Flash – revisited

“Il valore della protesta, il diritto di alzare la testa e dire che una cosa non è giusta spesso te la ritrovi trasmessa come un gene dai tuoi genitori. Ho alcuni flash incisi dentro di me, come marchi a fuoco sulla pelle”. 
foto di Giacomo Cosua
Era l’ottobre 2008 e scrivevo questo sul mio blog, l’altro, hotelushuaia. Lo rileggo oggi che è la festa del papà. Da piccola, gli scrivevo bigliettini di auguri. Rileggo e mi accorgo che anche questo scritto è una sorta di biglietto di auguri. Solo più adulto. Rileggo e molto altro avrei da dire. E allora , pensando al mio rapporto con Carlo, e alla nostra storia, rileggo e rivisito “Flash”.

“Io bambina che dormo nel lettone di mamma e piango perché mi manca papà. 
Riuscivo a dormire bene solo con lui, quando mi teneva a cavallo del suo braccio. Ma in quei giorni, era il 1971 , lui a casa non tornò per settimane, stava occupando _ lo capii anni dopo _ la sua fabbrica, la Sava di Marghera, per protestare contro la chiusura. Erano gli anni in cui la polizia sparava per la prima volta a Porto Marghera contro gli operai. Erano anni difficili, mio padre non tornò a casa per giorni e mia madre prendeva la bici e gli portava da mangiare. Passava il sacchetto con il pranzo attraverso le inferriate del cancello. Io allora non capivo. 
foto di Giacomo Cosua
Anni dopo ci fu l’abbraccio più forte con mio padre, quando oramai avevo capito il suo impegno nella politica. Avvenne a 45 metri d’altezza. Era il 1998, la fabbrica stava chiudendo a causa della crisi dell’alluminio. Io all’epoca già lavoravo. Venni a sapere che c’era una emergenza nella fabbrica occupata. Ero con un amico operatore televisivo per documentare la vicenda. Puntammo l’obiettivo della telecamera sulla fabbrica al di là di uno dei canali industriali: fu allora che vidi sul tetto del silos mio padre. Pensai che era lui l’uomo, che, disperato per la perdita del posto di lavoro, voleva lanciarsi nel vuoto. Una volante della polizia venne a cercarmi, chiedevano di me fuori dalla fabbrica. In lacrime entrai nello stabilimento e quei minuti dentro l’ascensore per salire i 45 metri del silos, li passai a piangere. All’improvviso la porta si aprì e vidi mio padre. La faccia dura, arrabbiata. Portava una corda legata al petto, e quella corda terminava oltre il parapetto, dietro le sue spalle. Lo guardai e gli chiesi cosa cavolo stesse facendo. Lui, serissimo, si spostò per farmi vedere l’uomo che urlava aggrappato al parapetto, con sotto solo il vuoto. Passai due ore a parlare a quell’operaio per convincerlo a lasciar perdere, la sua vita valeva di più di una fabbrica di alluminio in fallimento. Mio padre era al mio fianco. Se quell’uomo cadeva, mio padre cadeva. Quell’uomo si era aggrappato al mio braccio; se cadeva lui cadevo pure io. Alla fine, riuscimmo a convincerlo a lasciar perdere. E una volta superata l’emergenza, mi ritrovai abbracciata a mio padre, come mai avevamo fatto fino ad allora. Lui, uomo di poche parole e di tanto impegno politico, non riteneva che i gesti d’affetto forgiassero il carattere. Quel giorno andò diversamente: eravamo così felici che baciammo ed abbracciamo anche un vecchio commissario di polizia che era stato con noi per tutto il tempo, ad ascoltare quell’uomo disperato e i nostri discorsi di conforto. 
L’ultimo flash mi porta a mia madre. Siamo negli anni Duemila. Mia madre all’epoca puliva gli uffici di una nota azienda. Colpa di uno dei mali d’Italia, gli appalti al massimo ribasso, iniziò lo sciopero delle ramazze. Uffici sporchi da giorni, le donne a picchettare l’ingresso con i turni nella tenda dell’occupazione. Per non perdere il posto di lavoro. E un gruppo di crumiri, gente che aveva bisogno di lavorare allo stesso modo di quelle donne, parcheggiati dentro un bus in attesa di entrare a pulire, approfittando di un momento di stanca. E io dalle 5 del mattino a partecipare al picchetto, per vigilare sul comportamento delle forze dell’ordine. Alle 8 del mattino dopo una settimana di occupazione, partì la carica dei poliziotti. Un amico mi aveva avvisato. “Porta via tua madre che carichiamo”. Non potevo rispondere altro: “Spostala tu, se ce la fai”.
Partì la carica, con tanto di cesoie a tagliare le catene che le donne portavano come bracciali in segno di protesta. Mi sentii gelare, corsi verso i poliziotti, urlando loro di fermarsi. Avevo paura. Mia madre teneva in mano il mio cellulare, urlava, bestemmiava. Chiamò i carabinieri per denunciare l’aggressione da parte dei poliziotti. Finì in un modo che ancora oggi mi da i brividi: i crumiri scortati a piedi dai poliziotti si allontanavano dagli uffici, con un cordone di carabinieri attorno, e decine di donne inferocite che gli sputavano contro, che lanciavano uova. Mia madre difendeva il suo posto di lavoro con i denti, come mio padre trent’anni prima difendeva il suo, occupando una fabbrica.
foto di Giacomo Cosua
E con la stessa grinta che ci aveva messo mio nonno, pescatore di vermi chiamato a far il soldato, quando dovette scegliere da che parte stare nell’Italia in balìa del nazifascismo. Mio nonno scelse di fare il partigiano e morì tornando a casa dopo la Liberazione. Una camionetta nazista lo intercettò lungo la strada verso casa e gli lanciò addosso una granata. Una volta vidi a casa di una vecchia zia le foto del suo funerali, i compagni con i fucili a scortare la sua bara. Lui pescava vermi, mica era un intellettuale, ma scelse senza timore da che parte stare, voleva difendere il suo paese, l’Italia. Voleva essere libero. 
La stessa grinta la mise mio padre, aiutando un compagno di lavoro disperato a non suicidarsi. Per la cronaca, oggi quell’operaio vota Lega Nord.
Mio padre, dopo la morte del Pci e il tracollo di Rifondazione parla sempre meno. Oggi lo vedo che fa fatica anche a guardare il telegiornale. La situazione politica italiana lo lascia sgomento, a volte non ha parole. Altre volte si indigna, come può, davanti al bollettino infame delle morti sul lavoro o pensando al clima pesante che si vive oggi in Italia. Ma lui un ideale ce l’ha e a quello si aggrappa, per continuare a credere che un mondo migliore sia possibile. I miei genitori mi hanno insegnato questo: che è nel tuo Dna combattere.

  1. “..per continuare a credere che un mondo migliore sia possibile…”.
    si, è possibile, anche grazie a gente come loro.

  2. michiamomitia

    verissimo!

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