Dario io il prossimo anno faccio 51 anni _ risponde lei, seria _ significa che arriva la menopausa. Lo sai cosa vuol dire? Che non sarò più donna. Non ti farò più godere e io non sentirò niente”.
“Ma che dici Mara, non è vero. Chi dice che il sesso è bello solo da giovani, non sa niente. Prova a chiederlo a mia madre e vedrai cosa ti dirà lei”.
Mara si scansa.
“Tua madre ha settant’anni Dario”.
“Con mio padre fa sesso più di noi due”, risponde lui.

A quel punto Mara si stufa, prende il portamonete.
“Esco, vado a prendere le sigarette”.
Dario, rimasto solo, sprofonda nel divano e resta a fissare la foto di quei due che se la stanno spassando mentre lui no.
Ripensa alle parole della moglie, a quel “non potrò più godere” e la rabbia gli monta dentro. Non aveva mai pensato fino a quel momento di aver sposato una cretina. Roba da non crederci.
Eh, ma si dice, le avrebbe fatto vedere lui come sarebbero andate le cose tra loro. E più si arrabbia, più gli arrivano segnali di vita remota sotto la cintola dei pantaloni.

Quando Mara rientra, lui la aspetta davanti alla porta della cucina.
“Seguimi”, le dice.
Mara obbedisce, tanto si immagina già una riedizione della discussione lasciata interrotta poco prima.
“Io preparo il tè, tu va in camera e spogliati”, le dice lui.
Mara resta interdetta ma lo fa. Va in camera, toglie pantaloni e maglia e infila la sottoveste che usa di solito per dormire.
Quando Dario arriva in camera con il vassoio con sopra la tazza piena d’acqua e dentro la bustina del tè, le rivolge uno sguardo sornione.
“Ti ho detto di spogliarti, non di metterti la sottoveste. Ti voglio nuda”.
Mara muove la testa da sinistra verso destra. Ripete due volte.
Dario le risponde alzando e abbassando la testa. Ripete tre volte.
Lei, di malavoglia, toglie la sottoveste e gli slip e resta nuda.
“Coricati sul letto, cara”.
Mara obbedisce e sente che qualcosa non quadra: il dejà-vu nella tua testa non risponde bene, insomma suo marito fa quello che gli pare.
Lui le sistema il cuscino dietro la testa.
“Adesso, se non ti dispiace, ti bendo gli occhi”.
E Dario non aspetta neanche che Marta accenni un sommesso no, lega sopra il naso una benda di raso nero, quella che lei usa tutte le sere per sollevare i capelli prima di struccarsi.
Mara vede solo nero, adesso, la luce è solo un lieve velo grigio.
E’ nervosa ma la voce di Dario le permette di capire dove lui si trova. Ora si allontana, poi sente la voce vicinissima all’orecchio.
“Rilassati”, le dice lui, accarezzandole il viso.
Poi silenzio.
Un tocco come di cucchiaio che viene appoggiato ad un piatto.
Mara cerca di capire.
All’improvviso, inarca la schiena verso l’alto come se una corrente elettrica la stia percorrendo tutta, dalla punta dei piedi all’ultimo capello.
Sente un calore, fortissimo, in mezzo alle gambe. Liquido che scende sul clitoride, calore che si espande fin sotto le cosce.
Sente la mano di Dario cingerle i fianchi e poi un sollievo farsi strada.
E’ la lingua di Dario adesso, prima lenta e poi veloce.
Poi torna ad inarcare la schiena, adesso la vagina le pulsa dentro la testa.
Lui sta in silenzio, Mara può sentire il suo respiro che si fa sempre più pesante. Lei riesce a dire solo “ancora”.
E lui ricomincia: prima il caldo che si espande e dilata e poi il fresco della sua lingua.
Ripete l’azione in un tempo infinito e Mara non riesce più ad elaborare un pensiero più lungo di un fremito.
Lei cerca la sua testa con la mano, si aggrappa ai suoi capelli, ansima ad ogni cambio di temperatura.
Sorride nel sentire il suo corpo farsi fluido, urla la sua gioia.
Allora Dario ferma la mano e la lingua, le accarezza la pelle che si calma.
E poi torna a muoversi, stavolta è dentro Mara e solo allora le toglie la fascia dagli occhi.
Lei vorrebbe chiedergli dove comincia lui e finisce lei.
Sta zitta.
Si guardano. Si riconoscono. Ricominciano.

Vagheggio astigmatico da 47 a 132

Posso mettermi i tappi nelle orecchie, chiudere le finestre, staccare tutte le spine degli elettrodomestici e pure togliere la suoneria del telefono. Ma non ci sarà mai silenzio in me.
Camminando, con le orecchie tappate, mi pare di sentire il colpo della ciabatta sul pavimento e allora mi stendo sul letto. Cerco di restare ferma, immobile, per non farle frusciare le lenzuola appena cambiate. Il tatto immediatamente mette voglia di sentirlo muovere questo cotone pulito.
Il gusto frega, di solito. Il tatto e l’udito condannano alla dipendenza.
Ma scaccio il pensiero.
Niente, non devo volere niente. Non è più tempo.
Mi stendo su questo lenzuolo con la flemma di un fachiro allenato, deciso a non provare niente. E’ facile, mi dico, è come entrare ogni giorno in un centro commerciale. Lì la gente, semplicemente, non vede.
E allora ci provo. Non mi muovo e già che ci sono, trattengo pure il fiato. Idiota, mi beo dell’attimo della conquista. Ma dura poco.
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Arriva lui, con il passo silenzioso di un gatto che punta la preda. Il battito del mio cuore si fa strada nel finto silenzio delle orecchie tappate in cui il mio cervello si è accomodato, passa dentro al condotto uditivo, solletica il timpano, e si mette comodo lì, a sussurrare al cervello.
E’ il battito, adesso, ad imporre il ritmo, il respiro si accoda e vanno a tempo. Ci sono solo loro e sembrano alzar la voce, insieme.
Il suono è un movimento nello spazio, prodotto da una sorgente e anche se provi a fermare tutto, ci sarà sempre questo cuore scheggiato, che ti batte dentro il petto, anche se non lo vuoi, a produrre quella maledetta vibrazione. E il mio corpo adesso è una grancassa.
Guardo verso la finestra. Le gocce della pioggia rimbalzano sul vetro. Piove. Immagino il rumore del temporale che si fonde con quello del cuore e del respiro e assieme mi camminano sulla pelle. E lei, stronza, prende il passo del gatto, e ha voglia.
Del rumore delle lenzuola su cui strofinarsi per odorare di pulito. Dell’odore della pioggia di là del vetro sotto cui andarsi a bagnare.
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Il silenzio è solo una fantasia, che ci imponiamo per non sentire.
Siamo fatti di ritmo e anche se ci mettiamo un casco di cartoni per le uova sulla testa, e lo teniamo fermo con mezzo metro di cellophane e un paio di cuffie vecchia maniera, finiamo col sentirlo quel rumore, continuo, perché noi, di ritmo ci facciamo per sentirci vivi.
E desideriamo, vogliamo toccare e sentire, usiamo le mani per dare piacere e chiediamo mani che ce lo diano. E cerchiamo parole che ci proteggano da quello che non sappiamo. E comodità che annullino il bisogno di rischiare. E ci obblighiamo a non dire mai di no per non lasciare agli altri il compito di dircelo. E scordiamo il grazie e preferiamo all’amore una gabbietta per canarini.
Ma quando il cuore scheggiato cambia passo, ci accorgiamo di tutto questo e gli occhi astigmatici con cui si guarda al mondo, offuscandolo in continuazione, scambiando bisogni per amori e calessi, mugugni per amplessi, sogni per incubi…vedono meglio. E’ come quando ti trovi per giorni a vivere tra prati e alberi e il verde del semaforo, quando torni a casa, quando torni al grigio del cemento della città, non ti è mai sembrato così verde. E i capannoni li senti corpi estranei e pure le abitudini non le senti più tue.
Ci vedi e lasci che la mano vada, dove deve andare.

Post scriptum: grazie a Rino e Lorenzo per lo spaccio di bpm sonori