La notte che ho parlato col vento

Il bambino mi guarda, mi fissa e mi sento in imbarazzo e giro lo sguardo.

Guardo verso la finestra.

E’ notte e c’è vento e gli alberi si piegano quasi a toccare terra.

“Non esci?”, mi chiede il bambino.

“No, resto qui”, gli rispondo e continuo a fissare la finestra e fuori c’è il vento che scompiglia tutto. E io ho voglia di uscire, ma resto dove sono.

“Vai, a te piace il vento”, mi dice lui.

“Lo so ma non sempre tutte le cose che ti piacciono poi le fai”.

“Come? Sei tu che dici che deve essere la passione a muoverci”.

Mi giro a guardarlo, infastidita. E’ piccolo come un neonato ma ha lo sguardo da uomo, maturo.

“Cosa vuoi da me? Che ci fai qui?”.

“Mi hai chiamato tu”.

“Ah, l’ho fatto io? Non mi pareva”.

“Ho sentito perfettamente la tua voce”.

“Lo dici tu”.

“Lo dico io”.

Tace e si gira a guardare la finestra. Il vento sibila e muove il vetro, il rumore è lieve e costante. Un tremolio continuo.

“Cosa c’è che non va?”, mi chiede senza guardarmi.

“Non c’è niente che va male, niente. Solo che è bene che stia ferma. Se mi muovo, vado dove non devo andare”.

Il bambino si avvicina alla finestra e diventa di colpo più alto, adesso ci arriva da solo alla maniglia e la afferra.

“Non far entrar il vento”, gli urlo.

Lui non mi ascolta e apre e una folata d’aria lo fa volare all’indietro, vicino ai miei piedi. Rotolando come una pallina sul pavimento.

Lui ride. Io rido.

“Mi prendo io cura di te, il resto lo fa lui”, mi dice, rialzandosi.

Il vento adesso è dentro la stanza e mi gira attorno, improvvisa un vortice ma non mi tocca, forse sente che non ho voglia di lui e sta lontano.

“Ne sei sicuro? Sei piccolo, tu”, rispondo al bambino che adesso è tornato della misura di un neonato. Sul volto, quell’espressione seria che ti prende in giro.

“Sarò piccolo, ma so ballare”.

“Anche io. Sarai bello da grande, con quella faccia un po’ così…”.

“Lo so – mi risponde – sono come tu mi vuoi, mi hai chiamato tu, dimentichi?”.

“Sì, e adesso che si fa?”.

“Ovvio, balliamo”, mi dice il piccoletto, “la musica la metto io”.

Mi alzo dalla sedia, gli tendo la mano e lui la afferra, ha le manine che sembrano panetti di burro, ma sono forti. Improvvisiamo un girotondo con il vortice che ci gira intorno e io giro e lui gira e il vento, attorno a noi, gira in circolo pure lui e ogni rotazione è un suono di melodia cupa ma che non fa paura, che scioglie i nervi e i muscoli e il volto sorride ad arco e dalla bocca escono risate.

Poi il bambino si stacca all’improvviso e piroettando si allontana.

“Adesso fai tu”, mi dice.

E io sorrido e annuisco. E obbedisco.

E allora il vortice del vento mi accerchia e più gira, più si avvicina e io allargo le braccia e lui, il vento, mi viene addosso e diventa tutt’uno con me e i miei capelli vagano. Il bambino ci guarda da lontano e se la ride di quella danza concentrica, goffa ma divertita.

Adesso ha i capelli lunghi, che vagano da soli sopra la sua testa e che indicano i movimenti, come un coreografo al corpo di balletto. 

E io mi sento vento, e sto finalmente bene.

  1. Io ammetto che probabilmente non ho colto la cifra profonda, la scintilla che accende questo racconto…

    Ma come dicevo, si sente che ti piace la musica, oltre che per il ritmo per il “tessuto”… i movimenti scivolano come note, a tratti.

    Questa è la sensazione che mi ha dato, almeno…

  2. michiamomitia

    E’ ispirato ad un sogno fatto, @peppermind

  3. nonsonoqui

    Trovo la tua scrittura sapiente, evocativa, pulita. Ho letto qualche tuo racconto e ne ho avuto un’impressione decisamente positiva, mi ha impressionato la tua sensibilità e la tua capacità di trasmetterla al lettore. Aspetto trepidente altri recconti!
    p.s. da quanto tempo scrivi, se posso chiederlo?

  4. michiamomitia

    ciao @nonsonoqui, il tuo commento ha una sola risposta, arrossendo: grazie. Da quanto scrivo? Forse da sempre, mi vien da dire. Solo che fino ad un anno fa non avevo, diciamo, il coraggio di far leggere a tutti i miei raccontini.
    Ciao

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