Sarà deformazione professionale, ma io, quando passeggio per le vie del centro le epigrafi funerarie mi fermo a guardarle. Voglio sapere chi è che se ne va e talvolta trovo delle facce che conosco, solo per i lineamenti del viso, che poi a me sembrano sempre diverse le facce dei morti nell’epigrafe da quelle dei vivi che ero abituato a incrociare, passeggiando, per le vie del centro o alle Poste o in banca.
Il centro è il mio microcosmo, ci cammino avanti indietro più volte al giorno, mi tengo in movimento e vedo le facce della gente e alcuni li riconosco anche se non so chi siano, perché ci si vede tutti i giorni e io con questi volti ci instauro una sorta di empatia che mi fa dire poi quando incrocio i loro volti sullo sfondo bianco dell’epigrafe che quella persona non mi era estranea, ma la conoscevo, anche se il nome lo scopro solo adesso, sul foglio che invita tutti ai funerali giovedì alle ore 11 al Duomo.
La Fernanda è una di queste persone, senza nome, ma non sconosciute. La vedevo tutti i giorni alle 11 spaccate al bar da Gino: io bevevo il terzo o quarto caffè della mattina (l’unità di misura dipende dalle rotture dell’inizio turno), lei era almeno alla terza ombra di rosso. Capelli color mogano, lisci, sembravano spaghetti che le cadevano dalla testa, l’immancabile cappotto color cammello, l’occhiale scuro a coprire le occhiaie del viso scavato dall’età. Silenziosa, entrava con il passo leggero e neanche doveva far la fatica di ordinare. Sapevano che le andava bene un rosso di qualsiasi bottiglia aperta, non faceva problemi. Non girava mai con la borsetta, come le altre signore della sua età. Una volta, dopo che se ne era andata con il suo passo lento e impercettibile, quelli del bar mi avevano detto che lei lasciava in conto le ombre, pagava tutto al 28 di ogni mese, regolare come un orologio atomico. Non saltava mai un mese anche se voleva dire andar al bar con le ciabatte di casa ai piedi e la febbre. Tanto doveva far tre isolati a piedi, da casa sua.
Qualche volta usciva anche di giorno con le ciabatte rosa, di quelle di spugna, le calze contenitive color fumo di Londra che le stavano larghe da quanto era secca e il cappotto cammello. Una volta, al bancone, mi era venuta accanto e attraverso l’apertura del cappotto avevo visto la camicia da notte azzurrina sotto. Era uscita senza cambiarsi. Ma nessuno le diceva niente, nessuno la prendeva in giro. La Fernanda dal passo lieve ti passava davanti come un fantasma in carne e ossa.
L’unica volta che mi rivolse la parola ero fuori dal bar a fumare una sigaretta prima di rientrar in ufficio. Si fermò accanto a me e la vidi solo quando mi era ad un passo. “Ho visto la gente scema”, mi disse. E se ne andò.
E’ morta a 73 anni la Fernanda, lo leggo sull’epigrafe. La piangono i due figli, le cognate, i tre nipoti. I funerali sono domani alle 11 al Duomo. La guardo nella foto e fatico a riconoscerla. Aveva gli occhi verdi e io quegli occhi non li avevo mai visti. Nella foto è truccata, ha pure il rossetto. E io ho sempre e solo visto le sue rughe sulla faccia silenziosa.
Si fermano dei pensionati, guardano la foto e commentano. Dicono che era la alcolista che tutti i giorni era in piazza. Io ascolto i loro discorsi. Non disturbava nessuno ma faceva solo pena la Fernanda. E io ripenso a quando mi ha detto: “Ho visto la gente scema”.
Poi me ne vado e mi accendo una sigaretta, non passo per il bar oggi che sono di fretta. Ho commissioni a raffica da sbrigare per l’ufficio e allora prendo l’auto e mi dirigo verso la tangenziale. Al semaforo, dall’altra parte della strada, c’è un’auto ferma. Il semaforo è sul verde, ma il conducente non parte e dietro di lui c’è un autobus del servizio di linea, con l’autista che bestemmia e pigia sul clacson. La pigiatura produce solo un rumore sgonfio, una pernacchia ovattata e quello della macchina davanti manco si scompone. E intanto passano i secondi e il semaforo torna sul rosso. E quello in macchina, allora, si accorge di aver perso il tratto, alza la mano in segno di scusa, e ha degli occhi così vuoti che mi pare, quando gli passo accanto, che dentro non ci sia manco più spazio per le lacrime.
C’ha una faccia che non conosco ma ha degli occhi che ho già visto.
Occhi spenti, di chi pensa che domani non sarà un altro giorno e si vedrà.
No, lui lo sa che ci sarà ancora merda da mangiare, con il cucchiaino, lentamente, senza turar il naso.
Ha gli occhi identici a quelli del mio amico, che l’altra sera, è venuto a suonar a casa mia, per chieder se gli presto 5 mila euro per coprire i debiti degli interessi accumulati con i prestiti delle carte di credito che ha preso, approfittando delle offerte delle Finanziarie.
Sono gli stessi occhi della quarantenne che porta il figlio alla stessa scuola del mio e che si è separata dal marito perché amava un altro uomo. Così mi ha raccontato mia moglie. Ma lui non ha mica fatto lo stesso, è rimasto con sua moglie per quieto vivere e a lei, che era bella di un bello semplice, non so dire bene, ma gli è venuta fuori una ruga sul viso che le ha spento gli occhi.
C’aveva quegli occhi lì anche Sergej, che è apparso l’altra sera al bar, con una faccia dura, da russo incazzato, che faceva paura. E ci sentiva, a me e gli amici, parlar delle solite cose, dei figli che costano, della moglie che sbuffa, dei conti di fine mese, che ad un certo punto il Gino ha tirato fuori la storia che era meglio farsi prete e candidarsi al ruolo di patriarca, che far sta vita grama, e noi a chiedere come mai ci toccava a noi un patriarca che è più di un vescovo, e lui, il Sergej si è avvicinato e pensavamo che si fosse arrabbiato perché il Gino era arrivato a spiegarci gli ortodossi, che son russi, si sa, e lui invece si è messo a dire che stava per tornare a casa per aprir la ditta in Ucraina al suo padrone , che voleva ampliar il business e quello l’aveva nominato due ore prima direttore e non aveva nessuno con cui festeggiare la promozione. E allora gli abbiamo offerto noi la birra, ma ci aveva degli occhi quando gli abbiamo chiesto da quanto mancava da casa e lui ci ha detto che erano 5 anni. Cinque anni che lavorava di continuo e mandava i soldi a casa, con una lettera, attraverso i corrieri abusivi che partono dalla stazione con i furgoni il venerdì e dei suoi figli sentiva la voce il sabato, ogni 15 giorni, sennò spendeva troppo.
E adesso se mi guardo io allo specchietto retrovisore li vedo quegli stessi occhi, sulla mia faccia. Son sei mesi che mia moglie mi dorme accanto come se fossi morto. Lei si gira dall’altra parte per non sentir il mio fiato e se la sfioro, si scosta come se provasse uno schifo che non le esce dal cervello ma direttamente dalla pelle. E a me ogni sera, vien da dirle di sparire dalla mia vista, che se le faccio così schifo a pelle, sarebbe meglio se scomparisse lei e tutta la sua dinastia e poi invece non lo faccio, perché so che , dopo, sarei solo e non saprei cosa farmene della mia libertà a sessant’anni. Sarei dentro una casa in cui l’unico battito cardiaco è il mio e sentirei quel ritmo scandire solo la mia marcia funebre. E allora scaccio il vaffanculo e cerco di dormire.
La gente scema
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gli occhi non tradiscono mai. bello Mitia 😀
Non ti leggo sempre, ma quando lo faccio, perchè ne ho il tempo e soprattutto la capacità, nel senso che…è scritto in ‘blu’:-( e devo solo pigiare un tasto…mi “arricreo” (intraducibile in italiano!) e non posso che scriverti che sei bravissima..non scrivi, secondo me dipingi! 🙂
Nel punto “Sono gli stessi occhi della quarantenne che porta il figlio alla stessa scuola del mio” ho detto “Nuoo, la Mitia c’ha un figlioo! Ma se non ne parla mai!”
🙂
Anche io guardo le epigrafi quando torno al mio paese. è un’abitudine, un dovere, un uso ed un costume.
grazie a tutte e tre 🙂
Linda: ma daiiiiiiii 🙂
Perfetto, questo pezzo è perfetto.
Non inizia e non finisce. Come la vita, si interrompe.
io non ti dico niente, che poi sembro ripetitiva 🙂
Molto, molto bello. Grazie 🙂
un racconto ben riuscito.direi bello, anche se quello che c’è dentro non lo direi bello.
che poi ognuno vede negli altri la propria solitudine. io così vedo la mia: http://www.nevereasy.it/wp/?p=185
comunque bello.
Ho visto anche la gente triste, qui dentro…
… senza parole